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Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto. Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin

 

Bruno Moroncini

Il lavoro del lutto.

Materialismo, politica e rivoluzione
in Walter Benjamin



Mimesis, Milano 2012, pp. 198,
ISBN 978-88-5751-407-9

 

 

Il centro teorico-problematico del nuovo libro che Bruno Moroncini ha dedicato a Walter Benjamin è quello di un'etica materialista che renda possibile la costruzione di una politica rivoluzionaria.

Troppe sono state le disillusioni che il Novecento e il primo decennio del nuovo secolo hanno consegnato alla sinistra che ancora non vuole arrendersi alla imperante socialdemocrazia e che continua a dichiararsi “comunista”. Tuttavia, anche le disillusioni storiche e politiche devono insegnare qualcosa; innanzitutto ci devono insegnare che cosa una rivoluzione non può (e non deve) produrre. Che cosa hanno prodotto le rivoluzioni moderne? Se con un unico sguardo volessimo dar conto delle due grandi rivoluzioni della modernità, quella francese e quella bolscevica, allora potremmo rispondere: il Terrore in un caso oppure, dall'altro, un tipo di totalitarismo dell'uomo nuovo – somigliante a quella pax romana «di cui parlava Tacito, ossia un deserto forse felice ma senza desideri e senza ebbrezza», come scrive Moroncini (p. 13). Entrambi questi esiti rivoluzionari si fondano su delle illusioni. Il Terrore sull'illusione che sia possibile creare delle istituzioni rivoluzionarie, che rendano “permanente” la “discontinuità” della rottura rivoluzionaria (p. 12). D'altro canto, l'idea della costruzione di una “nuova umanità” o del “regno di Dio sulla terra” non solo è una secolarizzazione della teocrazia politica, ma si basa sulla rimozione della “materia” della storia umana, materia che, con un termine che non fa parte del lessico marxiano, potremmo chiamare le “singolarità”; singolarità non solo umane, ma delle cose, degli stessi “viventi”. Per dirla con il Benjamin studioso del barocco, un'etica compiutamente materialista e una politica radicalmente rivoluzionaria hanno invece il compito di «salvare i fenomeni, ossia tutte le cose, i viventi e gli umani» (p. 111).

Prima di tentare di render conto della tesi teorico-politica di Moroncini, legata alla riproposta della parola d'ordine di “comunismo”, chiediamoci innanzitutto che cosa qui si intenda con l'espressione “etica materialista”. Per farlo, per comprenderne le ragioni di fondo, bisogna pensarne l'opposizione non solo alle etiche “idealiste” ma, ancora più radicalmente, alle etiche capitaliste in tutte le loro forme.

 

Posto che la storia umana – secondo la famosa immagine della IX delle Tesi sul concetto di storia di Benjamin – sia fatta di “rovine” e di “macerie”, un'etica “materialista” è quella che in primo luogo si oppone a qualunque tentativo idealista di “simbolizzarle” e di “spiritualizzarle”. Le rovine sono l'inciampo di qualsiasi filosofia idealista; esse sono gli “accidenti”, i “residui”, gli “scarti” della trascendenza dello Spirito, del Geist che si ritiene che sia in grado di “assorbire”, “rilevare”, aufheben, le “differenze materiali” dei corpi, delle generazioni umane; che si concepisce in grado di rendere ragione dei desideri umani, delle loro spesso inevitabili sconfitte, della morte stessa. Le rovine per Benjamin non sono dialettizzabili perché non sono “assorbibili” nel progresso dello spirito; esse sono, volendo parafrasare una nota affermazione di Lacan a proposito del “reale”, ciò che non cessa di non scriversi nella storia.

In secondo luogo, l'etica materialista si oppone, a fortiori, a qualsiasi “valorizzazione” (estrazione di “valore economico”) delle rovine. Da queste non può essere estratto “valore” economico e bisogna anche opporsi a qualsiasi tentativo di “estetizzarle” e, con ciò stesso, renderle surrettiziamente valorizzabili. Prendere partito a favore delle rovine significa quindi anche opporsi all'ideologia produttivistica che accomuna capitalismo e socialdemocrazia. Tra le rovine non c'è il plus-valore (che produce profitto), ma la fatica, la sofferenza, lo sfruttamento, tutto ciò che, per dirla con Marx, cade fuori dall'umanità e appare semplice vita “animale”. Tra le rovine ci sono anche i desideri di felicità, che si infrangono nelle relazioni umane – come quelli narrati da Goethe ne Le affinità elettive – e ci sono anche le merci, quando cadono fuori dalla produzione e divengono oggetto di collezionismo. Un'etica materialista delle rovine, secondo quanto argomenta Moroncini, non solo rifugge da qualsiasi tentativo di estetizzarle ma si tiene distante anche dal rischio dell'accettazione irenica, armonicistica e ideologicamente pacificante di qualsiasi cosa accada. Salvare le rovine non significa affatto salvare tutto ciò che è accaduto, non significa salvare la storia così come è stata, vale a dire la storia dei vincitori, la storia che si identica nel “progresso” della civiltà. Significa piuttosto sporcarsi le mani per estrarre dalle rovine ciò che non è ancora “attualizzato”, ciò che non si è “espresso”, la vera e propria “materia” della storia. Tale materia non deve essere intesa come un “fondo di senso” sempre ancora da scoprire e “valorizzare” – come, ad esempio, nella prospettiva dell'ermeneutica novecentesca. Ciò che nelle cose è il non-attualizzato non è ciò che potrebbe esserlo “in questo mondo”, ma è ciò che, se attualizzato, lo cambierebbe radicalmente. Benjamin lo chiama l'origine (Ursprung), intendendola come ciò che non si è sviluppato, come ciò che non è divenuto ma che, intatto, ci parla da una pre-storia che è anche, con ciò stesso, una post-storia. L'origine è ciò che resta di non detto, di non scritto, di non manifestato nel corso della storia (catastrofica) del mondo, così come essa è accaduta. È ciò che, come dicevo, se attualizzato produrrebbe con ciò stesso una rottura rivoluzionaria, in quanto renderebbe finalmente giustizia alle singolarità, ai desideri, alla finitudine dei viventi, alle cose-scarto, a tutte le rovine della storia. L'Angelus novus della IX tesi ha così un solo modo per andare verso il paradiso-rivoluzione: quello di guardare indietro pronto a “trattenersi” presso quelle rovine, pronto a “destare i morti” e a “riconnettere i frantumi”. Le Tesi sul concetto di storia non sono quindi solo una critica allo storicismo ma contengono la proposta di un'etica materialista, prima ancora che di una politica rivoluzionaria: «mentre la storiografia borghese abbandona al suo destino il lato morto, negativo, bollandolo come un disvalore, e sposa, anche se con spirito critico, quello del progresso e della positività, il materialismo storico-dialettico, pur lasciando immutati i parametri applicati, cioè l'opposizione vivo-morto, ma cambiando l'angolo di visuale, vede nel secondo non l'inerte e opaca massa di una materia inanimata, bensì i morti viventi che caparbiamente sopravvivono e, fermi in questa loro condizione fantasmatica, attendono giustizia e beatitudine» (p. 43).

Ecco quindi la proposta di Moroncini: la politica rivoluzionaria non può darsi che come “lavoro del lutto”. Nei fatti la sinistra mondiale, dopo la fine del Novecento e della guerra fredda, e in seguito all'avanzata inarrestabile della globalizzazione, è entrata in lutto, nonostante tutti i tentativi di rifondazione e di investimento libidico-politico sulle “moltitudini”. Il lutto può sempre degenerare in malinconia, è vero, in una una malinconia triste e puramente auto-distruttiva. Tuttavia, scrive Moroncini, «quanto più [il lavoro del lutto] può apparire interminabile, tanto più può divenire il tempo del lavoro creativo, la condizione necessaria dell'invenzione del pensiero. Il lutto è perdita irrimediabile e lavoro, spinta all'auto-distruzione e fatica del pensiero» (p. 166). L'espressione “lavoro del lutto” suona anche in Freud come un ossimoro, perché implica nello stesso tempo perdita e guadagno, non-essere ed essere per così dire. Ricostruire la propria vita (nonostante e intorno ad) una perdita irrimediabile; attestazione di finitudine e creazione di nuovi legami. Tuttavia, nella tesi politica di Moroncini, l'espressione suona imprevista e ancora di più provocatoria e paradossale. Perché non invita affatto a dimenticare i sogni di ebbrezza, felicità e giustizia del pensiero rivoluzionario novecentesco, ma invita a pensare che una politica materialista e rivoluzionaria non possa essere che una politica che sostenga il diritto ad essere delle singolarità, “organizzandole” politicamente perché, qui ed ora potremmo dire, si possa rendere giustizia a ciascuna di esse (una giustizia in-finita ma non ridotta a mero dover-essere), perché, qui e ora, si possa dare così l'assalto al cielo della rivoluzione. Perché rendere giustizia a ciascuna di esse significa distruggere le catene che le opprimono, concedendo loro l'unica forma di felicità umanamente possibile, quella che include per ciascuna il proprio tramonto: «felicità non è sospensione del tempo in un perfetto stato di natura, ma aspirazione di ogni essere terrestre al suo tramonto», scrive Moroncini. Lasciando sottintendere che nessuno è capace di tramontare da solo e che anche il tramonto faccia parte della giustizia che gli deriva dall'altro.