Dal maggio 2022 su questa rivista non sono più accessibili molte immagini d'arte coperte dal copyright dei proprietari, ovvero generalmente musei e collezioni. Nella gran parte dei casi, l'immagine risulta vuota ma è leggibile la sua didascalia, per cui resta possibile la sua visualizzazione nei legittimi contesti.

Redazione e contatti

Cerca nel sito

Filippo, ovvero Dialogo delle imprese


 

 

Filippo, ovvero Dialogo delle imprese. Studio di logica socratico-berlusconiana
di Ludovico Fulci

Prefazione a "Filippo"
 
di Matteo Nucci

 


 

 

 

Prefazione

di Matteo Nucci

Il Platone di Raffaello

 

Il 28 marzo 1994, su via Nomentana l’unica salvezza mi parve Platone.

Ci sono cose che non si riescono più a dimenticare. Ci sono luoghi che appartengono così profondamente a una storia interiore, oltre che alla storia del proprio Paese o della propria città, che non si riesce più a sradicare quella sensazione. Chiedete a chiunque vi sia accanto di dirvi dove si trovasse il giorno in cui seppe del crollo delle Twin Towers. La storia interiore si è fusa con la storia civile e quell’immagine, la sensazione di quel momento – il luogo, i volti, le espressioni, il clima, gli odori – resta impresso nella memoria per sempre. Per me, il crollo civile del Paese in cui vivo si è aperto irrimediabilmente una sera su via Nomentana, una sera di marzo del 1994.

Ricordo ogni cosa perfettamente. Seguimmo i risultati delle prime elezioni politiche della Seconda Repubblica a casa di mio cugino a via Torlonia. Le previsioni erano fosche, le notizie che erano arrivate con l’anticipo del “sentito dire” erano talmente chiare e talmente assurde che io non riuscivo a crederci e fino all’ultimo stentai a crederci (resta, fra l’altro, quella sensazione di un sogno a occhi aperti, di qualcosa che non si vuole ritenere vero, di qualcosa di sbalorditivo e addirittura ingiusto, una sensazione che negli anni a venire non avrei mai più provato). Eravamo tutti silenziosi di fronte alla tv e non sapevamo che canale scegliere. Alla fine seguimmo Canale 5. C’era un giovane Enrico Mentana che aveva allestito in studio uno schermo con tre riquadri raffiguranti le tre coalizioni: la vincente si sarebbe illuminata. Alle dieci meno qualche minuto (infrangendo un codice che nessuno avrebbe mai pensato si potesse infrangere fino al ‘94 – primo piccolo peccato dei mille enormi che sarebbero seguiti) la luce passò attraverso il cranio allora completamente calvo di un imprenditore che parlava con marcato accento milanese, non proponeva assolutamente nulla a parte il famoso milione di posti di lavoro*, gridava al pericolo comunista, proclamava la sua venuta salvifica e da mesi ripeteva di avere percentuali di gradimento sbalorditive. Si trattava – detto per inciso – del proprietario di quel canale tv che avevamo scelto quasi per sfida. E del resto era proprietario anche di altri due canali televisivi ben più marcatamente schierati dalla sua parte. Ricordo che qualcuno riuscì a ridere quando uno speaker di Rai 3 (su cui eravamo subito passati come in cerca di un’isola dove i dati fossero smentiti) disse “il polo del cosiddetto buongoverno e quello della presunta libertà…”. “Cosiddetto” e “presunta”. Che genialità! Fece molto ridere e io pensai: ma come si fa a ridere, non c’è nulla da ridere, lo snobismo e l’alzata di spalle hanno un’aria suicida.

Me ne andai tardi, sentendomi addosso un vuoto che non riesco a dimenticare. Percorsi via Nomentana tornando a casa con un’aria da naufrago e proprio in quel momento mi venne in mente Platone. Per chi non conoscesse Roma, poco lontano da via Torlonia c’è villa Mirafiori, una bellissima villa romana, fatta costruire nel 1875 dal re Vittorio Emanuele II per la sua moglie morganatica: “la bela Rosìn”, Rosa Teresa Vercellana, contessa di Mirafiori e Fontanafredda. Tornata tra i beni gestiti dal Comune, dopo che per anni era stata in mano a un ordine religioso, qui Visconti decise di ambientare il suo ultimo film L’innocente, restaurando vetrate e costruendo colonne che sono tuttora parte integrante della villa. Dal 1980, infine l’Università La Sapienza ne ha preso possesso e vi ha dislocato la sede della Facoltà di Filosofia. Io studiavo lì. Studiavo Platone, soprattutto. Amavo Platone sopra ogni altro filosofo. Lo amavo per la sua letterarietà, certo, e lo amavo per merito di un professore che era un vero maestro, di quelli che appartengono definitivamente a un’epoca perduta: Gabriele Giannantoni. Da qualche anno, ormai, leggevo, studiavo, analizzavo dialoghi straordinari e siccome nutrivo un adolescenziale disprezzo per qualsiasi studio fine a se stesso, cercavo Platone nella realtà, in ciò che vivevo, costantemente. Adesso, su via Nomentana, tra villa Mirafiori e viale Regina Margherita, ebbi l’impressione che solo lui avrebbe potuto salvare il nostro Paese: Platone.

Platone aveva già analizzato tutto – questo era il punto. Certo, la sconfitta delle forze che sembravano dover governare la rinascita di questa Italia, dopo il crollo del cosiddetto Pentapartito, ossia soprattutto delle due forze che avevano governato negli ultimi anni, la DC e il PSI, fu un crollo suicida attribuibile alla miopia di due leader che sono presto caduti nel dimenticatoio e che pure dovrebbero ancora essere ricordati come i maggiori artefici di una sconfitta impossibile. Achille Occhetto e Mario Segni, con la loro presunzione, la loro incapacità di capire da dove arrivasse il pericolo, la loro egoistica tracotanza, riuscirono nell’impresa di consegnare l’Italia a un leader che non possedeva affatto la maggioranza dei consensi e che, pure, avrebbe preso a sbandierare l’idea di essere l’espressione della volontà del Paese. Sarebbe bastato un accordo fra i due presunti leader (qui sì che ci stava bene l’aggettivo!), sarebbe bastato un patto, un blocco di forze che puntasse alla ricostruzione dell’Italia post-tangentopoli, per eliminare sul nascere quel principio definitivamente distruttivo che invece si sarebbe affermato a partire proprio dal 1994.

Ma i giochi erano fatti. È utile ricordare come cominciò la fine, però. L’armata Brancaleone della cosiddetta “gioiosa macchina da guerra” progressista (un covo di litiganti cui nessuno sano di mente si è mai più riuscito ad abituare) ebbe il 33 % dei voti. Il Patto per l’Italia di Segni conquistò il 17 %. Assieme, insomma, Occhetto e Segni si erano conquistati la metà di tutti i voti italiani: 16 milioni e 300 mila voti più o meno. Poi c’erano le due astutissime coalizioni berlusconiane: al nord, il Polo delle Libertà in cui Forza Italia si era alleata con la Lega: 20 % dei voti. Al sud, il Polo del Buongoverno in cui l’alleato era chi invece detestava – ricambiato – la Lega: Alleanza Nazionale: 14 % dei voti. Ma il sistema elettorale allora era maggioritario uninominale e bastava prevalere di un voto, nei vari collegi in cui i candidati si combattevano, per averla vinta. La doppia coalizione berlusconiana, benché nella sua totalità avesse raggiunto solo il 34 % conquistò la maggioranza dei seggi che le permise di governare. Poté così dar vita a un governo che durò poco e che fu accompagnato da toni trionfalistici in cui appunto il ritornello era “la volontà del Paese”.

Già lì l’idea che Platone potesse aiutare l’Italia non era affatto peregrina. Come si poteva permettere a un uomo di ripetere quotidianamente che lui rappresentava la “volontà del Paese” senza rispondergli ogni giorno “no, non è vero, Onorevole, lei rappresenta solo il 34% di questo Paese e il 66% le è contrario”? Come si poteva invece tacere e ridere delle gaffes di questo imprenditore sceso in politica per salvare le sue aziende e la sua stessa persona e per giunta chiamare questo campione dell’antipolitica “Cavaliere”? Dove avevano studiato i nostri politici? Dove si erano preparati? A che tipo di scuola erano andati? Perché non capivano (ma non l’hanno ancora capito, dopo oltre 16 anni) che l’epiteto più sconcertante per il loro nemico era “onorevole” e perché non andavano una buona volta a leggersi Platone? Lì c’era già tutto. Circa duemilacinquecento prima, in un’altra democrazia fragile (fragile perché neonata, certo, fragile in quanto qualsiasi democrazia è intrinsecamente fragile), lo scontro era fra il competente e il populista, fra l’esperto e il demagogo, fra il sapiente incapace di parlare in pubblico e l’ignorante capace di ammaliare le folle. Lo scontro era fra il filosofo che doveva educare il buon politico e il sofista che educava e cresceva il retore. Bastava leggere Platone, dio mio! Perché non aprivano i libri, i nostri politici? Non avevano voglia di leggere il Gorgia? D’accordo, ma non potevano almeno sfogliare l’Apologia di Socrate – così semplice, chiara, eterna? Non avevano voglia di seguire le argomentazioni del Protagora? D’accordo ma perché allora non sfogliavano almeno il primo libro (dico solo il primo libro, il cosiddetto Trasimaco) della Repubblica?

Platone, sì, Platone. Aveva pensato a tutto lui. Si era scervellato, duemilacinquecento anni fa, per sconfiggere la potenza sovrumana dei sofisti, per mostrare che la capziosità retorica si può smascherare, per individuare il punto debole dei suoi avversari. Perché i nostri politici non si affidavano a lui? Pensai di scrivere. Ecco. Potevo scrivere. Potevo adattare un dialogo platonico a Berlusconi. Questo potevo fare. Questo non ho mai fatto. Ecco il motivo della felicità oggi a trovare chi invece l’abbia fatto. Ludovico Fulci ha scritto il Filippo. Dialogo delle imprese, ormai sette anni fa ma solo ora finalmente il suo lavoro viene pubblicato. Si tratta di un perfetto dialogo platonico che, a voler esser precisi, dovrebbe appartenere alla produzione giovanile del più grande filosofo dell’antichità. Direi, anzi, che il terminus ante quem, il termine cioè oltre il quale non si può andare per individuarne il momento della composizione, è il 390 a. C. I motivi sono parecchi. Forse non tutti sanno che i dialoghi platonici vengono datati sulla base di diversi metodi. Il contenuto e il genere di argomentazioni, innanzitutto, ma anche una strana questione che viene chiamata “calcolo stilometrico”, ossia una valutazione dello stile: la lingua in sostanza, o meglio un calcolo che individua l’abitudine a usare certe formule, certe espressioni, certi termini. Bene, Fulci è un Platone giovane in questo Filippo, è un Platone dallo stile impeccabile che tende già a cambiare rispetto agli scritti degli esordi. Dialoghi serrati, ma già una certa indulgenza in spiegazioni più approfondite. Botta e risposta, però con battibecchi edulcorati. Gli interlocutori, infatti, interrompono Socrate, ma non sono troppo incalzanti. Insomma, penso davvero che gli studiosi concorderanno a datare Fulci-Platone attorno al 390. Lo confermano i temi del dialogo, del resto, che possono essere giudicati tipici del Platone che sta arrivando a un punto di svolta nella sua lotta al sofista, al retore, al demagogo. Una lotta che però è ancora tutta sul versante dell’analisi del nemico.

I temi del Filippo lo dicono chiaro e tondo. Socrate-Fulci è impegnato a chiarire assieme ai suoi interlocutori in cosa consista la natura dell’imprenditore e in cosa si distingua da quella del politico e perché le due nature non siano sovrapponibili, perché insomma l’imprenditore non possa farsi politico. Le argomentazioni principali vertono innanzitutto sull’utile dell’imprenditore e la liceità del suo mestiere, dunque su quello che farebbe un imprenditore qualora si mettesse in politica, scambiando l’utile proprio e personale con l’utile dello Stato: abbassare le tasse, per esempio, eppoi indebolire progressivamente i principali servizi offerti dallo Stato – come l’istruzione e la sanità. Non entro nei particolari di quel che Socrate-Fulci spiega ai ragazzi che compaiono nel dialogo (Filippo, Cione e Agenore) e ai lettori stessi del Filippo. Dico soltanto che il fulcro su cui gira l’argomentazione è tipico della riflessione platonica e si tratta dell’adulazione. La capacità cioè di mostrare ai cittadini votanti il meglio, offrendo l’illusione più grande, quella di immediate felicità, illusione che però nasconde più profondi (anche se meno immediati) dolori. Il calcolo delle felicità e dei dolori del resto è sempre stato a cuore a Platone e sempre il filosofo ha dedicato alla questione uno spazio privilegiato. Per dirla con il Gorgia, è facile per un cuoco convincere una folla di gente ignorante e affamata, è facile per un cuoco abile che offre leccornie straordinariamente succulente aver la meglio su un medico sapiente, ma grigio e in parte pedante, che offre alla folla una dieta rigorosa. Chi oggi godrà del piacere immediato, domani stramazzerà nel dolore dell’indigestione e della malattia. Chi oggi si asterrà dal piacere immediato, domani e dopodomani coglierà i frutti della propria sanità. In fondo, dunque, è l’adulazione (la kolakeia greca) ciò che rende l’imprenditore capace di persuadere la sua città, di convincerla a seguirne le orme, benché la stia portando in realtà a erodere i propri stessi interessi in favore soltanto di quelli propri dell’imprenditore stesso e della sua sempre più ristretta, sempre più squallida corte di piccoli parassiti pronti comunque a dire di sì.

È qui che Fulci si ferma. Il dialogo ha fine con questa presa di coscienza, coerentemente con quel che faceva il Platone dei dialoghi cosiddetti giovanili. Forse allora da Fulci ci si può attendere ora un nuovo sforzo. Lo sforzo di mettersi nei panni del Platone cinquantenne, ormai rassegnato alla potenza degli adulatori, senza dimenticare di essere invece un cittadino italiano del 2010. In fondo, qui da noi, la realtà – come in qualsiasi storia, del resto – ha abbondantemente superato l’immaginazione. Si possono ormai addirittura prevedere partiti politici composti interamente da cortigiane cresciute fra un concorso di bellezza e un calendario, ministeri assegnati a ragazze che non alzino mai la testa (e non si faccia dell’ironia: la frase non ha doppi sensi), imprese ormai fatiscenti in mano a embrioni umani (embrioni per la cui vita si lotta pur di avere esseri ritenuti vivi che non sappiano però mai dire di no). Insomma, l’adulazione nel nostro Paese ha stravinto, l’adulazione ha raggiunto picchi di eccellenza mai visti neppure nelle più modeste corti di fine impero. E dunque il problema non è più analizzare l’avversario per metterne in luce la debolezza e la contraddittorietà – come fece il Platone ‘giovane’ e come ha fatto Fulci. Ma la questione è: costruire l’antagonista del retore che adula e che si circonda di adulatori, creare una specie di nuovo Pericle, di uomo politico capace di sconfiggere il massimo adulatore con un’intelligente, astuta, seducente forza argomentativa. Quello di cui l’Italia ha disperatamente bisogno. Quello che s’impegnò a fare Platone fra il 388 a.C. e il 375 a. C. con dialoghi come il Simposio, la Repubblica e il Fedro, dialoghi in cui cercò di costruire un retore sapiente, un uomo astuto ma competente, un persuasore capace di tutte le argomentazioni più magiche e seducenti, un uomo che dunque conosceva perfettamente l’eros e il suo funzionamento.

Ogni volta che torno su via Nomentana mi viene in mente questo. Continua a venirmi in mente Platone. Non c’è che da affidarsi a lui. Una volta ancora. E magari fosse la volta buona.

 

 

 


 

 

 

FILIPPO

ovvero
Dialogo delle imprese

Studio di logica socratico-berlusconiana

Il Socrate di Raffaello

 

PROEMIO. Si narra che Socrate, giunto a età avanzata, qualche tempo prima di morire nel modo in cui sappiamo che infelicissimamente gli accadde, tenesse con alcuni dei suoi più affezionati discepoli un discorso su ciò che sono le imprese, per come in particolare esse appaiono all’imprenditore; vale a dire a colui che, organizzando il lavoro degli altri, si adopera alla produzione di beni e tali beni distribuisce sul mercato. Tale memorabile discorso Socrate avrebbe tenuto, secondo quanto si racconta, su sollecitazione di Filippo, il figlio di Amintore, nostro cospicuo cittadino, il quale era desideroso di intraprendere una carriera sicura e redditizia nell’imminenza di gravi fatti che avrebbero di lì a poco determinato, come difatti determinarono, il decadere delle fortune sue e della sua famiglia.

Al dialogo erano presenti fra gli altri Agenore, medico sapientissimo, e Cione, nipote di quell’altro Cione che aveva combattuto a Maratona, distinguendosi per valore e sagacia.

 

SOCRATE. Vuoi veramente discutere, Filippo, delle imprese, degli imprenditori, di come le imprese possono tra loro distinguersi e anche mutarsi, trasformandosi da questa a quella e da quella a questa?

FILIPPO. Sì, Socrate, lo voglio. Non vedi anche tu come, per un giovane che voglia avere un sicuro avvenire, non resti altra strada da seguire nei tempi d’oggi se non quella di intraprendere la carriera di imprenditore?

 

SOCRATE. Benissimo, Filippo. E allora io credo che si debba iniziare col vedere in che modo si possa ragionare di imprese.

FILIPPO. Io direi, partendo dallo scopo che le imprese hanno.

SOCRATE. Vuoi dire della utilità o inutilità di esse?...

FILIPPO....proprio così! Infatti, come ti ho detto, vorrei diventare imprenditore...

SOCRATE. ...cosa che deve portarci a ragionare, se capisco bene, da imprenditori!

FILIPPO. Non desidero di meglio, Socrate!

SOCRATE. Dunque parleremo dell’utilità o utilità delle imprese dal punto di vista dell’imprenditore. Quand’è, Filippo, che un’impresa è utile, secondo un imprenditore?

FILIPPO. E’ facile Socrate: un’impresa è utile quando risponde allo scopo per cui è nata!

SOCRATE. Senz’altro, ma ragioniamo di utilità, così per ragionarne in genere e senza restrizioni di sorta?

FILIPPO. Che cosa vuoi dire Socrate? non capisco.

SOCRATE. E’ semplice, caro Filippo. Come vedi, noi possiamo distinguere le imprese in utili e inutili, stabilendo che vi sia come un grado massimo e un grado minimo di utilità. Ora, non dicevamo di dover ragionare di impresa dal punto di vista dell’imprenditore?

FILIPPO. Come no?

SOCRATE. E dunque quando per l’imprenditore è utile un’impresa? Quando è utile alla collettività, ovvero quando è utile a lui? A quale utilità tiene, secondo te, naturalmente di più l’imprenditore?

FILIPPO. Alla propria utilIl Socrate di Lisippoità, Socrate.

SOCRATE. Lo penso anch’io. E per l’imprenditore l’impresa è utile quando gli consente un guadagno. Sei d’accordo?

FILIPPO. Chi non sarebbe d’accordo?

SOCRATE. Bene. Vediamo ora se, sempre dal punto di vista dell’imprenditore, può darsi una qualche inutilità dell’impresa nella vita collettiva.

CIONE. Io direi che possono esistere imprese non utili sul piano della vita collettiva.

SOCRATE. E ragioni un po’ troppo precipitosamente, Cione, come tutti i giovani del resto. Vedete, amici, comunque sia socialmente inutile un’impresa, per l’imprenditore essa avrà sempre e comunque un benefico riflesso sulla vita della collettività.

AGENORE. Come può essere questo che dici, Socrate?

 

SOCRATE. E’ semplice, Agenore! Prendi l’ennesima industrietta alimentare. Nessuno ne sente la necessità. Non riempie alcun vuoto, nessuno dirà: “finalmente possiamo mangiare il pasticcio di fagioli o il pollo!”, quando quell’industria fosse specializzata nella produzione del pasticcio di fagioli ovvero in quella del pollo. Mi segui?

AGENORE. Ti seguo, ti seguo...

SOCRATE. Bene! Ora l’imprenditore osserverà che comunque la sua impresa dà lavoro a qualcuno. Inoltre la merce che lui produce è venduta e comprata e aggiungerà anche che, proprio per questa ragione, la sua impresa è un’attività economica e sociale utile, perché partecipa dello spostamento del denaro, che, circolando, mantiene vivace l’economia di un paese che altrimenti ristagnerebbe.

FILIPPO. E’ vero, Socrate. Del resto in questo senso si dice da parte degli imprenditori che la libera circolazione della moneta è garanzia di ricchezza generalizzata.

SOCRATE. Il benessere, Filippo. Si dice benessere.

FILIPPO. Dunque, Socrate, tutte le imprese sono utili e nessuna è tanto poco utile da essere inutile del tutto.

SOCRATE. Proprio così. E questo basta per quanto riguarda l’aspetto dell’utilità.

CIONE. C’è forse dell’altro che occorre sapere, Socrate?

SOCRATE. Certamente! Mica che le imprese possono dirsi soltanto utili o inutili... Per esempio, esse si distinguono anche in lecite e illecite.

FILIPPO. Vuoi dire che dobbiamo distinguere le imprese che perseguono loschi fini da quelle volte al bene?

SOCRATE. E come potrebbe essere questo che dici, Filippo? Non sarebbe un tornare sulla questione che abbiamo appena dibattuto? No, no! Noi assumiamo sempre il punto di vista dell’imprenditore e, quando parliamo di imprese lecite o illecite, ne parliamo per come esse sono in tal modo viste secondo le leggi del paese in cui l’imprenditore intende avviare la sua attività.

AGENORE. E la legge, Socrate, non dovrebbe mirare a una liceità che fosse al tempo stesso anche morale?

SOCRATE. In generale sì. Ma noi ragioniamo di un argomento specialissimo, che è quello delle imprese. E qui, come vedrai, la liceità, dal punto di vista della legge, non ha molto a che vedere con la liceità dal punto di vista della morale.

AGENORE. Spiegati meglio, Socrate.

SOCRATE. Vi farò qualche esempio, e tutto vi diventerà chiaro. Ponete che in un paese sia vietato consumare un dato prodotto in certe situazioni e che chi lo consuma venga perfino multato.

FILIPPO. E che prodotto dovrebbe mai essere questo, Socrate? Chi può essere così incosciente da comprare una cosa il cui consumo lo ponga nella condizione di pagare una multa? Non capisco.

SOCRATE. Non capisci soprattutto come possa esserci qualcuno che legittimamente espone quelle persone alle quali deve i propri guadagni a un tanto fastidioso inconveniente. Poi, se pensi che in alcuni paesi si multano i bevitori che bevono nei locali pubblici, ma non si fa nulla contro chi lavora l’uva o distilla l’alcool, capisci benissimo che cosa io intenda dire.

FILIPPO. Non ci avevo mai pensato, Socrate! Ma dimmi è questa la famosa creatività dell’imprenditore?

SOCRATE. Di questo ragioneremo dopo, se avremo tempo. Intanto non perdiamo il filo del nostro discorso. Mi dirai che ben scrupoloso sul piano morale dovrebbe essere l’industriale dei prodotti alcoolici per rinunciare alla sua attività, tanto più che, come abbiamo visto, essa dà lavoro a tanti e dà anche tante preziose occasioni per piccole spese che servono a spostare il denaro e a rendere vivace la nostra economia. Potrebbe però il Legislatore farsi zelante tutore della pubblica salute, suggerendo per esempio una lenta e graduale conversione di alcune industrie del settore, facendone nel tempo diminuire almeno il numero, in modo da ridurre il danno sociale... E’ certo che una cosa che appare poco lecita sul piano morale, può diventare perfino meritoria, come quando l’imprenditore riceva premi che sono incentivi, riduzione delle tasse, riconoscimenti pubblici e altre gratificazioni che tante pur brave persone, che non sono imprenditori, non riceveranno mai nella loro vita.

FILIPPO. Infatti, Socrate, non ti nascondo che è questa una delle ragioni per cui vorrei diventare imprenditore. In fondo non mi pare tanto grave quel che fa l’industriale che produce alcoolici. Esistono persone che vogliono bere, sono informate da lui stesso del male a cui vanno incontro. La legge che impedisce loro di bere in pubblico c’è e, se la violano, è colpa loro.

SOCRATE. Questo sì è un ragionare da imprenditori! Ma vedi, Filippo, io ho scelto di proposito un settore di attività industriale, la cui liceità sul piano morale lascia ancora adito a qualche discussione. Ammetterai che, se invece del vino o dei liquori, produco armi capaci di uccidere bambini innocenti, la questione sul piano morale diventa un po’ più complessa. La legge infatti non proibisce questo tipo di produzione per l’ovvia ragione che le armi servono allo Stato, che, in caso di guerra, deve poterne disporre. Perciò il fabbricante di armi che legittimamente le produce, legittimamente paga chi ne inventa di nuove e queste nuove invenzioni vengono brevettate, garantendo all’industria e all’inventore una vita, come si dice, tranquilla e serena.

CIONE. Ma allora, Socrate, quali sono le imprese illecite?

SOCRATE. Sono illecite, in generale, tutte le imprese che la legge proibisce di costituire.

FILIPPO. Ad esempio?

SOCRATE. Tutte quelle, per esempio, che perseguono scopi contrari alla pubblica decenza o che violano i legittimi interessi di privati cittadini.

FILIPPO. Come sarebbe, Socrate? Non ti contraddici con quanto hai prima sostenuto, per cui sono lecite tante imprese che apparentemente si direbbero illecite?

SOCRATE. Un’impresa illecita, Filippo, è quella che persegue per suo statuto fini illeciti, vale a dire fini che comportano atti illeciti.

FILIPPO. Per esempio?

SOCRATE. Per esempio, Filippo, se con alcuni amici costituisco una società di duplicazione di documenti, che metta a disposizione del pubblico la possibilità di copiare originali di pagine di libri, di brani musicali, di spettacoli, faccio qualcosa che è gradita e in certo modo utile a diverse persone.

AGENORE. Come no? Tante volte, specie per chi studia, è fondamentale avere a disposizione un testo che spieghi dettagliatamente questo o quell’argomento e non sempre è facile trovarne in pochi giorni sul mercato una copia.

SOCRATE. Ecco! Se, nel riprodurre il documento, supero la quantità di pagine o il minutaggio minimo previsto, commetto un reato. E se, nel costituirsi dell’impresa, ho già progettato una tale possibilità come ovvio modo di impiego delle apparecchiature che ho allestito, l’attività che svolgo e che svolgono anche le persone che lavorano con me e per me è illecita. E illecita, naturalmente, è l’impresa a cui ho dato vita.

FILIPPO. Vuoi quindi dire, Socrate, che, se pongo la giusta attenzione nel fare le cose e nel documentare o non documentare, nel pubblicizzare o non pubblicizzare quel che faccio e non faccio, badando ad essere formalmente rispettoso della legge, la mia impresa non sarà mai “illecita”?

SOCRATE. Penso proprio così, Filippo.

FILIPPO. E dunque una buona consulenza legale sarà la prima cosa a cui un imprenditore dovrà pensare, se vuole non correre rischi.

SOCRATE. Senz’altro.

FILIPPO. Ma dicci, Socrate, le imprese si distinguono soltanto in utili e inutili, lecite e illecite, o vi sono altre importanti distinzioni che si possono fare e che è opportuno che l’imprenditore conosca?

SOCRATE. Veramente, Filippo, siamo arrivati a un punto assai importante della nostra discussione. L’imprenditore è infatti un personaggio su cui converge l’attenzione di una società. Ed io credo che un saggio imprenditore non ami essere troppo noto. La pubblicità alla sua persona, l’apparizione in pubblico e specialmente la difesa del suo operato, la volta che fosse condotta da lui stesso, può danneggiarlo. E’ allora che le persone cominciano a domandarsi: “Ma quello che Tizio fa non potrebbe per caso essere socialmente dannoso?” Quando l’impresa dovesse rivelarsi dannosa per la società, allora l’imprenditore si espone a un brutto destino.

FILIPPO. Vuoi dire un destino paragonabile a quello della persona che, chiusa nella caverna e fortuitamente liberatasi dai lacci che ne stringevano i polsi e le caviglie, riesce poi a raggiungere l’uscita e, intendendo e comprendendo come le cose si compiono al di fuori di quel recinto di cui era stata a lungo prigioniera, torna dai suoi antichi compagni e cerca di spiegar loro come stiano le cose ed essi pensano di ucciderla? Questo è il destino dell’imprenditore, Socrate?

SOCRATE. No, Filippo. L’imprenditore non è il filosofo. Anzi, è, da certi punti di vista, l’esatto contrario di chi alla filosofia vota la propria esistenza. Perciò non corre il rischio di essere ucciso da una folla rabbiosa, indignata dalle troppe verità di fronte a cui è posta d’improvviso. Può tuttavia commettere lo stesso tipo d’errore che alcuni filosofi commettono.

CIONE. E qual è, Socrate, tale tipo d’errore?

SOCRATE. Farebbe bene il filosofo, come guardiano dello Stato, a operare silenziosamente e con discrezione, rimanendo fuori dell’agone politico, piuttosto arbitro, quando e se gli venga richiesto, che non istigatore di discordie. Talvolta però lo zelo lo spinge ad alzare la voce e allora iniziano per lui quei dispiaceri che conosciamo. Con uguale discrezione dovrebbe operare in una società l’imprenditore, godendo dei suoi giusti guadagni nel sapere che i suoi concittadini gli sono grati di quel che hanno da lui. Talvolta però la paura di poter perdere il prestigio raggiunto o che qualcosa intervenga a turbare quel che per lui è il normale corso degli eventi porta l’imprenditore a darsi alla politica. A questo punto nascono in lui grandi contraddizioni e un male silenzioso comincia a lavorargli dentro.

FILIPPO. Tu ci parli davvero della più felice e più nobile persona che possa esistere, se è vero quel che dici di questo male silenzioso. L’imprenditore assai nobilmente, infatti, sosterrebbe il peso e l’onore di porsi alla guida d’un paese, nonostante i patimenti, le ansie, le angosce, le incertezze che a questo punto si sommerebbero: quelle legate alla mercatura e le altre all’arte del governo.

AGENORE. Anch’io credo che tu abbia fin qui delineato l’immagine d’un uomo che non può altro che ritenersi soddisfatto della propria sagacia, e ti chiedo: non credi tu che tale sagacia, unita a quella spregiudicatezza che sembra anch’essa dote insita nell’imprenditore, dovrebbe farne un politico d’eccezione?

SOCRATE. Amici, ben importanti mi sembrano le questioni da voi poste, specialmente grave quella che saggiamente Agenore ha proposto, degna di un uomo che della propria esperienza sappia far tesoro, tanto da spingere il suo intelletto oltre il limite del comune orizzonte, quale appare a chi voglia essere semplicemente rispettoso di usi e tradizioni presso di noi consolidati, per cui da sempre i saggi sconsigliano che politica e affari, pubblico e privato si confondano l’uno con l’altro. Mi pare perciò importantissimo lasciare che Agenore, e altri che lo voglia tra voi, porti ancora più innanzi se è possibile, quanto sulla felicità o infelicità dell’imprenditore che intenda dedicarsi alla politica, possa da mente umana concepirsi.

Incoraggiati da questa esortazione, furono i giovani Cione e Filippo a sottoporre all’attenzione di Socrate le seguenti considerazioni. Il primo di loro a parlare fu Cione che disse più o meno queste parole.

CIONE. Meglio di me tu sai, o Socrate, che i giovani poco temono le novità e anche questo li porta ad assai stimare quegli imprenditori che producono chi nuovi tessuti, chi nuovi sandali, chi nuove barche, cose di poco conto per i nostri padri, ma che pure incidono su quegli usi e quelle tradizioni che sconsiglierebbero l’adozione di certe novità, come le cosiddette mode nuove. Tante volte vediamo che lì per lì par buffo chi cambi pettinatura o vesta in modo difforme dall’usuale, ma poi finalmente questi è imitato dagli altri. E, siccome credo che quel che avviene nel piccolo possa poi ragionevolmente proporsi nel grande, chi mai ci assicura che, chiamando alla più alta carica di governo uomini provvisti di tali meriti che tu stesso e Agenore avete illustrato, possano risolversi meglio i più gravi problemi politici?

SOCRATE. Sei molto acuto per la tua età, giovane Cione, e sensatamente presumi che quel che vale per le cose piccole, possa anche valere per le grandi. Vedo inoltre come il tuo ragionamento prosegua in qualche modo quello dell’ottimo Agenore che ci parlava della forza e della spregiudicatezza come virtù che il politico deve saper usare, secondo quanto insegnò quel famoso sapiente Macrocluzio, che alcuni fanno etrusco, altri latino, precisando come tali doti vadano usate opportunamente e secondo quanto l’occasione suggerisce. Ma ascoltiamo quel che ha da aggiungere Filippo che più di altri ha diritto a intervenire, avendo lui in certo modo proposto di ragionare delle questioni che ineriscono all’essere imprenditori.

FILIPPO. Devo dire, Socrate, che non capisco in che senso dovrebbe l’imprenditore desistere dal dedicarsi alla politica. Si direbbe che tu gli riconosca un animo vile, come se a un uomo esperto di cose che finalmente interessano l’utile pubblico dovesse mancare il coraggio di dire in questi tempi di crisi. “Sono qui, pronto a rivestire quel ruolo in cui altri hanno fallito!” Non ti nascondo che, la volta in cui dovessi diventare imprenditore e notassi che c’è bisogno di me per risolvere i problemi dello Stato, non mi tirerei indietro, anzi giudicherei male me stesso, se non lo facessi.

SOCRATE. Sei, perché tanto giovane, ardimentoso fino ad essere temerario perfino con le parole, mio caro Filippo. Noi fin qui avevamo ragionato, se ben ti ricordi, da imprenditori ed è esattamente questo il problema. Ritieni tu che quell’astuzia e quella spregiudicatezza che abbiamo riconosciuto come qualità tipiche del nostro uomo, intendo l’imprenditore, lo porterebbero mai a ragionare diversamente da come egli ha appreso a ragionare, vale a dire da imprenditore? Proprio perché non è vile, il nostro uomo non vorrà continuare a pensare diversamente da come abbiamo visto che pensa. E l’utile e il lecito continueranno ad esser da lui intesi come abbiamo visto che egli li intende, tanto più che alla politica egli ha risolto di volgere la sua attenzione per difendere le proprie ragioni. E quel che, da politico farà, conferma la natura sostanzialmente impolitica del suo modo di pensare.

AGENORE. Questo che dici è molto interessante, Socrate, e credo che farebbero bene i nostri giovani amici ad ascoltare quanto su questo punto possa dirsi.

SOCRATE. E allora, Cione, rispondi alla mia domanda. Volendo e in certo modo dovendo per sua natura non rinunciare a pensare da imprenditore, quali credi che potranno essere le misure che, nell’amministrare lo Stato, possa prendere un imprenditore?

CIONE. Si curerà, io penso, soprattutto e innanzitutto dell’economia.

SOCRATE. E dici bene, mio giovane amico! Ma come se ne curerà, se non secondo un punto di vista che è quello dell’imprenditore? Non vedevamo noi prima che nessun’altra ragione potrebbe indurlo a darsi alla politica se non quella di salvare le imprese e innanzitutto il proprio diritto ad essere imprenditore? Io vi dico che, dunque, da imprenditore egli farà in modo che si cancellino tutte le contraddizioni tra il suo essere imprenditore e il suo essere politico, negando in via di principio che possa esistere qualcosa come un conflitto di competenze ed è possibile che anzi parli francamente di conflitto di interessi, tradendo perfino nel vocabolario quale dei due campi più gli possa premere. Ma questo è secondario. Io credo che uno dei primi passi che un tale personaggio farebbe, la volta che riuscisse a governare, sarebbe la riduzione delle tasse.

AGENORE. Questo lo credo improbabile, Socrate. Se c’è, come tu l’hai chiamato, un conflitto di interesse, chiunque penserebbe, perfino i meno malevoli e quelli stessi voglio dire che l’hanno sostenuto, che tale misura sarebbe suggerita dal desiderio di risparmiare proprio su quei fondamentali contributi che giustamente chi amministra uno Stato pretende dai cittadini. Se ciò facesse, io credo perderebbe senz’altro l’appoggio dei suoi stessi sostenitori.

Il Socrate di DavidSOCRATE. Tu sei un medico, Agenore, come ricordo lo era un tuo zio che fu in quest’arte eccellente. E’ per te logico, quindi, che il braccio obbedisca alla mente. Ma dimmi: non è forse vero che il beone, alzando il gomito, come proverbialmente si dice, obbedisca a un desiderio insopprimibile che la sua stessa mente, quando è lucida, non esita a riconoscere illogico?

AGENORE. Come no? Tanto è vero che comprendo il desiderio che l’imprenditore ha di ingrassarsi come un porcello, ma quello che non capisco è come questo possa essere approvato e assecondato da altri.

SOCRATE. Eppure, per poco che si rifletta sulla natura umana, si scopre che tutto questo è naturale. Prova ad andare all’agorà domattina presto, all’ora in cui tutti i nostri concittadini sono animati dai propositi migliori, e proponi a chi incontri di formare un partito che lotti per la distribuzione gratuita del vino. Qualcuno ti guarderà di traverso, altri ti dirà sdegnoso che una tale proposta è indecente, altri arriveranno a trattarti male, ma la maggior parte, a fine giornata, quando si è stanchi del lavoro e delusi del poco tempo che s’è dedicato a sé stessi, ai propri affetti, molti ripensando alla tua proposta la giudicheranno in cuor loro interessante e qualcuno arriverà a pensare che sei un uomo coraggioso ad avere iniziative di questo tipo.

CIONE. E’ quella che si chiama demagogia, Socrate, o mi sbaglio?

SOCRATE. Non ti sbagli affatto, Cione! Ma vedi, tornando al nostro uomo, la sua consumata astuzia non lo porterà mai a fare proposte che possano così facilmente scoprire quali interessi privati agiscano nella sua politica e forse un senso di decenza gli consiglia di non indagare troppo sulle ragioni più personali che lo spingono a prendere certe decisioni.

FILIPPO. Non capisco che cosa tu voglia dire, Socrate!

SOCRATE. E’ più semplice di quanto tu creda, Filippo. Immagina d’essere innamorato. Non avrai ragione per nasconderlo a te stesso, anzi il pensiero d’esserlo ti terrà come una dolce compagnia. Ma, se oltre che innamorato, sei anche geloso, avrai difficoltà ad ammetterlo, come vedi che fanno tanto innamorati gelosi. O mi sbaglio?

FILIPPO. Non ti sbagli, Socrate.

SOCRATE. Come un innamorato geloso non ammette volentieri d’essere geloso, cosi l’imprenditore, che si sia votato alla vita politica, non ammetterà volentieri di fare qualcosa per il suo personale tornaconto e di questo può perfino essere che si faccia personalmente convinto. Ma, come tutti gli uomini di potere, anche lui è circondato di adulatori, alcuni dei quali usano tutte le astuzie possibili per entrare nelle sue grazie e farselo amico. Tra questi qualcuno più abile a trovare argomenti per giustificare le cose più folli lo soccorrerà, convincendo lui e tanti come lui, che già in cuor loro lo credono, che non pagare le tasse sia un modo per risolvere i tanti problemi che affliggono l’economia di un paese.

CIONE. Io credo, Socrate, che uno Stato sia un po’ come una barca, nella quale ciascuno deve sforzarsi di porre le proprie energie. Chi gioca al risparmio di queste energie fa il danno degli altri, ma anche e soprattutto il proprio, dal momento che anche lui si trova su quella barca. Quali argomenti dunque possono trovarsi, Socrate, per dire il contrario di quanto il buon senso suggerisce?

SOCRATE. Argomenti che pretendano di andare oltre il buon senso, Cione! A costo d’annoiarvi, vi racconto una storia di cui forse Agenore avrà sentito parlare. C’era uno sciocco in una di queste città non troppo lontana da quella in cui viviamo che desiderava ardentemente avere una statua di quelle che si fanno agli atleti che vincono le gare. Invece di allenarsi, impegnandosi al massimo in modo da ottenere l’alloro desiderato, questo sciocco pensò di ricorrere a vie più brevi. Perciò corruppe, avendo denari, tutti gli altri concorrenti ed ebbe la certezza della desiderata vittoria. Siccome però tutti gli altri che gareggiarono con lui diedero prove molto deludenti, ci si chiese come tutto questo potesse essere accaduto. Quando si scoprì la verità, non solo la statua dell’imbroglione fu fatta a pezzi, ma per circa quarant’anni nessun campione ebbe l’onore d’essere effigiato e lo sport fu sempre meno seguito e praticato in quella città. Io credo che chiunque di voi capisca che, se lo sciocco della nostra storia si fa furbo, invece di servire la sua vanagloria, serve quella degli altri. Quando da sciocchi ci si fa furbi e da furbi insensibili affatto a quanto attiene all’interesse comune, si fa presto a inventare per esempio che, essendo l’impresa il motore dell’economia e dovendo l’economia essere rivitalizzata, occorre detassare per creare circolazione di moneta, dando respiro all’iniziativa imprenditoriale e nuova spinta al motore.

CIONE. Ma se così giudicano persone esperte, significa che così dovrà pure essere.

SOCRATE. Sarà pure, ma il buon senso mi dice che, se l’economia va male, è probabile che sia il suo motore a non funzionare ed è lì quindi che occorre intervenire, evitando di alimentare, con dispendio di risorse, un motore che non funziona. Tu non ingrassi inutilmente un cavallo che non va e preferisci curarti di quello che ti appare più promettente. O no?

CIONE. Veramente io credo, Socrate, che qualunque persona di buon senso sacrificherebbe il cavallo malato per quello sano. Ma dicci in che senso un cavallo che ha in passato dato il meglio di sé, può a un tratto tradire le aspettative? In altri termini quale è il punto debole delle imprese?

SOCRATE. Quel che non funziona sono quelle imprese che, arricchendo i titolari di esse, impoveriscono però lo Stato. E queste sono le imprese obiettivamente dannose, come quelle che, senza garantire nessun vantaggio reale, inquinano però l’ambiente, deturpano il paesaggio, sporcano le acque, inducono processi degenerativi negli spazi abitati come smottamenti e frane, e le frane sono poi ragioni di crolli apparentemente inspiegabili e invece spiegabilissimi. Aggiungi poi che le acque sporche si infettano e le infezioni portano a malattie. In breve tali imprese che nessun palese vantaggio offrono ai cittadini, obbligano medici, ingegneri, architetti, militari a intervenire per sanare situazioni non sempre sanabili e tutto a spese dello Stato del quale gli imprenditori che le dirigono, possono ben dirsi parassiti. Se poi si aggiungono le imprese che, per essere illecite, agiscono nella clandestinità e che hanno fatalmente rapporto, attraverso il riciclaggio del denaro, con imprese lecite, comprendi da solo come la logica dell’imprenditoria a tutti i costi comporti una perdita notevole per uno Stato che si impegni nella lotta alla criminalità. Quest’ultima infatti si rafforza e in certo modo si legittima nei contatti che stabilisce con altre imprese “pulite”, che nascono talvolta sotto gli auspici dei professionisti del crimine.

FILIPPO. E quale ragione c’è per cui un fatto del genere debba accadere?

SOCRATE. La ragione, Filippo, è che spacciatori di droga, lenoni, sicari devono poi investire il denaro accumulato e questo investimento, per riuscire, deve essere un investimento “lecito”. Il costituirsi, per esempio, di un’impresa di costruzioni agevola molto un’operazione del genere. E questo non è tutto!

AGENORE. Che altro c’è, Socrate? Non bastano già tante disgrazie a colpire un povero paese?

SOCRATE. Per colmo di raffinatezza, alcuni dei servizi pubblici, a cominciare proprio da quelli che servono a compensare i danni che, come abbiamo visto, molte imprese producono, vengono organizzati da nuove imprese private che a questo lecito scopo si costituiscono e, per far questo, hanno larghi finanziamenti da parte dello Stato.

AGENORE. Ma che c’entra con tutto questo quel che prima dicevi dell’adulatore, del furbo che, se ben capisco le tue parole, sarebbe capace di indurre alla cecità quanti imprenditori piccoli e grandi alla cecità dell’interesse comune sono propensi? Chi adula costui e perché?

SOCRATE. Adula proprio e innanzitutto quello che ritiene sia il suo padrone. Lo accarezza, confortandolo nell’opinione che tutto quel che fa è ben fatto e, per dargliene certezza, si avvarrà innanzitutto di questa sciagurata categoria di imprenditori che perseguono un’attività per puro scopo di lucro e non per dare al pubblico qualcosa di autenticamente necessario in cui essi per primi credano. Accecati dal desiderio di guadagnare senza troppo impegnarsi, questi mediocri faranno quadrato attorno al loro collega che si sia dato alla politica. E aggiungo che per questa china si prosegue un cammino tutto in discesa nel quale precipita lo Stato.

AGENORE. Sarebbe?

SOCRATE. Una volta stabilito il principio che le tasse sono dannose all’economia, il cittadino si rassegna a pagar lui quei servizi che una buona e sagace amministrazione pone a disposizione della comunità.

CIONE. Una cosa che avviene un po’ per volta, suppongo. Non credo infatti, Socrate che ci si rassegni, come tu dici, in tempi tanto brevi a mutare regime di vita.

SOCRATE. In tempi brevissimi, mio caro amico. Ti sei mai chiesto perché nella nostra bella città si vuole che il più ricco dei cittadini paghi per l’allestimento degli spettacoli?

CIONE. Cado, come si dice, dalle nuvole, Socrate! Che c’entra tutto questo col discorso che facevamo?

SOCRATE. C’entra, invece. Eccome! Se nessuno offre gli spettacoli, ci sarà comunque chi, dietro pagamento, garantirà ai cittadini questo servizio. Quale ateniese non pagherebbe per andare a teatro? Capisci da solo quale grande potere avrebbe a questo punto quell’imprenditore che si assumesse il compito non lieve e assolutamente meritorio agli occhi dei suoi concittadini di dargli quel divertimento che, dopo una settimana di lavoro, tutti desiderano. Il nostro Legislatore ha prudentemente voluto che nessuno avesse la facoltà di gestire per mestiere un affare che gli avrebbe dato fin troppo potere, nuocendo agli interessi della collettività.

AGENORE. Posso condividere che un sano giudizio abbia ispirato, o Socrate, il nostro Legislatore, ma non comprendo la relazione tra questo fatto e la disponibilità da parte dei cittadini ad assecondare i capricci dell’imprenditore che si sia dedicato alla politica.

SOCRATE. Eppure è semplice, amici. Esattamente come sapeva il nostro Legislatore, anche il nostro uomo sa che chiunque fa di tutto per ottenere quel che desidera fortemente. Esattamente come tutti pagheremmo per il divertimento del teatro, tutti pagheremmo per procurarci quanto ci è necessario. Io ti dico che i primi servizi che non esiteremmo a pagarci, alla luce di questa dotta conclusione per cui le tasse impoveriscono invece di arricchire un paese, sono quelli essenziali anzi essenzialissimi, come le cure mediche. E il nostro uomo non esiterà a tagliare gli interventi dello Stato in questo e in altri settori primari, come l’istruzione. E non è ancora niente! I suoi esperti, che lo consigliano sul piano della politica finanziaria nella quale pretenderà “giustamente” d’avere competenza, lo convinceranno che la situazione debitoria in cui si trova il paese non costituisce un problema, ma un ulteriore elemento di “vivacità” dell’economia.

FILIPPO. Questo veramente mi pare incredibile, o Socrate, e se mi dimostri come il nostro uomo faccia a sostenere una cosa del genere, ho poi due domande da farti: la prima è come non ammirare tanta genialità; la seconda quale sia la ragione per cui tu che la intendi, non pratichi una filosofia così sottile.

SOCRATE. C’è qui con noi l’ottimo Agenore il quale, da medico, credo preferirebbe avere piuttosto molti clienti poveri ma anziani, piuttosto che molti clienti giovani, disposti a pagarlo bene, ma votati per qualche ragione misteriosa a una morte precoce.

FILIPPO. Mi pare questo un modo strano di ragionare, Socrate.

SOCRATE. Ed è invece un modo esattissimo. Che ne sarebbe della buona fama di medico che Agenore si è così pazientemente creata, se i suoi clienti, pur pagando, andassero in gran parte all’altro mondo? Chi si rivolgerebbe più a lui per farsi curare non dico un’indigestione ma neanche un callo? Aggiungi che Agenore ha tre figli. Quale dei tre ardirebbe seguire l’esempio di un padre che si sia fatto, sia pure senza sua colpa, una fama così poco gloriosa? E non è invece nella logica dei fatti che qualcuno in famiglia calchi le orme di un parente per la familiarità, se non per altro, che nei discorsi quotidiani acquista con l’arte da quello esercitata? Certi ragionamenti paiono sottili, mio caro Filippo, perché sono credibili lì per lì, e, se si è fortunati, può sembrare che la medicina escogitata sia quella giusta, mentre invece è, con tutta evidenza, quella sbagliata come, prima o poi, apparirà a tutti.

Se abbasso le tasse, alcuni effetti benefici si notano al momento e l’ammalato rincuorato pare star meglio, ma se il troppo ottimismo gli suggerisce di sospendere le medicine, può darsi pure che si aggravi e muoia. Non si dice forse che il medico pietoso fa la piaga ulcerosa? Se i ricchi continuano a fare investimenti sbagliati e, per esempio, invece di avviare un’impresa che sia di pubblico vantaggio e di pubblica utilità, persistono, per amore di denaro, nel potenziare la vecchia attività, l’economia torna a ristagnare. Se poi i servizi sono, come sappiamo, insufficienti, quando occorrerà rimettere le tasse, ciò sarà molto difficile con un’evasione fiscale che quadruplicherà rispetto al passato, con l’effetto paradossale che l’aumento delle tasse sarà stato inutile.

I ragionamenti troppo sottili, mio caro Filippo, sono vincenti lì per lì, e vanno bene per l’avvocato che debba difendere una causa, rifugiandosi in tutti i cavilli possibili. Questo è il suo compito ed è anche il suo contributo alla macchina della giustizia. Egli farà bene infatti a mostrare, se ce ne sono, i punti deboli di una legge, le sue contraddizioni, i suoi vizi. Starà poi al giudice salvarne, come si dice, lo spirito e al Legislatore il compito di correggere la legge per evitare che in futuro si comminino sentenze ingiuste in ossequio a leggi sbagliate. Ma guai a noi se chi ci governa si trovi nel ruolo dell’accusato che debba contare sul consiglio di abili avvocati. Egli dovrebbe idealmente porsi al di sopra di tutte le parti e pensare all’utile comune, cominciando innanzitutto col diffidare del proprio, cosa che all’imprenditore sarà veramente difficile fare, per via delle ragioni che ho illustrato e voi tutti avete mostrato di condividere.

CIONE. Sicché tu vuoi dire che non sia auspicabile che l’imprenditore si dia alla vita politica, o Socrate! E mi pare infatti che sarebbe davvero esecrabile tutto quel potrebbe accadere in uno stato se un fatto del genere accadesse.

SOCRATE. Sono d’accordo con te, Cione, ma dobbiamo ammettere che se, questo accade, non dobbiamo poi esecrare, come tu dici, l’uomo che, forse al di là della sua volontà, si è trovato a far quello che mai avrebbe dovuto fare, quanto piuttosto gli uomini che glielo hanno consentito e che gli hanno lastricato la strada verso la sua stessa rovina.

FILIPPO. Non è la prima volta, Socrate, che ti riferisci a un qualche cattivo destino dell’imprenditore che si dedichi alla vita politica. Ci puoi dire adesso in che cosa consista un tale destino?

SOCRATE. Un destino infelicissimo. Niente infatti dell’impero da lui costruito in vita resterà in piedi, dopo la sua morte. Il suo nome sarà ricordato con disprezzo, i suoi figli e nipoti saranno messi in condizione di vergognarsi di quel padre e di quel nonno il cui ricordo nella coscienza comune sarà associato ai più gravi disastri che si siano abbattuti sul paese. Altro che la statua dello sciocco fatta a pezzi nello stadio! Tutto quello che lui avrà fatto sarà guardato con muto disprezzo e il suo governo verrà additato come esempio da evitare. Aggiungerò anche che le uniche parole pietose che nei suoi confronti saranno state dette sono quelle che io ho pronunciato poc’anzi, dicendo che non dobbiamo esecrare l’uomo la cui volontà sia stata, in tempi vili, tentata da eventi così tanto più grandi di lui.