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Olivier Roy, La santa ignoranza. Religioni senza cultura

 

Olivier Roy

La santa ignoranza.

Religioni senza cultura

 

Feltrinelli, Milano 2009, pp. 313, Euro 25
ISBN 978-88-07-10452-7

 

Il saggio di Olivier Roy è destinato a far discutere.Direttore di ricerca alla École des HautesÉtudes en Sciences Sociales e all’Institut d’Études Politiques di Parigi, consulente dall’84 del Ministero degli esteri francese e dall’88 dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento dei soccorsi in Afghanistan, profondo conoscitore dell’Islam, lo studioso affonda la sua analisi nel problematico rapporto tra religioni e cultura, alla luce del crescente fondamentalismo su scala planetaria. In un mondo occidentale sempre più dominato dall’assenza di fede, le religioni trionfano in un clamore mediatico senza precedenti. I papaboys si stringono intorno al papa nelle Giornate mondiali della gioventù. Migliaia di musulmani si convertono al cristianesimo o diventano testimoni di Geova. La religione islamica trova sempre più consensi in Occidente. Alla luce dell’integralismo religioso che ha dominato la scena negli accadimenti dell’11 settembre 2001, sono tanti gli interrogativi aperti sul destino dell’Islam. Siamo nel bel mezzo di un risveglio religioso o solo di un mutamento del religioso su scala planetaria? Roy non ha dubbi: il ritorno al religioso ha poco a che fare con la fede. Esso è il segno di un mutamento del rapporto originario tra cultura e religione, della loro separazione. Sempre più dissociata dal contesto politico e culturale, la religione emerge con veemenza ed il contrasto ne favorisce la visibilità. Se a livello mediatico non si fa che parlare di religioni, le chiese sono sempre più vuote. La crisi vocazionale è un dato crescente, in particolare per quanto riguarda grandi religioni occidentali come la cattolica e la protestante. A trionfare oggi non sono dunque le religioni tradizionali. Nel cristianesimo, anche tra i cattolici, si fanno strada movimenti carismatici caratterizzati da un forte radicalismo. Nel protestantesimo a prendere quota sono l’evangelismo e il pentecostalismo, mentre nell’islam il salafismo. Si tratta di frange religiose fondamentaliste ed integraliste, caratterizzate da un crescente rigetto della cultura dominante. Il salafismo, la formula che circola di più nell’Islam, è molto simile all’evangelismo protestante. Entrambe fanno propria l’idea di una fede individuale, una ricerca individuale, il rifiuto di appartenere a una comunità culturale, la necessità di riconvertirsi e riaffermare la propria fede in rottura con la propria tradizione culturale. La religioni sembrano accomunarsi in un netto rifiuto di quella matrice culturale che, per secoli, è stata imprescindibile punto di riferimento. A trionfare è dunque l’ignoranza, la «santa ignoranza» come la definisce Roy. L’idea cioè di una fede dissociata da ogni legame conoscitivo, scissa da una cultura originaria ed affidata ad un sentire individuale che la pone come «assoluta». Fede e sapere sono agli antipodi. Per abbracciare una religione, per sentirsi in una comunità di fedeli non è più necessario appartenere ad un vincolo culturale e politico ma è sufficiente un «sentire», un «salto nella fede», come direbbe Karl Barth, che avvicina tutti, al di là di etnie e nazioni. Non c’è da stupirsi se un cattolico occidentale può scegliere di convertirsi all’induismo senza aver mai letto alcun testo induista. Il nesso tra religioso e parola rivelata è saltato. Il divario tra credenti e non credenti si fa sempre più alto. Se nelle società tradizionali essi condividevano una cultura profondamente intrisa di riferimenti religiosi, oggi i credenti tendono sempre più a prendere le distanze dai laici che guardano come avversari. Il dibattito sul crocifisso in aula di qualche anno fa in Italia mostra come anche il nostro Paese, da sempre intriso di cultura cattolica, non sia immune da questa frammentazione crescente. Due sono i fenomeni che svolgono un ruolo chiave nell’attuale mutazione del religioso: la de-territorializzazione e la de-culturazione. Le religioni non sono più ancorate al territorio in un duplice senso. In primo luogo nel senso della civiltà, poiché la maggioranza delle conversioni all’Islam avvengono infatti sempre più al di fuori del Medio Oriente così come quelle al cristianesimo fuori dall’Occidente, sia nel senso che le idee circolano indipendentemente da un raggio territoriale. Internet gioca da questo punto di vista il ruolo di forte fattore de-territorializzante. Ci si può convertire all’evangelismo protestante restando in Marocco, a casa propria, guardando la televisione o andando in chat. I born again fanno parte di un nuova categoria sociale su cui Roy focalizza la sua analisi. Le conversioni oggi sono sia di gruppo sia individuali, ma i nuovi convertiti non appartengono a comunità culturali e politiche. Coloro che scelgono consapevolmente di «nascere di nuovo» alla religione di appartenenza o ad una nuova lo fanno da soggetti singoli. La decisione di mutare religione nasce infatti da un bisogno privato, da una libertà personale legata al desiderio crescente di identità non più associata ad una dimensione territoriale. Si tratta di soggetti «destrutturati», alla ricerca di un senso che la società nega loro e che l’idea di una religione «pura» può conferire. Alla teoria marxista dell’alienazione, che ha sempre associato il mutamento del religioso alle strategie di dominio, si contrappone la teoria neoliberista dell’attore nazionale che agisce, con libertà assoluta, all’interno di un mercato mondiale trasparente. Il mutamento del religioso ricalca quello economico rivendicando una forte appartenenza tra economia e religione. Per comprendere cosa sta accadendo al religioso oggi, avverte Roy, bisogna entrare nel cuore di quel cambiamento economico che ha investito l’Occidente. Entrare nel vivo del processo economico, culturale e sociale che è stato ed è il capitalismo. Lo «scontro tra civiltà», invocato dal politologo Samuel Phillips Huntingtonall’indomani dell’11 settembre, rivela il suo fragile impianto ideologico. Esso non coglie il senso profondo di quell’integralismo religioso, di quell’odio furente contro l’Occidente, maturato nel seno stesso della società capitalista. In un mondo in cui le religioni tendono a sradicarsi dalla loro matrice, il problema non è più culturale ed il «multiculturalismo» si rivela una «illusione». Il crescente fondamentalismo è figlio del capitalismo, ne ha fatti propri i «marcatori culturali», adattandosi ad una società fluttuante e mobile. Esso «è allo stesso tempo fattore e prodotto della globalizzazione» (p. 239) Quando ci si trova di fronte ad un Halan McDonald’s o una Mecca Cola ci si chiede chi abbia realmente vinto, se la sharia o il fast food, La Mecca o Atlanta. Si assiste così ad una sorta di paradosso religioso. Le religioni pure” emergono accomunate dal rifiuto di una società capitalistica di cui in realtà sono figlie. Esse non sono in lotta tra di loro, come avveniva in passato, ma unite nella lotta di un unico nemico che di fatto le attraversa dall’interno. «Viviamo in una società ad arcipelaghi, fatta di sottoculture che, di fatto, negano la loro appartenenza a una coltura inglobante e perenne. Ma questo è anche il limite del “puro religioso”»(p. 312).

Si assiste così al crescente bisogno di dialogo e convivenza tra le religioni, alimentato dalla necessità di trovare dei punti di convivenza comuni al di là della dislocazione geografica e culturale. Il fenomeno della «formattazione» religiosa può essere visto «come un processo dialogico, volto a definire nell’interazione un’ortoprassia, una base di consenso riguardo all’espressione delle religioni nello spazio pubblico» (pp. 274-275). In passato segno della culturalizzazione del religioso, l’ortoprassia diviene con la globalizzazione un processo autonomo volto a far fronte alla deculturalizzazione crescente attraverso norme di coabitazione definite per lo più dai tribunali. Svuotata dei significati dogmatici e teologici, l’accettabilità del religioso è relegata a delle regole di «buon senso» definite dai sistemi nomativi vigenti. Abdicando sempre più ai loro contenuti, le religioni finiscono così con l’appiattirsi l’una sull’altra, accomunate sul piano di una prassi socialmente condivisa. Ciò alimenta indirettamente «una forma teologica standard» applicabile a tutto ciò che si definisce religioso, in cui ad avere la meglio è l’ortoprassia protestante. Max Weber aveva colto il nesso profondo tra l’etica calvinista e l’emergere del modello capitalista, quanto le due realtà fossero legate e come quel tipo di prassi religiosa ben si adattasse ai crescenti mutamenti economici. «Piuttosto che di influenza protestante sull’Islam e il buddismo sarebbe più opportuno parlare di una comune ortoprassia, legittimata non tanto dai testi protestanti ma dal nesso che lo studioso Max Weber ha istituito fra essi e il capitalismo» (p. 284). Definendo l’etica protestante, il sociologo tedesco ha infatti svolto un’opera da «formattatore del protestantesimo da esportazione nel quadro della mondializzazione capitalista». A trionfare dunque non è tanto il protestantesimo ma, ancora una volta, il modello capitalista che ha asservito a sé ed indebolito il religioso favorendone il processo di sradicamento politico-culturale. L’analisi weberiana è utilizzata da Roy per avallare una linea di lettura che lascia aperti numerosi interrogativi. Il mutamento del religioso è figlio della crisi economica e culturale che ha investito l’occidente ed è relegato, come ogni crisi, ad un momento di transizione. Cosa ne sarà dello spettro fondamentalista? A questa domanda Roy non dà risposta né profila alcuna linea di lettura. Quale sarà l’evoluzione della Chiesa Cattolica che compare, in ultima analisi, come la grande sconfitta della santa ignoranza? Che ruolo svolgerà in futuro l’Islam in Occidente e, soprattutto, quale Islam avrà la meglio? L’analisi sociologica si ferma all’interpretazione dei dati senza spingersi oltre. «La crisi del religioso è anche la crisi della cultura, ma questa è un’altra storia» (p. 313), si lascia sfuggire l’autore. Una storia che probabilmente va oltre l’interpretazione di dati, per addentrarsi in una cultura filosofica, economica, sociale in piena decadenza. L’inspessirsi del legame tra religioni e capitalismo mette in discussione l’intero pensiero occidentale e lo inchioda alla sua responsabilità. L’Occidente potrà affrontare realmente lo spettro del fondamentalismo solo a patto di mettere in discussione se stesso. Al di là delle ideologie e del loro tentativo di sopravvivere nel dibattito contemporaneo. È questa la sfida che Roy lancia tra le righe nel corso della sua analisi.

Nella incertezza tipica dei periodi di transizione, un’unica, inquietante consapevolezza rimane. L’integralismo religioso cresce ed è con questa crescita che il mondo sarà costretto a fare i conti. Non c’è dunque più tempo da perdere: «l’ignoranza ha un grande futuro davanti a sé».