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Gianluca Cuozzo, Gioco d’azzardo. La società dello spreco e i suoi miti




Gianluca Cuozzo

Gioco d’azzardo.
La società dello spreco e i suoi miti
 

Mimesis Edizioni, Milano 2013,
ISBN 978-88-5751-196-2,
€ 4,90


 





E perché il gioco sarebbe peggiore di un qualsiasi altro mezzo
di far denaro, per esempio, magari del commercio
 
da Il giocatore di  Fëdor Dostoevskij

 

Il vero intruso tra l’uomo e il gioco è sempre l’azzardo, il rischio, la sfida, similmente a quanto può accadere per la religione o per la magia ove ci si affida sempre a delle potenze estranee che non riusciamo a decifrare (Dio, gli Dei, la fortuna, la sorte e così via). A leggere con attenzione i tratti di questa sfida lanciata alla benevolenza o malevolenza della sorte si potrebbe richiamare il pascaliano divertissement perché ci si rende conto che l’uomo, nel gioco d’azzardo, ricercando la sua conferma esistenziale, mette in gioco se stesso, i suoi limiti, la sua precarietà esistenziale, la sua sovraesposizione ora al verdetto del destino ora al capriccio del caso. Ma esistono coordinate per un sia pur incerto restringimento del campo dell’azzardo? A dare una risposta è un prezioso volumetto di Gianluca Cuozzo, Gioco d’azzardo. La società dello spreco e i suoi limiti, che tenta di esplorare le strette connessioni tra i meccanismi biologici e le valenze psicologiche che può innescare il gioco d’azzardo nell’individuo. In premessa l’Autore rileva che la malattia ontologia del presente è il consumare, l’essere consumatori ottusi, affetti e sedotti dalla fantasmagoria mediatica della merce che «[…]si potrebbe dire, assume nel presente complesse valenze libidiche, incarnando la nuova versione usa e getta dell’eros platonico» (p.9). Non c’è tregua, non c’è tempo per chi vive il consumo come una spirale avvolgente, per chi abita lo spazio di un’oscillazione ininterrotta «tra incremento continuo di novità e rottamazione/espulsione liberatoria di ciò che, di volta in volta, è reputato superfluo e fonte di imbarazzo»(p.21). Nella mania del consumare affiora il carattere costitutivamente patologico della nostra epoca che livella corpi, gesti, comportamenti, azioni concrete proiettati in una celebrazione «dell’in-stante gratuito dove, finalmente, accade qualcosa di nuovo, capace di legare uomini e cose sulla base di una nuova concezione del tempo e dell’esser felici» (p.22). Cuozzo, in sei brevi e densi capitoli fitti di insistiti richiami andersiani e benjaminiani, analizza con stile agile le complesse coordinate dello strapotere della merce sulla vita dell’uomo. Ne è una chiara esemplificazione il romanzo più pessimista di Philip K. Dick, Ubik, del 1966 che ci mostra il carattere spettrale della condizione umana. Siamo tutti fantasmi, la merce è ubiqua, dilaga ovunque come le metamorfosi inquietanti del divino Ubik che «nel corso della narrazione ora è il marchio di un’aspirapolvere, di una birra, una marca di caffè, un potente grastroprotettore, una cassa di depositi e prestiti in grado di far sparire l’ansia provocata dai debiti, una pellicola extralucida spray protettiva, una schiuma rinfrescante che funge da colluttorio, un reggiseno anatomico, un cremoso balsamo per capelli e così via» (pp. 25-26). Joe Chip vive in una casa dove tutto è a pagamento e precipita in una regressione temporale che ha nella mutazione degli oggetti – una cucina a gas cambia in una a carbone, un’auto moderna diventa una Ford del 1929 – la sua rivelazione primaria. I personaggi di Ubik dispongono di una propria teoria della realtà che nel corso della trama viene falsificata, sostituita da una nuova teoria in grado di spiegare l’avvenimento falsificante, ma che è a sua volta insidiata da una diversa consapevolezza che non conduce a un’unica spiegazione ma a una pluralità di soluzioni possibili. Essi sperano sempre, fino all’ultimo, che la loro percezione della realtà sia quella vera. Ecco allora che Ubik, lo spray miracoloso, che parla l’unico linguaggio comprensibile nella (non)esistenza di persone il cui apparato percettivo/cognitivo è incapace di liberarsi dalla presenza degli oggetti. Non è difficile scorgere nel libro di Dick l’andersiano Paese della Cuccagna«in cui nulla è assente, anzi c’è tutto». Sono le merci a produrre i bisogni che sono a loro volta resi conformi ai prodotti, cosicchè l’uomo finisce con l’essere un consumatore che divora tutto. Questa fantasmagoria delle merci che può fare a meno di Dio e/o del kantiano cielo stellato è l’utopia realizzata, il non-luogo di una rinnovata salvezza messianica, di una nuova ascesi che smembra e scinde qualsivoglia opzione di senso. Ma ancora di più è un altro significativo romanzo di Philip K. Dick, Scorrete lacrime, disse il poliziotto, del 1964 che Cuozzo analizza come perfetta esemplificazione letteraria della fusione ibrida tra società dello spettacolo ed entropia del reale: il protagonista (Jason Taverner), famoso conduttore televisivo, improvvisamente perde la sua identità. Nessuno lo conosce: non il suo agente, non la sua amante, non le persone comuni. Si profila per lui una sorta di calvario alla ricerca dell’identità perduta precipitata in una spirale di caos e indeterminazione, dilaniata tra l’aspirazione alla celebrità e il perfetto anonimato, tra la ripetizione e la novità. Cuozzo sembra così imprimere al romanzo di fantascienza non tanto la proliferazione delle modalità del narrare ma la riserva segreta piena di sorprese in grado di veicolare stridenti e dinamiche raffigurazioni del reale. Di tutt’altro registro è il tetro e inquietante romanzo dello scrittore americano Paul Auster, La musica del caso, che Cuozzo posiziona mirabilmente nel quarto capitolo specifico dedicato al gioco d’azzardo (Gioco d’azzardo. Mito e destino: il tempo senza grazia tra Walter Benjamin e Paul Auster). Il tema è la trasformazione del gioco in destino. Un'eredità imprevista determina una svolta nella vita di Jim Nashe, il protagonista del La musica del caso. Jim lascia il lavoro, lascia sua figlia e, alla guida di una Saab 900, vagabonda per un anno intero avanti e indietro attraverso l'America. Sempre casualmente incontra Jack Pozzi, un giovanissimo giocatore d'azzardo, reduce da una rocambolesca avventura notturna. Con ciò che resta dell'eredità di Nashe i due decidono di portare avanti il progetto di Pozzi: battere a poker Flower e Stone, due miliardari per caso (hanno vinto una grossa somma con un biglietto della lotteria). Ma le cose non vanno nel modo sperato. La musica del caso è un romanzo sull'azzardo, e sul potere sconfinato del Caso che brucia l’esistenza dei due protagonisti. «Da mimesi spensierata del tempo kairologico, il poker, che sembra promettere ricchezza e affrancamento dalla fatica del lavoro, diviene per Jim Nashe e Jack Pozzi la subdola maschera cui si nasconde il volto sfingeo di Ananke»(p. 40). Il gioco d’azzardo congela, come ricorda Walter Benjamin, il corpo e la mente degli individui in una temporalità demoniaca senza futuro e senza speranza,così come il telaio meccanico o una macchina della catena di montaggio, si impadronisce del corpo e dell’anima degli individui che ne vengono a contatto, obbligandoli ad agire in modo automatico. I miliardari un po’surreali del romanzo austeriano Flower e Stone coltivano hobby «che hanno a che fare con la riduzione del tempo a mera presenza, paralizzando l’accadere storico sul piano raggelante dell’identico»(p. 41). Il primo è un antiquario di reperti storici senza nessun valore e il secondo è preso dall’idea di costruire un immenso plastico, capace di riprodurre miniaturizzata la Città del mondo. Il gioco spasmodico di queste ossessioni al limite del patologico e dell’assurdo cattura e inghiotte progressivamente la vita dei due sprovveduti protagonisti, Jim e Jack, incapaci ormai di cogliere, al di là delle proprie scansioni coscienziali, un qualsiasi ordine o chance salvifica di ciò che sta loro succedendo. Jim e Jack, gli anti-eroi austeriani vivono una condizione di sospensione, senza una continuità storica vera e propria, esposti alla «malia fatale della ripetizione», inchiodati ad un tempo che non scorre più. Cuozzo opera efficaci e sorprendenti accostamenti tra Benjamin e Auster, tra i personaggi di Kafka e la bella Shahrazād, segnala incroci e sovrapposizioni che sovente inducono il lettore a spaziare da una disciplina all’altra per ricomporre parti all’apparenza distanti. Avviene così di imbattersi in un opuscolo di straordinaria modernità come Il gioco della palla di Nicola Cusano, il grande neo-platonico del Rinascimento che già spiegava come l’uomo tenda a quel centro lanciando una metaforica palla il cui movimento è somigliante al suo peregrinare terreno: movimento che devia spesso dalla retta via come quello della palla che incontra sul percorso ostacoli o deformazioni, perché chiosa Cuozzo «in ogni gioco autentico, in cui una possibilità del nostro esistere risulta come sospesa, accade sempre qualcosa, che va ‘al di là dell’intenzione dei giocatori’: questo è precisamente quell’elemento di sorpresa da cui si trae diletto»(p. 51) e allo stesso tempo fa esplodere in profondità – a ogni nuova partita – l’instabilità dell’evento. Il gioco sembra allora caratterizzarsi come una nuova forma di interdizione e di sfida nei confronti nelle merci luccicanti e invasive che mimano e fanno le veci degli antichi simboli religiosi. «Nuovi effetti taumaturgici: uno shampoo effetto resurrezione» è il titolo esilarante dell’ultimo capitolo della narrazione di Cuozzo che, con l’aiuto di Baudrillard, diagnostica il nuovo credo quia absurdum per esistenze mercificate. Il mondo sempre più avvolgente delle merci, cioè dell’artificialità e delle proiezioni alienate sembra aver reciso ormai ogni volontà o desiderio di ribellione e con essa il rischio della contingenza e della imprevedibilità degli eventi implicito in ogni vera partita di gioco.