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Il tempo che noi stessi siamo. Ripetizione e desiderio in Kierkegaard

1. Il tempo che siamo

Il pensiero kierkegaardiano si alimenta di una feroce opposizione al suo tempo. Una contemporaneità avvertita come estranea, inesorabilmente diretta verso la deriva spirituale. Un abisso dell’anima che di lì a poco avrebbe intaccato le solide certezze della modernità. Kierkegaard l’inattuale, pensatore senza compromessi del proprio tempo: la questione della realtà della temporalità, la possibilità stessa di una sua effettiva pensabilità da parte della coscienza costituiscono le domande di fondo di tutto il suo itinerario speculativo. Si può leggere il proprio presente se si è in grado di penetrare il ritmo segreto del tempo che lo attraversa, di sintonizzarsi con l’immediatezza del suo accadere. È una scommessa ardua per il pensiero, chiamato a cogliere la volatilità del divenire senza cedere alla tentazione di volersi appropriare della sua verità. Kierkegaard è ossessionato da questa ricerca dell’immediatezza che considera la scommessa del suo tempo, l’unico viatico in grado di aprire alla ragione il varco di un nuovo, di un impensato, che è il senso dell’evolversi della storia. Nel compimento hegeliano del mondo, nella risoluzione del suo divenire nella monolitica fissità del concetto, c’è la traccia di un pensiero che ha tradito se stesso perché ha reciso i legami con l’originaria immediatezza. Nella dialettica c’è il fascino e la tensione di un movimento illusorio tradotto in staticità mortifera fuori dal flusso della vita. Il pensiero può ritrovarsi solo a patto di ricongiungersi al suo immediato darsi nell’esistenza. Il divenire dialettico si riappropria del suo movimento vitale solo a questa condizione. Ciò equivale a riportare la dialettica al suo reale manifestarsi nell’esperienza esistenziale dell’individuo. La struttura del tempo, il senso del suo divenire coincidono con la struttura stessa della coscienza. L’unica temporalità possibile è quel divenire che noi stessi siamo e che la coscienza qualifica come tempo. Si tratta di un evento, un accadere, non paragonabile al movimento ripetitivo della natura, troppo “astratta” per “avere una storia in senso superiore”1. Esso non si identifica nemmeno con la rappresentazionelineare del tempo cronologico, volta a cristallizzare il divenire nella fissità spaziale di immagini in cui l’uomo è spettatore, disinteressato ed estraneo, della sua storia. La temporalità come “successione infinita”2, comprendente le determinazioni di presente, passato e futuro, cela al suo interno un pericoloso equivoco. Essa si traduce in una immagine del tempo “rappresentato invece che pensato”, in cui l’istante è destinato a tradursi in una grottesca “parodia dell’eternità”3. “Se si potesse trovare nella successione infinita del tempo un punto fisso dove posare il piede, di avere cioè un presente che fosse capace di dividere, allora la divisione sarebbe perfettamente giusta. Ma precisamente perché ogni momento, così come la somma dei momenti, è un processo (un “passare”), ecco che nessun momento è presente; e perciò nel tempo non c’è né un presente, né un passato, né un futuro. Se si crede di poter mantenere questa divisione, allora, è perché si spazializza l’istante, ma con questo la successione infinita è arrestata”4. Il presente così inteso non è il “concetto del tempo” se non a patto di essere “infinitamente privo di contenuto”. Il “momento” che indica il presente nella sua astrazione dal passato e dal futuro, cela in sé la presunzione estetica di fare del finito il tempio dell’eterno. È l’errore tragico di Don Giovanni e la ragione profonda della sua mai soddisfatta corsa verso il piacere. Nel tentativo di poter arrestare il tempo, l’esistenza del seduttore si traduce in un infinito susseguirsi di attimi assolutamente privi di contenuto e quindi di godimento. La temporalità assume le vesti di una eterna ripetizione. Oltre ad essere quello lineare della successione infinita, il tempo estetico è anche quello circolare dell’eterno ritorno dell’identico. La successione infinita si curva in un movimento che torna su se stesso, caratterizzato dall’incessante ripetersi del rito di un godimento che “non sboccia, ma si getta innanzi senza tregua, come d’un fiato”.

Per essere fecondo, il “momento” (Oejeblik, nel senso letterale di batter d’occhio) non può essere una mera determinazione della finitezza. Esso deve implicare un rapporto ad un piano di trascendenza, quale unica condizione per conferire senso alla sua istantaneità. “Il ‘momento’ è quella ambiguità nella quale il tempo e l’eternità si toccano; con ciò è posto il concetto della temporalità, nella quale il tempo taglia continuamente l’eternità e l’eternità continuamente penetra il tempo. Soltanto ora acquista il suo significato quella divisione; il tempo presente, il tempo passato, il tempo futuro”5. L’istante è un tempo dentro il tempo che non annulla il precedente ma gli conferisce un nuovo e più profondo significato. Un tempo “non ulteriore ma interiore”6, come sottolinea Agamben, che misura la sfasatura rispetto al precedente, il nostro essere sempre e comunque in uno scarto rispetto alla nostra rappresentazione. In questa sfasatura originaria è la possibilità di compiere e di afferrare la temporalità. La storia ha inizio quando il finito entra “in rapporto colla determinazione dell’invisibile”7. Non si tratta del movimento universale di hegeliana memoria ma di un accadere individuale che, da solo, può sovvertire il corso del mondo. Come con Adamo il cui gesto singolo cambia il corso della storia e conferisce al genere umano una nuova dimensione. L’attimo si identifica con quell’evento che è il divenire della coscienza nell’individuo. L’uomo è “sintesi di anima e corpo ma, nello stesso tempo, egli è una sintesi di tempo e di eternità. […] La sintesi di tempo e di eternità non è un’altra sintesi, bensì l’espressione di quella prima, secondo la quale l’uomo è una sintesi di anima e corpo, portata dallo spirito. Appena è posto lo spirito, il ‘momento’ c’è”8. Lo spirito è la mutazione propria del divenire quale passaggio “dal non esistere all’esistere”, come Kierkegaard lo definisce nelle Philosophiske Smuler [Briciole di filosofia]9, nella cui volatile ambiguità si staglia l’evento del sé come libertà. Nel divenire, qualcosa di essenziale permane, perché a mutare è appunto questo e non un altro, eppure qualcosa di nuovo accade quale condizione fondante nella determinazione del movimento. Ciò che è necessario non può divenire, perché alla logica necessitante dell’“essenza” è misconosciuta quella possibilità che è fondamento del movimento esistenziale. “Un tale essere che insieme è un non-essere, è possibilità. È un essere che è essere, è l’essere senz’altro reale, ovvero la realtà; e la mutazione del divenire è il passaggio dalla possibilità alla realtà”10. Il divenire della realtà è dunque passaggio dal “non-esistere”, inteso come “possibilità”, che appare come “nulla” nel momento stesso in cui si realizza nell’“esistere” della realtà. Quest’ultima prende la forma di una “possibilità annientata”11. Si tratta di un “patire la sofferenza della realtà” che non sarebbe possibile senza una particolare esposizione della propria inalienabile finitezza, senza un limite ed una tensione a cui ci si può rifiutare o concedere ma che non può essere mai evitata. Il pensiero ritorna al suo darsi originario nella frammentarietà emotiva dell’esistente solo a patto di riconoscere un limite costitutivo che è poi il limite stesso dell’essere umano. Il soggetto della dialettica che è lo spirito non è più l’infinito ma la soggettività esistente in cui finito ed infinito, essere e non essere, sono in tensione in una irriducibilità a cui il pensiero è chiamato coraggiosamente a confrontarsi. È questo l’equivalente veritativo della mediazione hegeliana, l’unica forma di dialettica da contrapporre ai miraggi sintetici dell’assoluto. Una dialettica spezzata da un piano dell’invisibile votato a manifestarsi nel “nulla” del suo più totale nascondimento. Ad un simile movimento è affidato il nome di ripresa o ripetizione (Gjentagelse), volendo conservare l’ambivalenza propria del nome danese. “Ripetizione è la nuova categoria da scoprire. Se si sa qualcosa della filosofia moderna e non si è affatto ignari della greca, sarà facile vedere che proprio questa categoria spiega il rapporto tra gli Eleati ed Eraclito, e che ripetizione è propriamente ciò che per errore si è chiamato mediazione”12. Essa è l’“interesse” della metafisica ma anche il suo affondo, il luogo dove si incaglia nella realtà. Il suo movimento si traduce in un evento di libertà e volontà assolute. “Ogni divenire avviene nella libertà”, esso è “mutazione della realtà mediante la libertà”13. Lo spirito è libertà e quest’ultima “l’elemento dialettico tra le determinazioni di possibilità e di necessità”. Kierkegaard definisce la ripresa una sorta di retrocedere procedendo in cui “l’esistenza passata viene ad esistere ora”14. Ciò che è stato ritorna nel presente, sottratto alla caducità del non essere, in vista di una continuità futura che gli conferisce senso. Il ricordo è altro dalla ripetizione. Se il primo ripete il suo movimento esclusivamente all’indietro, condannandosi all’infelicità di vivere nella proiezione esangue dei ricordi, la seconda “ricorda il suo oggetto in avanti”. Nella ripetizione c’è l’irrompere di un nuovo che spezza il piano immanente del ricordo per aprire al passato una dimensione altra che si traduce nella continuità della vita. Passato e presente convivono in una mediazione vivente che è insieme rottura ed integrazione. L’immediatezza dell’accadere è tale nella scissione dal passato. Visto sotto questa prospettiva, il tempo si determina come frattura rispetto al passato. Pur differenziandosene, il nuovo non può tuttavia prescindere dal vecchio in quanto è nel rapporto con esso che afferma la sua alterità. Nel seno di tale conflitto il presente scopre un contenuto che è insieme contrasto e appartenenza. La categoria del momento porta con sé tale ambiguità.

Al tema della ripresa sono dedicate in modo particolare Fryg og Bæven [Timore e tremore] e Gjentagelsen [La ripetizione], pubblicate entrambe il 16 ottobre del 1843. La scelta di proporre al pubblico le due opere in un unico giorno non è casuale. Si tratta infatti di due scritti gemelli che approfondiscono il tema a partire da angolature diverse e complementari. Da una parte la rottura con il piano dell’immanenza, condizione fondamentale per l’affermarsi della temporalità, dall’altra il rapporto col passato, con una finitezza che è ripresa appunto e rielaborata nella mediazione vivente della storicità dell’essere umano. Il tema del salto è letto a partire dal suo ritorno sulla terra ed approfondito attraverso l’esperienza di una libertà difficile che getta luce sul destino del soggetto moderno, sul senso tragico della sua frammentarietà. Come sottolinea Deleuze, la ripresa kierkegaardiana si rivela una “categoria fondamentale della filosofia dell’avvenire”15.

 

2. Pensiero dell’im-possibile

L’immagine biblica del sacrificio di Isacco cristallizza in modo paradossale l’esperienza di un pensiero spintosi oltre i confini dell’umano. Timore e tremore è sotto molto aspetti un libro difficile ed inquietante. “C’è stato chi era grande con la sua forza e chi era grande con la sua sapienza, e chi era grande con la sua speranza, e chi era grande con il suo amore, ma Abramo era il più grande di tutti, grande con la sua forza, la cui potenza è impotenza, grande per la sua saggezza il cui segreto è stoltezza, grande per la sua speranza la cui forma è pazzia, grande per il suo amore ch’è odio di se stesso”16. Abramo è il fermo immagine su una umanità capace di cambiare il corso della storia perché in grado di pensarne un impensato che ne rovescia certezze, verità acquisite una volta per tutte. Si può pensare l’impensabile senza smarrire il senso della realtà? Può l’infinità di un desiderio reggere la prova del reale senza schiantarsi al suolo dell’illusione? La risposta suona paradossale: aprirsi all’impensato è l’unica via per sottrarsi alla tragica deriva del non senso, il solo movimento della ragione per non avvizzire sterilmente in se stessa e mantenere l’originario legame con la vita. Il mondo è salvo a questa condizione. L’irrompere del nuovo è una ferita che si staglia nella linearità dell’esistenza. Una scala senza pioli che si presenta d’improvviso e chiama al compito di essere percorsa. Esperienza di una libertà radicale che chiede all’uomo di perdersi nell’abisso senza altra garanzia che l’assoluta non garanzia di una scommessa. Il risultato non è più prevedibile perché al di fuori di ogni necessità razionale. L’esisto non è più alla nostra portata. La scommessa di Abramo è quella di credere di poter essere felice con Isacco, di poterlo riavere in questa vita, nonostante l‘accettazione del sacrificio divino. La certezza del Patriarca è nel corto circuito di un pensiero che “conosce l’impossibilità e nello stesso tempo crede l’assurdo”17. Il padre esperisce l’esodo razionale dalla sua finitezza nella rinuncia al figlio amato eppure continua a credere di potere essere felice con lui in questa vita. “Egli credette in virtù dell’assurdo, poiché qui non ci potrebbe essere questione di calcolo umano, e l’assurdo era che Dio, il quale esigeva questo da lui, un istante dopo avrebbe revocato la sua richiesta”18. Sapersi inadeguati e mettersi in cammino lo stesso. È questa la prova a cui l’uomo sottopone il reale ed il suo è il tempo dell’angoscia. “Ciò che si trascura nella storia di Abramo è l’angoscia; poiché verso il denaro io non ho alcuna obbligazione etica, ma verso il figlio il padre ha il dovere più alto e più sacro. L’angoscia è una faccenda pericolosa per gli smidollati, perciò la si dimentica e cionostante si vuole parlare di Abramo”19. A rendere grande Abramo è il tempo di smarrimento che scandisce la sua prova. La sua fede è credibile perché figlia di una tale sofferenza e la sua storia si rivela umana in quanto contrassegnata dall’esperienza del limite della propria finitezza. Il cuore del “salto”, ferita aperta tra il vecchio ed il nuovo mondo, è nella sintonia del pensiero con la curvatura emotiva dell’angoscia. “Il nuovo viene col salto” ma è destinato ad esser esperito come lacerante nullificazione. L‘angoscia è infatti esperienza vivente di quel nulla alla radice del divenire esistenziale quale tappa obbligata per accedere all’evento dell’accadere dell’altro. Non c’è stato esistenziale, anche quello di massima innocenza, che non sia contrassegnato da tale sentimento, commenta lo pseudonimo Virgilius Haufniensis in Begrebet Angest [Il concetto dell’angoscia]. Nella simplicitas adamitica che precede l’avvento del peccato c’è pace e quiete eppure c’è qualcos’altro. Questo in più “non è né inquietudine né lotta, perché non c’è niente contro cui lottare. Allora, che cosa è? Il nulla. Ma quale effetto ha il nulla? Esso genera l’angoscia. Questo è il profondo mistero dell’innocenza: essa nello stesso tempo è angoscia”20. Il nulla è la modalità attraverso cui la realtà dello spirito si fa presente come possibilità di un rapporto organico e relazionato tra corpo ed anima, finito ed infinito. “L’uomo è una sintesi di finito ed infinito, di temporale ed eterno, di libertà e necessità, in breve una sintesi. Una sintesi è un rapporto tra due. Visto così l’uomo non è ancora un sé”21. Lo spirito è la potenzialità più propria dell’essere umano quale capacità di stabilire consapevolmente un equilibrio, mai definitivo, nella frammentarietà del proprio essere. Tale equilibrio si declina in una coscienza di sé tale solo nell’incontro con una alterità dentro e fuori l’orizzonte di senso dell’esistenza. Il rapporto aristotelico potenza-atto è riproposto nella versione inedita di una dialettica in cui l’infinito è elemento costitutivo dell’immanenza del rapporto sintetico e nel contempo trascendenza assoluta. Il divenire è salvo solo a questa condizione e la sua libertà garantita da un processo dialettico in cui il telos si trova fuori. “Se una via soltanto fosse possibile, il telos non sarebbe fuori ma nello stesso progredire, anzi alle sue spalle come nel progredire nell’immanenza”22. Se il senso è irrimediabilmente posto sullo sfondo sfocato delle nostre esistenze, dietro l’ovatta apparente che circonda il nostro vivere, l’incontro con l’altro non può che tradursi nell’esperienza tragica del suo più totale nascondimento. Esso è inevitabilmente un incontro mancato. L’angoscia è infatti esperienza di un altrove solo probabile che è rinuncia ad ogni certezza definitiva. Il possibile è quell’“incognito” attraverso cui l’eternità della libertà si realizza nell’individualità come angoscia. In questo senso, esso è la “realtà della libertà come possibilità per la possibilità”23. Esso è il futuro quale modalità attraverso cui l’invisibile si manifesta nel visibile sotto forma di tempo. “Il possibile è per la libertà il futuro, e il futuro, per il tempo, è il possibile”24.

Al fondamento del soggetto non c’è più la monolitica certezza razionale del cogito ma uno sfondamento originario quale radice non necessitante del processo storico-esistenziale. Al sé non appartiene la fissità identitaria ma l’ambigua mutevolezza di una possibilità che è relazione in cui morte e vita si fronteggiano senza alcun esito definitivo. Per chi rimane ai piedi del monte Moriah a guardare l’uomo solitario avviarsi al sacrificio, il sospetto che si tratti di un “sonnambulo che cammina sicuro sull’abisso” è un tarlo che non dà tregua. Perché Abramo lo fa? “In nome di Dio ed è del tutto identico, in questo caso, in nome proprio”25. La certezza del Patriarca è nel cuore segreto di una coscienza che ha rotto i recinti ben fissati di ogni sicurezza logica ed è per questo ad un passo dall’abisso. La libertà è qui estremamente ambigua, giocata su un crinale in cui divino e demoniaco convivono senza alcun criterio oggettivo che possa tracciarne la distanza. Essa è al di fuori delle determinazioni di bene e male in quanto esperienza di una illimitatezza che è prima dell’aut-aut e, pertanto, ne decide il senso. La sua vertigine è traccia di un incontro con l’eterno che non cessa di portare con sé le stigmate della determinatezza esistenziale. Ebbrezza di un’apertura all’infinito che è nel contempo richiamo alla terra. L’uscita sovrumana dal mondo è feconda se contempla un ritorno. La ripresa non è sradicamento dalla storia, rifiuto della propria materia signata, ma sua più intima riappropriazione. L’infinità del desiderio non è sogno ma lucido confronto, tensione sempre aperta tra l’aspirazione della propria volontà e il mondo che abbiamo davanti. Essa si nutre della nostra volontà di non accettare una realtà data che è, nel contempo, responsabilità a cambiarla in una continua contrattazione col reale dall’esito incerto e mai definitivo. Se non è così il desiderio è immaginario, fuga dal mondo destinata a tradursi nella fatale rincorsa di paradisi artificiali. In una parola, desiderio di morte.

 

3. L’iscrizione del desiderio

Un desiderio perverso aleggia come uno spettro fin dalla prima pagina de La ripetizione. La ripresa è qui destinata a tradursi in tragica alienazione dalla vita. Essa è il volto ambiguo e demoniaco della libertà. Il salto ha assunto le sembianze del rifiuto della storia, presunzione fatale di poter fare a meno della propria limitatezza e, in ultima analisi, deificazione di se stessi. Ne fa esperienza l’autore Costantin Costantius che scambia la ripresa come mero ritorno dell’identico. Il suo viaggio a Berlino nella speranza di una autentica ripetizione del precedente si risolve in fallimento. Il tempo non può essere arrestato e la pretesa di farlo è non accettazione del finito, presunzione di volerne arrestare la caducità. Costantin è vittima dell’illusione estetica di voler incapsulare la fugacità dell’esistenza nella gelida artificiosità dell’istante. Come per Don Giovanni, il suo presente non conosce né passato né futuro perché fuori dal flusso e dalla continuità della vita. Esso è una copia sbiadita dell’eterno.

Il passato non si può respingere perché, seppur doloroso, rimane ciò per cui siamo quello che siamo. La volontà di cambiare si nutre dell’accettazione profonda di una storia preesistente alla nostra nascita, con cui siamo chiamati a fare i conti. Se rimosso, il passato ritorna come un incubo nelle tracce di un ricordo che è rinuncia a vivere. Il movimento del ricordo volge il suo sguardo all’indietro, nella ricerca ossessiva di un passato destinato a ritornare solo nel volto esangue del suo simulacro. Anelito struggente che assume la forma dell’aspirazione verso una infanzia perduta e lontana dal divenire della vita che chiede, invece, il coraggio di andare avanti, la forza e la determinazione di diventare adulti, l’accettazione del proprio cambiamento. Non si può ritornare indietro, né all’infanzia né rientrare nel seno della propria madre, nell’elemento originario anteriore alla nascita, pieno di tutte le possibilità. Un simile desiderio schiude alla morte. Lo prova Costantin con la vana nostalgia del ruscello materno che partecipava ai suoi giochi da bambino. “Và, fiume fuggente, vai! Tu sei l’unico a sapere veramente cosa vuoi, perché vuoi solo correre, e perderti nel mare che non si colma mai! Prosegui, dramma della vita, che nessuno può chiamare commedia, nessuno tragedia, perché nessuno ha visto la fine! Avanti, spettacolo dell’esistenza, ove la vita viene rifusa non più del denaro! Come mai nessuno è tornato dal regno dei morti? Perché la vita non sa avvincere quanto la morte, perché la vita non ha la persuasiva della morte. Sì, la morte persuade divinamente, se solo si rinuncia a darle contro e le si lascia invece la parola – allora convince sull’istante, sicché nessuno mai ha obiettato, o rimpianto l’eloquenza della vita”26. Nel piano ideale ed inalterabile del pensiero, il ricordo è condannato ad estinguersi nel seno di una malinconia che è rinuncia a vivere. Il ricordo dei moderni è altro dalla “reminescenza” degli antichi. Se quest’ultima nutriva la speranza più o meno sublimata dell’attingibilità del suo oggetto, la malinconia nasce dalla consapevolezza che l’incontro tra il desiderio ed il desideratum è un incontro mancato. La strada verso l’altro è sbarrata dall’esperienza esistenziale della sua inattingibilità. Nella ripetizione c’è l’“iscrizione del desiderio”27, commenta Moroncini, e la presa d’atto della sua manchevolezza originaria. Costantin sopravvive a tale mancanza solo a patto di sublimarla in un piano rarefatto ed ideale che è alienazione dalla vita. Egli muore così assieme al suo oggetto ed il suo desiderio si trasfigura in un rifiuto demoniaco della propria caducità. “Il ricordo ha il gran vantaggio di cominciare con la perdita, e quindi va sicuro, giacché non ha nulla da perdere”28. L’uomo è un cadavere che cammina, condannato ad essere “spettatore” disinteressato della propria vita. La sua abdicazione al mondo è in definitiva una rinuncia ad amare. Timore e tremore e La ripetizione sono libri sull’amore e sulla sorte del desiderio moderno. Nella possibilità del pensiero di aprirsi all’irrompere del nuovo è in gioco la struttura stessa del desiderio quale matrice autentica della soggettività. Non è un caso che l’altro protagonista de La ripetizione sia un giovane innamorato. L’amante è condannato a vivere la morte del suo amore prima ancora di averne gustato la vita. Il sentimento infelice che lo lega all’amata non ha alcuna aderenza alla realtà perché l’altro è fin dall’inizio assunto ad immagine trasfigurata di un narcisistico desiderio di morte. “La fanciulla non era la sua amata, era l’occasione che risvegliava il suo fondo poetico e faceva di lui un poeta. […] Era penetrata in tutto il suo essere, avrebbe vissuto in eterno nella sua memoria. Per lui era stata molto, l’aveva reso poeta – e proprio così aveva sottoscritto la propria condanna a morte”29. Nel ricordo poetico, la fanciulla è fuori dal piano della vita, la sua figura cristallizzata in una idealità rarefatta che la sottrae al tempo e ne segna la fine. L’uomo potrà incontrarla solo a patto di uscire fuori dal proprio desiderio malato, in una rischiosa esperienza vivente con l’amata che è accettazione della diversità dell’altro, comprensione profonda della propria creaturalità.

Nel ricordo, il passato è morto perché slegato dal flusso vivente dell’esistenza che è invece coraggio, scelta, scommessa. “Il concetto di ‘ripresa’ ricorre dappertutto. Quando io devo agire, la mia azione è già esistita nella mia coscienza sotto forma di rappresentazione o idea; altrimenti agisco senza riflessione, ciò non è affatto agire”30. Il piano astratto del pensiero è rotto da un movimento concreto verso il futuro, l’apertura ad un altrove, che è nel contempo presa d’atto della propria inalienabile finitezza. Accettazione della fluidità del divenire. Il salto non è fuga dal mondo ma coraggiosa esperienza della sua relatività. Abramo riabbraccia Isacco proprio perché ne ha esperito la perdita. Il suo sarà un “nuovo” Isacco in cui il passato rivive nel volto inedito di un futuro il cui esito non è più alla nostra portata. L’altro del desiderio si lascia afferrare nella rinuncia ad una sua presa definitiva e nella riconoscenza della gratuità di un dono che sfugge ad ogni logica distributiva. Nella notte di una simile scommessa è in gioco il futuro del mattino.

 



 

Note con rimando automatico al testo

1 S. Kierkegaard, Philosophiske Smuler (1844), tr. it. a cura di Cornelio Fabro, Briciole di filosofia, in Opere, Sansoni, Firenze, 1972, p. 239.

2 S. Kierkegaard, Begrebet Angest (1844); tr. it. a cura di Cornelio Fabro, Il concetto dell’angoscia, in Opere, cit., p. 154

3Ibidem, p. 154

4Ibid.

5Ibid., p. 156.

6 Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 62.

7S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, in Opere, cit., p. 155.

8Ibid., p. 153.

9 S. Kierkegaard, Briciole di filosofia, cit., p. 238.

10 Ibidem.

11Ibid.

12 S. Kierkegaard, Gjentagelsen (1843); tr. it. a cura di Dario Borso, La ripetizione, Rizzoli, Milano 1996, p. 34.

13 S. Kierkegaard, Briciole di filosofia, cit., p. 239.

14 S. Kierkegaard, La ripresa, cit., p. 35.

15 Gilles Deleuze, Différence et répétition (1968); tr. it. di Giuseppe Guglielmi, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 2007, p. 13.

16 S. Kierkegaard, Fryg og Bæven (1843); tr. it. a cura di Conelio Fabro, Timore e tremore, in Opere, cit., p. 46.

17Ibidem, p. 61.

18Ibid., pp. 54-55.

19 Ibid., p. 50.

20 S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, cit., p. 129.

21 S. Kierkegaard, Sygdommen til Døden (1849); tr. it.a cura Ettore Rocca, La malattia per la morte, Donzelli, Roma 1999, p. 15.

22 S. Kierkegaard, Briciole di filosofia, cit., 242.

23 S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, cit., p. 130.

24 Ibidem, p. 157.

25 S. Kierkegaard, Timore e tremore, cit., p. 68.

26 S. Kierkegaard, La ripetizione, cit., pp. 71-72.

27 Bruno Moroncini, Ripetizione, in AA. VV., Segnalibro. Voci da un dizionario della contemporaneità, a cura di Lucio Saviani, Liguori, Napoli1 1995, p. 166.

28 S. Kierkegaard, La ripetizione, cit., p. 19.

29Ibid., p. 21.

30 S. Kierkegaard, Dagbøgen, tr. a cura di Cornelio Fabro, Diario, 12 voll., Morcelliana, Brescia 1980-83, IV A, 156.