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Joyce Carol Oates, Mistrial






Joyce Carol Oates


Mistrial
Senza verdetto


Roma, Leconte Editore, 2011, pp. 155
con un’intervista all’autrice di Mary Morris

ISBN: 978-88-88361-82-6, € 12 

 

 

NON TUTTI I GIURATI HANNO SETE DI SANGUE

Esistono due diversi tipi umani che possono essere coinvolti nelle indagini che scattano dopo l’accertamento di un crimine: le persone con precedenti penali e quelle prive di precedenti. Di fronte a questa dicotomia, quasi tutte le altre opposizioni diventano secondarie: uomini / donne, bianchi / neri / ispanici / asiatici, cittadini regolari vs. irregolari, etc. Anche la distinzione minorenne / maggiorenne scatta soprattutto in fase di dibattimento giudiziario, ma ha un’incidenza piuttosto modesta durante lo svolgimento delle indagini che devono accertare le responsabilità di un reato e consegnarlo alle fasi successive del percorso penale. Le fiction americane dell’ultima generazione ci insegnano che anche le tecniche di investigazione sono diverse, a seconda della fedina penale del soggetto. La galassia dei telefilm C.S.I. fa basare l’avvio delle indagini sulle banche dati informatiche che “segnano” a vita chiunque sia stato condannato almeno una volta per reati più o meno gravi. Si tratta in particolare del Codis (Combined DNA Index System) e del NDIS (National DNA Index System), entrambi realmente esistenti e affidati all’FBI. Secondo il sito dell’agenzia stessa, lo scopo è il seguente: «to foster the exchange and comparison of forensic DNA evidence from violent crime investigations»1. Questo significa che una persona, nel momento in cui viene inserita in questi archivi per un reato commesso, non ne esce più nemmeno dopo aver scontato la pena. La sua identità è modificata per sempre, e a rendere solenne la sua appartenenza alla categoria fuocaultiana dei soggetti pericolosi, degli individui da schedare e da tenere schedati, c’è l’associazione delle informazioni personali con il DNA: associazione irreversibile perché scientificamente supportata, sebbene vi siano stati casi di cronaca nei quali si sia dimostrata fallace. È, insomma, la versione da XXI secolo del marchio di Caino, che probabilmente ha anche un suo fondamento nei dati, se è vero che una percentuale considerevole di criminali commette più di un reato nella vita. Ma è anche estremamente discutibile perché dà per scontato – senza preoccuparsi di sostenere questa posizione con un’adeguata argomentazione antropologica – che chi commette un crimine, prima o poi, ne commetterà altri, soprattutto contigui per natura e per modus operandi. E infatti, in molti episodi di questi serial TV, le indagini partono dagli interrogatori di persone che hanno commesso lo stesso reato che è al centro della trama o ne hanno commessi di analoghi in passato, anche molto tempo prima, magari mettendo in pratica lo stesso modus operandi (Criminal Minds). Questi soggetti devono dimostrare la loro estraneità ai fatti contestati, possibilmente avere un alibi, quasi secondo un sottinteso principio di presunzione di colpevolezza anziché di innocenza.

Nella finzione televisiva, che ha tra i suoi scopi impliciti rassicurare lo spettatore sull’umanità degli agenti investigativi, sulla razionalità dei loro procedimenti e sul funzionamento complessivamente accettabile dell’intero sistema giudiziario, capita anche che le indagini conducano in direzioni totalmente diverse, e quindi smentiscano il principio alla base del Codis. Quando poi si passa dall’arresto al processo, a seconda della focalizzazione, alcune serie insistono sulle tattiche destinate a sostenere l’accusa (Law and Order, Crime Suspect), altre sull’abilità manipolatrice nei confronti della giuria o delle prove da parte degli avvocati difensori (Shark). Ed anche in queste serie TV, che sono realizzate benissimo, si nota con grande evidenza come il trattamento riservato ai soggetti con precedenti penali sia discretamente diverso rispetto a quello di chi è accusato per la prima volta di un crimine.

Nella realtà le cose sono più complesse, sia perché questa linea di confine si dimostra alquanto velleitaria, sia perché agiscono le interferenze della politica e delle esigenze sociali, che in una fiction possono essere introdotte nelle trame oppure escluse del tutto, senza per questo alterare la qualità del narrato. Di fatto, tuttavia, si nota una generalizzata simpatia verso il procedimento di etichettatura dei colpevoli (condannati per la prima volta) e relativo spostamento nell’altra categoria di soggetti, da dove non potranno più fare ritorno. Ciò permette il funzionamento di quello che Foucault definì, nell’introduzione al suo corso al Collège de France del 1977-1978, il «secondo meccanismo» del dispositivo penale, quello “disciplinare”, «caratterizzato dalla comparsa di un terzo personaggio all’interno del sistema binario del codice: il colpevole»2, appunto. L’esigenza sembra essere quella di garantire l’esistenza costante nel tempo di una ragionevole quantità di colpevoli per tutti i reati, coerente con la credibilità del sistema giudiziario nel suo complesso.

Così si arriva all’inchiesta della CBS che pochi mesi fa ha ripreso un articolo pubblicato nel 2008 da Adam Liptak sul «“New York Times» per sollevare l’attenzione sul fatto che negli USA sono attualmente detenuti in carcere qualcosa come 2.400.000 persone, ossia il 25% della popolazione carceraria dell’intero pianeta3, e questo nonostante negli ultimi venti anni il tasso di criminalità sia diminuito di circa il 40% e per molti reati minori non sia più previsto il carcere ma diverse forme di custodia domiciliare, le quali coinvolgono all’incirca altri cinque milioni di persone. Va poi ricordato che in molti Stati degli USA fin dagli anni ’80 si è avviato un fenomeno di privatizzazione delle strutture detentive, che ha bisogno di vedere la popolazione carceraria aumentare piuttosto che diminuire poiché si nutre di questo. La CBS è stata criticata da altri media per aver sollevato il problema, e questo sostanzialmente per due motivi: 1) il bisogno sicuritario della popolazione è ritenuto priorità assoluta e metterlo in discussione è quasi un sacrilegio; 2) secondo alcuni sondaggi, che però non compaiono sugli organi di informazione ma sono citati solo a supporto delle rispettive posizioni, la maggior parte della popolazione americana sarebbe disposta ad accettare che qualche innocente finisca in carcere piuttosto che temere che il proprio vicino di casa appena arrivato nel quartiere sia un criminale, un “marchiato”. Credo che questo secondo argomento, che rappresenta un’esigenza della società e non del sistema giudiziario, valga anche per l’Italia e per molti altri paesi4, ma in questa sede ci interessa per un solo motivo: in un sistema del genere, il ruolo del giurato in un processo penale appare sensibilmente cambiato, rispetto ad esempio agli anni ’50 in cui è ambientato il celebre film di Lumet, La parola ai giurati (12 Angry Men, 1957) grande classico del genere oggi definito procedural. Lì giocavano un ruolo fondamentale i pregiudizi razziali nella middle class bianca e l’integrità morale del soggetto “sano” rispetto alle trappole kafkiane del procedimento giudiziario, sicché la vicenda poteva assumere facilmente le caratteristiche di uno psicodramma nel quale i giurati, ossia le persone dalle quali dipende il destino dell’imputato, si mettono o vengono messi a nudo prima di poter decretare la sorte di qualcun altro. Inoltre, e questo non è per nulla un dettaglio, si dava per certa l’esistenza di soggetti moralmente irreprensibili ed esemplari, che potevano controbilanciare il giustizialismo facile di altri membri della giuria e condurre un po’ per volta verso la sentenza migliore possibile.

Attualmente, almeno negli USA, un giurato è parzialmente deresponsabilizzato nel suo ruolo, poiché l’intero sistema giudiziario lo culla e lo protegge al punto che, mentre gli viene ricordato ripetutamente (come avviene anche nel racconto della Oates che qui si è scelto come riferimento) che non deve parlare nemmeno ai familiari di ciò che accade durante il processo oppure attingere informazioni sul fatto penale da fonti esterne all’aula giudiziaria, allo stesso tempo non si aspetta sul serio da lui l’infallibilità nel contributo che deve fornire al raggiungimento del verdetto. Molte piccole ipocrisie nei comportamenti imposti ai giurati dipendono proprio da questo fattore. Ad esempio, «in aula era vietato prendere appunti; ma nella stanza dei giurati non era vietato, e perciò durante le pause riuscivo a tenere questo diario»5 su cui è basata la narrazione. E quando il giudice viene a sapere che la giuria sta faticando a raggiungere un verdetto unanime, si limita a convocare i giurati a fare loro «una bella strigliata di quelle che si fanno ai bambini disobbedienti»6, ma senza star lì a sacralizzare la situazione ricordando gli articoli del codice di procedura penale oppure qualche precedente in grado di terrorizzare i giurati e accelerarne le decisioni in una qualsiasi direzione. Per il giudice, che è una donna, tutto quello che si fa lì dentro è solo lavoro. Per gli altri giurati, costretti a restare in una situazione di cattività per molti giorni, è solo una scocciatura, una tremenda perdita di tempo. Per Denise invece, ma soltanto per lei, è un’esperienza antropologica con forti implicazioni personali.

Joyce Carol Oates

Dal momento che in Italia gode di buona stima, ma non ancora adeguata al suo altissimo livello, prima di inoltrarci in Mistrial. Senza verdetto7 e toccare altri suoi racconti è forse necessario precisare che Joyce Carol Oates è una delle massime scrittrici viventi. Nata nel 1938 a Lockport, nella parte settentrionale dello stato di New York, non lontano dalle cascate del Niagara, la Oates ha iniziato a pubblicare nei primi anni ’60, accumulando presto riconoscimenti di prestigio, tanto da permetterle di ottenere già nel 1978 una cattedra di scrittura creativa alla Princeton University, dove ancora oggi tiene qualche lezione estiva. La sua immensa produzione letteraria spazia dal thriller psicologico (Them, vincitore del National Book Award 1970; Marya. A Life, 1986) al romanzo storico (Bellefleur, 1980; A Bloodsmoor Romance, 1982; Mysteries of Winterthurn, 2008), dall’horror (Zombie, vincitore del Bram Stoker Award 1996; The Museum of Dr. Moses, 2008) ai grandi spaccati di vita familiare (We were the Mulvaneys, 1996; The Gravedigger’s Daughter, 2007), da acidissime narrazioni di self made men pronti a tutto (What I lived for, finalista al premio Pulitzer 1995) fino alle tante opere di demolizione spietata della provincia americana con la sua retorica privata e la sua iconografia pubblica (Middle Age, 2002; ma soprattutto Where are you going, where have you been?, 1993, che nell’edizione italiana è diventato Storie americane). Ha scritto monografie magistrali su Edgar Allan Poe, su David H. Lawrence e su Mike Tyson, e con Blonde (finalista al premio Pulitzer 2001) ha praticamente inventato il genere letterario della “biografia alternativa”.

Riassumiamo la trama di questo racconto, scelto fra tanti altri nei quali la Oates affronta il problema della criminalità perché focalizzato sulla figura di una giurata in un processo per omicidio. Denise McSwann è una modesta bibliotecaria mandata prematuramente in pensione, senza marito né figli e perciò costretta a vivere con l’anziana madre e un fratello con una personalità dominante fra le mura domestiche. Un giorno viene selezionata come giurata. Era già accaduto altre volte in passato ma era sempre stata scartata proprio perché la sua mente era come imbottigliata nei meccanismi degenerativi alla base del Codis e del NDIS, per cui quando il giudice le domandava se credeva nella presunzione di innocenza, lei dava ingenuamente risposte da casalinga ritratta in qualche rivista patinata anni ’60, del tipo: «Vostro Onore, qualunque persona di buon senso sa bene che, quando un criminale viene arrestato e poi messo sotto processo, qualcosa deve aver fatto; specialmente in una città ormai infestata dal crimine come Trenton, dove nessuno viene mai arrestato per alcunché, eppure ogni notte ci sono furti e scassi, pertanto nelle rarissime occasioni in cui la polizia riesce a prendere qualcuno, possiamo star certi che costui ha già commesso molti crimini in precedenza»8. Al che veniva rispedita subito a casa, né si struggeva per la mancata partecipazione all’evento giudiziario. Ma stavolta è diverso perché, recandosi in tribunale dove deve essere esaminata la sua idoneità, vede in faccia l’accusato e scatta qualcosa dentro di lei. Si convince all’istante della sua innocenza, ma in realtà prova attrazione fisica per l’uomo, accusato di omicidio volontario della sua convivente (le ha inferto ben nove coltellate), di resistenza all’arresto e di aggressione a pubblico ufficiale. La narrazione è sviluppata in prima persona, sicché il lettore assiste al progressivo coinvolgimento interiore della donna nella vicenda biografica dell’imputato e del modo in cui questa viene esibita nello spazio solenne del tribunale. Il soggetto, di cui vengono fornite solo le iniziali R.S. e non viene chiarita l’etnia di appartenenza, ha molti dei requisiti utili ad appagare la sete di sangue dei giurati: tatuaggi, cicatrici, un passato non molto chiaro da militare nella guerra del Golfo del 1991 (congedato con onore, ma esperienza di cui non vuol parlare), una reputazione di «uomo brutale e senza scrupoli» ribadita dalla pubblica accusa. Ma Denise è convinta della sua innocenza, e perciò si oppone ripetutamente al verdetto di colpevolezza, che deve necessariamente essere emesso all’unanimità, proprio come nel film di Lumet o nel remake di William Friedkin del 1997. Dopo tre giorni di discussioni, l’unanimità continua a non essere raggiunta, per cui il procedimento termina con un Mistrial, ossia l’annullamento del processo. La sera seguente, Denise si presenta a casa di R.S. e di sua madre, che ovviamente la accolgono con gioia, e si avvia un dialogo tra i due nel quale ad un certo punto fa il suo ingresso il problema del fastidioso fratello di lei, Hubert. Il racconto termina, come nello stile della Oates, ventilando in modo molto vago l’ipotesi che R.S. possa sdebitarsi eliminando l’odiato fratello.

Dunque, questo personaggio non è in nulla disorganico al sistema. Denise non è una persona moralmente irreprensibile come lo era il giurato anonimo interpretato da Henry Fonda nel film di Lumet, ma non è nemmeno semplicemente una casalinga frustrata che spera in una via d’uscita dal suo squallore quotidiano, come è ad esempio la Cynthia di Love and Death9. Non è una creatura occasionalmente reattiva come la protagonista di Ugly, che riesce a far innamorare un suo tormentatore e poi lo getta via come immondizia10, ma neppure una macchina di morte come la Katrina di Angel of Wrath11, che spinge gli uomini ad uccidere per lei con cinica e calcolata freddezza. Denise è un essere umano che dimora su una sponda di quella zona grigia che separa il comportamento socialmente accettato da quello considerato meritevole di sanzione penale, e R.S. – che per lei è «un reduce della guerra del Golfo (…) messo sotto torchio»12 in modo disumano – appartiene alla stessa zona grigia, ma in quel momento si trova sulla sponda opposta. Il desiderio di contatto tra i due è dovuto anche a questa sensazione di prossimità, a questa empatia, non è una semplice infatuazione. Ed esso viene accelerato dal fatto che è in corso un procedimento penale per un crimine “forte” come l’omicidio13, rispetto al quale si fa sentire in modo pressante l’esigenza sociale di dare rapidamente un volto all’assassino poiché, come scriveva già molti anni fa Enzensberger, «la sorte riservata all’assassino ci garantisce che esistono ancora dei giudici e al suo personaggio è connessa la speranza illusoria che sia proibito uccidere. Punendo l’assassino, quindi, la società si convince dell’integrità del suo sistema giudiziario. E ciò è rassicurante»14, anche se si tratta chiaramente di una rassicurazione effimera e precaria.

«Vite di questo tipo esercitano su di me una grande suggestione romanzesca, difficile da spiegare»15, ha raccontato l’autrice in un’intervista rilasciata a Mary Morris poco tempo dopo la pubblicazione di Mistrial. A maggior ragione ciò deve essere vero in questo caso, dato che lo spunto narrativo è scattato in seguito alla effettiva convocazione della Oates da parte di un tribunale di Detroit, qualche anno prima, in merito ad un processo per spaccio di stupefacenti, anche se poi la scrittrice rifiutò l’incarico. La tendenza a sviluppare elaborazioni complesse basate su casi di cronaca, non necessariamente ancorati a fatti personali, è una delle principali doti di questa straordinaria autrice, una virtù che ha forse trovato in My Sister, My Love (2008) la sua più graffiante riuscita. Quando poi è in gioco qualche fattore che tira in ballo i problemi della giustizia e le articolazioni della criminalità, il suo talento ha modo di sprigionarsi al massimo delle sue potenzialità. E quasi sempre le narrazioni toccano o creano nodi difficili da districare, nei quali la violenza e il crimine compaiono spesso, ma sempre per condurre il lettore a contatto con problemi più ampi e impalpabili, generalmente di natura sociale. Già in un’intervista risalente al 1972, la scrittrice aveva ammesso: «Sembra che io scriva soprattutto di cose violente o estreme. Ma è sempre per contrasto con qualcosa di profondo e immodificabile che persevera al di sotto. Sento che potrei sguazzare nel sangue, sopportare diecimila apparizioni maligne, perché dietro c’è sempre questa realtà che è assolutamente imperitura [imperishable16. Nel caso di Mistrial, la morte di una donna viene interpretata da prospettive utili a mostrare, da un lato la contiguità e la reciprocità del criminale rispetto al soggetto accolto a braccia aperte dalla società, e dall’altro a conservare quel carico di mistero che in parte resta sempre sospeso intorno all’atto della soppressione di una vita agli occhi degli altri, ai quali spetta il compito di sistemare tale evento nell’ordine simbolico e linguistico. «Nessun evento è contingente, e la morte lo è ancora meno di ogni altro», ha scritto una volta Marc Augé. «La morte è prima di tutto un richiamo all’ordine, ma all’ordine dei viventi»17. E il talento principale di Joyce Carol Oates consiste proprio nell’indagare, ovviamente con gli strumenti della letteratura, le contraddizioni dell’ordine che i viventi si danno per continuare a convivere senza tagliarsi la gola l’un l’altro, nonché gli interventi che apportano a tale ordine quando il crimine lo minaccia con i suoi atti.


Note con rimando automatico al testo

1http://www.fbi.gov/about-us/lab/codis.

2 M. Foucault, Sicurezza, territorio, poplazione, a cura di P. Napoli, Milano, Feltrinelli 2005, p. 17.

4 Su questo, cfr. A. Dal Lago, La città e le ombre. Crimini, criminali e cittadini, Milano, Feltrinelli 2003; Id., Lo stato penale globale, su «Aut Aut», n. 346/2010. Sulla situazione negli USA, cfr. K.M. Evans, Crime, Prisons and Jails, Farmington Hills, Gale Cengage 2011, dove vengono anche chiarite la differenze tra: correctional facility, prison e jail (chap. 7).

5 J.C. Oates, Mistrial, a cura di C. Mello, Roma, Leconte Editore 2011, p. 36.

6 J.C. Oates, Mistrial, cit., p. 49.

7 Il racconto è stato pubblicato dapprima in una rivista nel 2008 e poi nella raccolta Dear Husband. Stories, New York, Ecco Press (Harper Collins) 2010.

8 J.C. Oates, Mistrial, cit., p. 15.

9 Cfr. Amore e morte, in: J.C. Oates, Storie americane, a cura di L. Fochi e I. Zani, Milano, Marco Tropea Editore 2005, pp. 212-235.

10 Cfr. Brutta, in: J.C. Oates, Misfatti. Racconti di trasgressione, a cura di A. Pezzotta, Milano, Bompiani 2007, pp. 20-61.

11 Cfr. L’angelo della vendetta, in: J.C. Oates, La femmina della specie, a cura di L. Matteoli, Milano, Bompiani 2007, pp. 235-264.

12 J.C. Oates, Mistrial, cit., p. 45.

13 L’azione si svolge a Trenton, New Jersey, in un periodo in cui era ancora in vigore la pena di morte in quello stato, abolita solo alla fine del 2007. Nel testo, tuttavia, non ci sono riferimenti alla pena capitale.

14 Riflessioni davanti a una gabbia di vetro (1964), in: H.M. Enzensberger, Politica e crimine, a cura di D. Zuffellato, Torino, Bollati Boringhieri 1998, p. 26.

15 J.C. Oates, Mistrial, cit., p. 64.

16 J.C. Oates, Conversations 1970-2006, edited by G. Johnson, Princeton, Ontario Review Press 2006, p. 27 (trad. mia).

17 M. Augé, Poteri di vita, poteri di morte, a cura di A. D’Orsi, Milano, R. Cortina 2003, p. 13.