Dal maggio 2022 su questa rivista non sono più accessibili molte immagini d'arte coperte dal copyright dei proprietari, ovvero generalmente musei e collezioni. Nella gran parte dei casi, l'immagine risulta vuota ma è leggibile la sua didascalia, per cui resta possibile la sua visualizzazione nei legittimi contesti.

Redazione e contatti

Cerca nel sito

Intervista a Laura Bazzicalupo

Governamentalità bioeconomica, politica e cultura in Italia.

Intervista a Laura Bazzicalupo


Presidente della Società Italiana di Filosofia Politica e professore ordinario di Filosofia politica presso l’Università degli Studi di Salerno, Laura Bazzicalupo ha maturato un percorso di ricerca oramai trentennale tra le cui caratteristiche più pregnanti è certamente da ascriversi la costante interrogazione del rapporto tra potere e sapere – dalla riflessione su conoscenza e politica in Mann e Musil (Il sismografo e il funambolo. Modelli di conoscenza e idea del politico in Thomas Mann e Robert Musil, Liguori, Napoli 1982) a quella su potere e cultura in Burckhardt (Il potere e la cultura: sulle riflessioni storico-politiche di Jakob Burckhardt, ESI, Napoli 1990), fino ai numerosi lavori che indagano criticamente il paradigma biopolitico in relazione alla globalizzazione, all’economia e ai processi di soggettivazione, e tra cui si segnalano Politica, identità, potere. Il lessico politico alla prova della globalizzazione, Giappichelli, Torino 2004; Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2006; Biopolitica. Una mappa concettuale, Carocci, Roma 2010.

Tra i suoi lavori sono altresì da ricordare: Hannah Arendt. La storia per la politica, ESI, Napoli 1995; Mimesis e Aisthesis. Ripensando la dimensione estetica della politica, ESI, Napoli 2001; Superbia, Il Mulino, Bologna 2008; Eroi della libertà. Storie di rivolta contro il potere, Il Mulino, Bologna 2011; nonché la curatela, per i tipi di Laterza, di J. Butler, E. Laclau, S. Žižek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità, Roma-Bari 2010.

Il suo sguardo plurale sulla realtà politica, economica e giuridica italiana e internazionale, capace di comprendere e mostrare alcuni dei tratti culturali dominanti del nostro tempo, e la profondità della sua indagine sul rapporto tra potere e cultura ne fanno un’interprete privilegiata per il tema del numero in corso di Kainos.

 

 

  

 

Gianvito Brindisi: Innanzitutto la ringrazio per aver accettato la proposta di dialogare con Kainos. Vorrei porle per cominciare una domanda di carattere generale utile a inquadrare il suo lavoro. Se dovessi riassumere il suo percorso partendo da lontano direi che il suo tratto costante è la problematizzazione del rapporto tra potere e sapere: così già nell’analisi del rapporto tra potere, conoscenza e cultura in Mann, Musil e Burkhardt, e fino alle riflessioni sul nesso potere-sapere nella filosofia di Michel Foucault, passando per lo studio su Arendt. In particolare lei ha messo a fuoco negli ultimi anni la categoria di biopolitica come categoria utile a comprendere alcuni mutamenti decisivi delle nostre forme di esperienza giuridica e politica che in un certo qual modo sfuggono alla presa del lessico giuridico e politico tradizionale, vale a dire quei momenti in cui la vita è implicata nei rapporti di potere. Ha inoltre lavorato sui rapporti tra economia e processi di soggettivazione, nonché su quelli tra populismo e immaginazione politica. Insomma, mi sembra che soprattutto a partire da Il governo delle vite lei si sia orientata a pensare e a mettere in relazione quelli che a mio giudizio sono tre poli significativi del potere contemporaneo, vale a dire la biopolitica, l’economia e il populismo – che sono tra l’altro anche tre poli importanti sulla cui base vanno costituendosi e orientandosi gli attuali processi di soggettivazione. È forse perché ritiene questo nesso imperante che ha deciso di lavorare, in tempi antieroici come i nostri, sulla figura dell’eroe e sulla libertà come esperienza? Ovviamente sto semplificando al massimo, ma le sarei grato se potesse tracciare una sintesi del suo percorso e delle ragioni che l’hanno condotta ad analizzare queste problematiche.

 

Laura Bazzicalupo: Lei ha perfettamente individuato nel nesso politica-verità quello che ha orientato il mio lavoro: al principio nella versione che allora era molto discussa sul ruolo degli intellettuali in relazione al potere, nel novecento totalitario (la Kulturkritik e la critica dell’ideologia). Il mio assunto epistemologico è non normativo: piuttosto un’analisi che prendesse in carico la complessità irriducibile al razionale dei legami sociali e politici (psicologia delle masse, mito...). E dunque come oggetto più il potere (perciò Burckhardt e Foucault) che la politica istituzionale. Un altro elemento che mi accompagna e che emerge poi in queste scelte finali sulla dimensione eroica dell’agency politica, è stato l’attenzione alla dimensione estetica della politica (Arendt, ma già Mann e Musil o Broch). C’è un mio libro pochissimo noto (lungo e disordinato, ma per me molto importante) che si chiama Mimesis e aisthesis: la dimensione estetica della politica. È il nodo tematico della crisi della rappresentazione e della centralità del sentire, che non ho fatto che dipanare lentamente, mutando anche via via le mie idee. Là per la prima volta (e siamo nel 2000) ho cominciato a parlare di biopolitica quando davvero ben pochi avevano sottolineato quella categoria negli scritti di Foucault (del quale peraltro non erano stati ancora pubblicati i corsi appunto biopolitico-economici). Venendo a questa categoria, per me è molto interessante non tanto per l’uso che se ne è fatto in direzione della vita e del neonaturalismo (che non sta nelle mie corde), ma perché modifica attraverso il concetto di governamentalità la nozione di potere in senso non repressivo ma produttivo e relazionale. Si tratta di una modifica a mio avviso cruciale ( e che la sinistra dovrebbe tenere in conto) che permette di individuare, come lei dice, nel processo di soggettivazione e di gestione del desiderio e del corpo la forma dell’obbedienza in tempi di socializzazione e democratizzazione della politica. La produttività del potere rinvia alla sua logica essenzialmente economica e rintraccia una dimensione gestionale e provvidenziale che nella rappresentazione teologico-politica centrata sulla sovranità da Hobbes a Schmitt, viene ignorata, negata, provocando il vuoto della neutralizzazione e della spoliticizzazione: prenderla in conto, scorgerne il codice economico che ritraduce la complessità del vivente, è interessante e utile per capire la svolta di radicale socializzazione e spoliticizzazione dell’ultimo trentennio. Il perno di questa svolta sta nella messa in mora a tutti i livelli del codice rappresentazionale a favore di una presunta immediatezza e immanenza: in questo quadro il populismo attuale appare come una biopolitica realizzata nello schiacciamento del soggetto politico sulla presenza e visibilità assoluta. Mi muovo dunque oggi, come ieri, in difesa della mimesis, della rappresentazione così come viene ritrascritta in una assoluta contingenza nella democrazia radicale di Laclau, Butler, Žižek, Rancière o Badiou. Questo rilancio della politica richiede comunque una ontologia più complessa e articolata che quella ‘impolitica’ del ‘singulier pluriel’ alla Nancy. Il registro eroico è interessante perché testimonia – oggi, in modo assolutamente postmoderno – la verità come testimonianza e come impegno di parte (e questa è una cosa che ho ritrovato nel modo in cui lei tratta della matrice ordalica del giudizio in Foucault). Implica una ontologia come relazione tra diverse modalità della psiche umana, una ontologia che dice, ma anche nasconde, appare, ma anche nega, e, se ci riesce, attraversa il fantasma delle proprie ambivalenze prendendole su di sé.

 

Nel suo libro sulla superbia lei riconosce nell’autoaffermazione l’imperativo della nostra cultura, imperativo che di fatto ci metterebbe continuamente di fronte alla nostra impotenza. Nel testo sulla libertà, d’altra parte, afferma che la nostra realtà ci costringerebbe a un tradimento etico verso noi stessi, imponendoci in qualche maniera di tenere a distanza i nostri disagi e le nostre sofferenze, e inducendoci a un’attitudine cinica nei confronti delle nostre inquietudini. A fronte di questo è corretto dire che secondo lei l’attuale sistema di potere, caratterizzato com’è dal dominio del mercato, crea e si nutre di un desiderio soggettivo di allontanare il dolore, il conflitto, lo scontro, e che dunque quella in cui viviamo è una cultura anestetica? Ciò mi sembrerebbe confermato da quanto lei indica come reazione possibile a un simile stato di cose, vale a dire dalla libertà come «contestazione della necessità delle cose; o almeno riduzione dello spazio di necessità nelle cose del mondo e apertura dello spazio di modificabilità», in cui mi sembra di poter riconoscere una delle ispirazioni più autentiche di Michel Foucault, quella di ridare mobilità alle cose e sganciarsi dalle proprie familiarità per produrre eventualmente paralisi in vista di una nuova domanda morale, ma certo mai anestesia.

 

Anche questa volta ha interpretato bene e la ringrazio perché è una cosa piuttosto complicata. Si parte, come lei dice da una diagnosi del presente come tempo del tramonto della Legge repressiva e soggettivizzante (tramite il desiderio) a favore di un’ingiunzione superegoica a godere: non volta al piacere che si iscrive in una logica omeostatica e utilitaristica, ma al di là del principio del piacere. C’è un’ingiunzione alla realizzazione di sé e alla soddisfazione, saturazione della mancanza che il mercato sollecita e gestisce (intendiamoci, sviluppando anche inedite capacità di creatività nel capitalismo cognitivo) e che banalizza in modo inquietante il governo di sé, l’autonomia. La cosa più importante per me, è contestare questo carattere di non-mediazione, di tutto apparente e tutto in superficie e far parlare il dolore, il disagio: ridare spazio al sintomo (non è un caso che la clinica dei disturbi attuali sia una clinica senza inconscio e senza sintomo): tutto tranne l’anestesia. Solo la mobilità e la complessità fanno emergere che la superficie apparente del capitalismo – che, come dice Wendy Brown, appare naturalizzata, indiscussa – è invece, si sarebbe detto un tempo, ideologica. È una verità con effetti di potere, e una verità contingente. La libertà – sempre con la sua strana dimensione di consegnarci ad una verità che ci occupa – testimonia, con il coraggio della messa a repentaglio della vita stessa, la modificabilità del quadro di verità che regge il potere, e dunque la modificabilità (cioè la politicità) delle cose.

 

Mi sembra evidente che per lei la politica, e dunque la lotta politica, implicano un conflitto intorno ai quadri di verità, e conseguentemente anche intorno alla capacità di determinare la percezione del reale da parte dei soggetti. Ma restando a Wendy Brown – che ha tra l’altro notato come nella situazione attuale sia diventato difficile anche immaginare cosa potrebbe spingere gli umani ad assumersi il compito di contestare con successo i poteri che li dominano –, non crede che questa libertà possa rovesciarsi nel suo contrario, vale a dire nel desiderio imperioso di essere governati, e dunque, alla ricerca di nuovi padroni, in nuove forme di comunità fusionali? Lo dico perché sembra difficilissimo riuscire a trovare una soluzione all’accelerazione dei processi di immigrazione, all’impoverimento dei ceti medi e a un sistema economico che precarizza le esistenze e produce enormi diseguaglianze.

 

In effetti questa è la caratteristica della soggettività, se libertà è uguale a soggettività, nel senso che la soggettività fa attrito con la determinazione sociale e l’immaginario. Vi sono cioè il simbolico e l’immaginario che determinano, e la soggettività che fa attrito. Quindi libertà in questo luogo di attrito. Ovviamente la pulsione sempre maggiore a identificarsi, a entrare completamente nell’iscrizione, in quella che Althusser avrebbe chiamato interpellazione, diventa molto forte, anche perché non è un’interpellazione interdittiva, ma al contrario, si rovescia nel suo opposto. Per questo ritengo che alla sua domanda sia opportuno rispondere con un riferimento alla governamentalità, cercando di capire che tipo di politica sia quella governamentale. Sarebbe un errore affermare che la governamentalità è la semplice eteronomia del politico rispetto all’economico. L’economia che governa oggi è politica, è una forma politica che governa. Quindi, per così dire, ha un suo orientamento, e orienta i comportamenti. Quando parlo di governamentalità biopolitica intendo sottolineare il suo essere politica, e quindi, come è proprio di tutte le politiche, il suo organizzare il mondo negando il gesto dell’organizzarlo. Si tratta di una forma di decisione politica che nega se stessa, che dimentica se stessa. Sebbene un simile atteggiamento sia proprio di tutte le rappresentazioni politiche, la differenza sta nel fatto che questa ha la pretesa di non essere una rappresentazione politica, bensì una forma immediata di organizzazione del mondo acefala, ossia senza alcuna responsabilità politica evidente. E la ragione di tale non evidenza sta nel ritrarsi della responsabilità politica, nella scelta di deresponsabilizzarsi responsabilizzando ciascuno nella propria impossibilità di gestire l’insieme. In realtà, come abbiamo visto benissimo nel corso di questa crisi, la politica c’è, e sceglie e decide di far prendere decisioni ad altri. Questo governo a distanza (come avrebbe ben detto Deleuze, oppure Latour, che riprende un discorso del primo sulla società di controllo) ha la caratteristica precisa di far assumere decisioni ad altri, mentre in realtà la decisione sta in coloro che potrebbero decidere altrimenti e che invece non lo fanno. È proprio la politicizzazione di quella che ho definito naturalizzazione, o tecnicizzazione, o governo della competenza, a metterci di fronte a un mondo, a un tutto bloccato, e a regalare ai singoli un atteggiamento che non può non essere quello dell’abbandono, che ti porta a dire: «ci sono dentro, non posso protestare, cosa posso fare?». Si tratta, in qualche modo, di potenze ingovernabili proprio perché oggettive. Siamo di fronte a un economicismo più oggettivista di quello della Seconda Internazionale, davvero profondo. Il neoliberalismo è riuscito a scardinare completamente la politicizzazione dell’economia, quando invece si tratta sempre di economia politica, anzi, non esiste che economia politica. Ora, cosa si può fare in questo atteggiamento così fortemente consensualistico, in un circolo di assoggettamento soggettivizzato? C’è la possibilità di sottrarsi in una situazione di libertà, di libertà intesa come attrito, come disagio prima e poi come attrito, contraddizione (come direbbe parresiasticamente Foucault)? Praticamente non c’è che da constatare la presenza di gesti, di atti che sono atti di sottrazione, atti an-archici (e non è un caso che l’anarchismo – a mio avviso discutibilissimo – sia oggi una delle correnti più forti nel campo della resistenza). Intendo dire che è proprio quando tutto è consensuale – com’era ad esempio con Alessandro il Macedone – che il gesto cinico, anarchico, parresiastico, viene fuori, perché è l’estrema omogeneità del linguaggio che rende il gesto, l’atto di libertà, un atto infondato, un atto (spostandoci sull’etica) impossibile da dedurre. Naturalmente questa è una situazione di debolezza, tanto è vero che ad esempio Critchley lo vive come messa in discussione laterale. Io, al contrario, sono convinta che bisognerebbe lavorare comunque, a partire certo da questa possibilità, entro le strutture del governo.

 

Dal suo punto di vista la logica politica e sociale sarebbero dominate dal mercato e da un’imperativizzazione dell’immaginario. Crede forse che siamo in presenza di una sorta di maternalismo del capitale che impedirebbe ai soggetti la riflessività politica? E, se è così, quali sarebbero i punti critici, le fragilità di questo dispositivo?

 

Se il capitalismo consumistico satura la mancanza con un corto circuito che non lascia emergere l’interdizione che sollecita il desiderio e dunque la soggettivazione, possiamo parlare di capitalismo maternalistico (lo fa Cavallaro) ed è in verità paradossale se pensiamo alla tradizione interpretativa del capitalismo borghese come legato al meccanismo del godimento differito e della costruzione del capitale stesso. Il fatto è che, come dice Marazzi, il capitalismo è oggi largamente finanziario e dunque somiglia assai più ad un sistema fiduciario e di azzardo che ad un sistema maternalistico. Non è credo un problema di una ridotta riflessività politica, magari perché siamo inebetiti dal consumo e dal mercato. Più radicalmente la fase della governamentalità neoliberale, che demolisce la eteronomia del progetto politico ancora fortemente presente nel welfare, decostruisce la ‘forma del politico’, la necessità di un soggetto che sintetizzi e dia senso all’anarchia del sociale singolarizzato. Ogni forma di delega e di rappresentazione appare destituita di legittimità e, a livello del pensiero filosofico, appare come destinata ad un esito totalitario (vedi il giudizio come discriminatorio). Questa grande battaglia antitotalitaria e antiteologico-politica, antistatalista e antisovrana, ha effetti di liberazione nel ’68, ma anche una versione per così dire perversa, nel senso che delegittima la mediazione politica trascendentale a favore di una autogestione dei vettori di potere immanenti nel sociale stesso. La forma della governance vede il tramonto della sovranità (reductio ad unum, carica di aporie e di volontà di potenza metafisica), ma al suo posto lascia essere tanto i movimenti della moltitudine quanto le dissimmetrie di potere nella partecipazione delle lobbies, o nelle forme di governo infragovernamentale.

 

Come rivista Kainos ci siamo proposti in questo numero di elaborare un’analisi del rapporto tra cultura e ignoranza in Italia. Se dovesse abbandonarsi a considerazioni patologiche – in termini burckhardtiani – di storia universale, come valuterebbe lo stato attuale di quella che insieme a Stato e religione era considerata la terza potenza storica, ossia la cultura? E in second’ordine, e con uno sguardo più contingente, ritiene forse che in Italia il rapporto tra cultura e ignoranza sia stato oggetto di cambiamenti importanti negli ultimi anni? Infine, considerati la riduzione dei finanziamenti e i problemi in cui versa il sistema della formazione in generale, riesce a intravedere in qualche modo un orizzonte nel quale l’Università non sarà più la sede principale della produzione del sapere?

 

Innanzitutto la cultura, che per Burckhardt suonava l’ora della non coincidenza: dunque elemento mobile, trainante. Mai come nella nostra epoca di capitalismo postfordista cognitivo e della comunicazione, la cultura è esattamente la chiave del potere, nella misura in cui è il quadro epistemico e le cose pensabili e dicibili, che appaiono ‘senso comune’ (Gramsci diceva che sul senso comune si fa politica). Addirittura si afferma, in autori come Badiou, Žižek, ma anche a suo modo Laclau, che la politica lavora costruendo – se ci riesce in una situazione di così netto predominio dell’ideologia neoliberale da trent’anni – una nuova egemonia culturale, un nuovo modo di pensare le cose che, solo, può svuotare e trasformare palingeneticamente anche le soggettivazioni che emergono dal capitalismo. Perciò Berlusconi è stato così terribile. Perché aveva i mezzi della cultura pop per formare l’immaginario dominante, il modo con cui la gente si autorappresentava e si ‘idealizzava’. Non so se il termine ignoranza sia adatto. Perché allude al registro del sapere scientifico e il sapere scientifico è certamente cresciuto, ma è expertise della gestione biopolitica delle soggettivazioni. È sottoposto ad una logica problem solving. Non si contrappone solo alla cultura critica, ma alla minorità persistente a cui ci costringe ad affidarci. In esso sta la radice non democratica dei processi di gestione, che hanno appunto una chiave biopolitica-economica problem solving (vedi Monti), non un obiettivo ‘politico’ di crescita dell’esercizio dell’autogoverno. Certamente c’è un progetto di economicizzazione del sapere (sono stata cooptata per la valutazione nell’agenzia dell’Anvur e posso testimoniarlo) e questo ha ovvie conseguenze su tutte le domande di democrazia che in genere sono considerate perdita di tempo. Può darsi però che ci sarà una maggiore fetta di investimenti nelle agenzie (non certo solo statali) di formazione e alta formazione: ma il nuovo ministro è un ingegnere, i soldi li danno se c’è un prodotto vendibile sul mercato. Per quanto riguarda il fatto che l’Università non sarà più la sede principale dell’elaborazione del sapere, se dovessimo usare un lessico lacaniano, direi che il discorso dell’Università, cioè un discorso supposto sapere, non è più nell’Università stessa. Ciò non toglie che resta l’Università stessa il luogo di determinazione del sapere. Inoltre è da tenere presente che l’Università non è stata soltanto il discorso di elaborazione della scienza definita, ma anche il luogo di elaborazione della critica, della riflessione. Pensi ad esempio ad Arendt o a Burckhardt, ma soprattutto ad Arendt, che ad esempio sottrae l’Università addirittura al sistema di potere: la magistratura e l’Università devono restare fuori, proprio perché sono i luoghi dell’elaborazione critica. Al contrario, la svolta cognitivista toglie spazio al discorso problematizzante, al pensiero, per entrare nel registro della scienza, ma non si tratta di una svolta di oggi. Non vorrei sembrare antiscientifica, al contrario, ma vorrei fosse chiaro che la scienza ha una precisa configurazione in questo discorso, perché rappresenta esattamente la sottrazione di spazio alla politica. Quanto più l’elaborazione diventerà certezza, tanto più sarà probabilmente sempre meno universitaria, o almeno si svolgerà sempre meno nell’Università pubblica – dal momento che l’Università pubblica conserva ancora oggi quell’aspetto, seppur ridotto, di pluralismo, di pubblicità intesa nel senso della non immediata utilizzazione, ma elaborazione problemi, salita in generalità dei problemi –, per essere dislocata invece sempre più in istituti di eccellenza privati o pubblici, che saranno finalizzati all’elaborazione di risposte (problem solving), risposte chiare, risposte definitorie. Ovviamente questo fenomeno sottrae sempre più spazio al pensiero, e questo spazio sottratto al pensiero viene occupato da media molto elastici e molto superficiali. Ma in generale non si tratta di un problema di finanziamento quanto piuttosto di spostamento dell’asse di autorevolezza.

 

Dunque questa logica mercantile ed economicista aggraverà ulteriormente la perdita di autorevolezza e di influenza del discorso universitario critico nella società?

 

Io penso innanzitutto che non si tratti di una logica soltanto economicista. Certo, è ampiamente economica perché risolve problemi, ma è la logica di un sapere che definisce, e che quindi si sottrae alla politica. Questo non significa che non ci saranno luoghi di elaborazione, ma solo che bisogna elevare questi luoghi, come diceva Musil, dalla gestione delle redazioni dei giornali femminili. Oggi questo problema viene riafferrato dalla rete, che potrebbe essere un luogo di grande elaborazione del pensiero critico, anche se molto rapido e superficiale. E non è detto che non sia utile, tanto è vero che lo si sta facendo. Io non sono mai stata troppo catastrofista, e poi sono convinta che bisognerebbe ricordare, con Foucault, che il potere non è un potere che sta là, ma in realtà si muove, e quindi circola.

 

Nel suo recente lavoro sulla superbia lei ha mostrato le trasformazioni storiche che hanno investito la percezione e il giudizio di superbia, sostenendo tra l’altro che oggi il carattere superbo si è sostanzialmente ridotto a un esercizio di vanità, a un’enfasi di se stessi sostenuta dall’imperativo sociale all’autoaffermazione, a un narcisismo spinto all’eccesso che coincide con un disconoscimento dell’altro e in definitiva di noi stessi. Crede che la superbia si sia spostata dalla cultura all’ignoranza? Crede cioè che oggi, considerato anche il decisivo disinvestimento soggettivo nel campo culturale, sia l’ignoranza più che la cultura a essere superba, o sarebbe meglio dire arrogante? Per disinvestimento, sia chiaro, intendo il disinteresse da parte di molti, quando non la vera e propria sfida che con toni sprezzanti è da più parti lanciata alla cultura. E più in generale, intendo ancora l’atteggiamento di chi di fronte al destino della nostra comunità storica si ritrae dall’analisi, dalla problematizzazione delle forme di esperienza, come per un’ossessione per l’evidenza, per un desiderio di necessità, per una naturalizzazione e una sorta di eterizzazione del nostro presente. Mi rendo conto, certo, che generalizzare non è molto produttivo, e proprio per questo vorrei chiederle anche se le sembra vi siano all’orizzonte delle nuove forme culturali con potenzialità liberatorie, anche perché sono persuaso che soprattutto in campo culturale sia poco produttivo credere di poter restaurare ordini.

 

Concordo con il suo pessimismo sulla possibilità della restaurazione. La superbia è oggi arroganza, delle persone ignoranti, certo… ma la superbia è una sfida sottile, che, poiché coincide con i nostri processi di soggettivazione, coinvolge anche coloro che perdono nella corsa al successo. C’è una forte tentazione dei migliori di ritrarsi e di disprezzare a loro volta. Che è più che comprensibile, ma non certo spinoziano. In verità è interessante quello che dice a proposito della tentazione a non problematizzare: siamo di nuovo a quella tentazione a mio avviso pericolosissima della ‘evidenza’, della ‘naturalizzazione’, che sottrae le cose alla loro modificabilità. Oggi per fare cultura nel senso critico e problematizzante ci vuole coraggio, il coraggio di complicare, non di semplificare. I mezzi ci sono, i media cioè, che si sottraggano al tradizionale controllo del capitale proprio della tv generalista, verso percorsi che promettono di essere nuovi e interessanti. Ma hanno anch’essi una tentazione alla semplificazione. Bisognerebbe tenere presente che la rivoluzione, se ci sarà, sarà culturale (non vorrei sembrare maoista, ma gramsciana sì).

 

Immagino lei faccia riferimento al lavoro sul pensabile e sul dicibile, a quello che prima ha denominato senso comune. Ma credo che lei faccia anche riferimento alla possibilità di costruire una nuova egemonia a partire dai new media, supposti in grado di superare la cultura televisiva dominante negli ultimi trent’anni. Vorrei allora chiederle a questo punto come ritiene siano cambiati i rapporti di potere, o più specificamente i rapporti tra comunicazione e potere, nella cosiddetta network society, e in quale direzione ritiene vadano le nuove prassi comunicative.

 

La domanda richiederebbe un background sociologico, dei dati. Non so se sono in grado di rispondere. Ciò su cui oggi, ad esempio, si discute molto, soprattutto negli Stati Uniti, è la primavera araba, o in questi giorni le manifestazioni in Russia. C’è di certo una possibilità di sfuggire al controllo, una possibilità inevitabilmente attivata dallo stesso sistema, che non è affatto omogeneo e non è affatto assimilabile in un modo troppo semplice, e questa possibilità passa indubbiamente attraverso i mezzi di comunicazione. Ora, i mezzi di comunicazione hanno sempre un peso economico e costituiscono inoltre un potere in sé, il quarto potere, il potere della comunicazione – che oggi non risiede più nei giornali, ma nei media elettronici –, che ha una sua potenza oggettiva. Però è inutile negare che questo tipo di comunicazione, quindi di formulazione di luoghi di autorità, non solo è molto manipolabile, ma manca di durata, e che dunque la continuità delle cose, e l’immaginazione del nuovo soprattutto, appaiono molto fragili. Si tratta di un problema complesso, perché la pulsione, la spinta a resistere o a trovare altre vie, a mettere in discussione il quadro di verità, incontra sicuramente la facile adesione di moltissime persone, in maniera anche assai più ampia e partecipativa di prima, e quindi compie un’operazione egemonica di costruzione di senso comune, ma resta troppo fragile. Ci sarebbe bisogno di inserire una qualche istituzionalizzazione, di inserire delle forme, altrimenti quando si arriva al punto, quando si va a dare forma, si finisce per scavare nelle forme vecchie senza riuscire a pensare a forme nuove. Questa è un po’ la difficoltà, nonché la responsabilità della grande ondata immanentistica, che ha sottovalutato il fatto che a ogni forma di decostruzione segue la costruzione – cosa che invece Lacan sapeva benissimo, come si può vedere, ad esempio, quando affermava: «Volete un padrone, ebbene l’avrete!». Perché? Perché in realtà nell’abolire il padrone se ne sta cercando uno nuovo. Dopo la decostruzione viene un nuovo giorno, viene l’ordine nuovo, e l’ordine nuovo ha tutti i difetti e i blocchi dell’ordine. Se non è pensato in modo nuovo si cade in forme regressive, non condannabili in sé ma comunque regressive, nel senso che si pesca nel mondo affettivo che si ha quando si avrebbe invece bisogno di formulare proposte nuove e coraggiose, forme di partecipazione e di soggettivazione nuove.

 

In qualche modo si tratta di ciò che sta accadendo attualmente in Egitto, dove continua forte la protesta, ma troviamo da un lato l’esercito, e dall’altro il fronte islamico.

 

Certamente, sono rifluiti nelle forme già organizzate. Ma questo non è accaduto in India, dove una qualche immaginazione di nuove soggettivazioni, di forme politiche nuove, c’è stata. Vale di sicuro la pena guardare in questa direzione, ma a mio giudizio si tratta di esempi un po’ troppo enfatizzati, per cui sarebbe meglio tentare di formulare cose nuove, perché in fondo questi sono luoghi troppo lontani dal nostro modo di pensare. Andrebbero pensate nuove forme, e invece sembra che la forma sia di per sé soltanto un blocco. Ora, non so cosa accadrà in Russia, ma se non ne escono forme di democrazia partecipativa intelligenti, beh, allora non si arriva a nulla.

 

In un suo recente scritto sulla realtà politica attuale, con particolare riferimento a quella italiana (Quando la rappresentazione politica rifiuta la politica, in “Il Mulino”, 3/2010), lei ha mostrato come il rapporto tra capo e masse si sia praticamente rovesciato, dal momento – e qui semplifico – che non è più la massa a guardare al capo nell’ottica di un progetto, ma è il capo stesso a identificarsi con «le immagini standardizzate del pubblico che emergono dai sondaggi, con le preferenze, con le opinioni che […] rispecchiano, nella mediazione statistica, identificazioni senza ombre, senza ambivalenze né fantasmi». E ha sostenuto, ancora, che la mancanza di prospettive politiche del populismo attuale costituisce in sé e di per sé un progetto politico. Vorrebbe spiegarci meglio cosa intende con questo? Ritiene sia un discorso ancora valido con la ‘caduta’ di Berlusconi?

 

A mio avviso Berlusconi è stato esemplare di una relazione populista che non ‘costituisce’ il soggetto politico ma si limita ad unificare e tradurre le istanze segrete immanenti nel sociale. Non un populismo guida ma un populismo specchio. Che infatti, al diffondersi della crisi economica di inaudita violenza, non ha saputo fare da specchio all’insorgente paura, al dolore della perdita di benessere e di sicurezza. Lo specchio ha mostrato che rifletteva solo una immaginaria identità. Paradossalmente era un populismo antipolitico, antiprogettuale, mentre come ci dice Laclau, costruire egemonicamente il popolo attraverso l’equivalenza delle domande sociali diverse e antagoniste è la logica della politica democratica postfondazionista. Certo Monti non sembra di questa marca. Ma non credo che la rappresentazione politica come riverbero nello specchio, come dipendente dal come si è, o come si crede di essere, da come si emerge dalla simulazione dei sondaggi, sia una modalità conclusa. Potrebbe essere che sopravviva forte il populismo di nuovo progettuale per quanto regressivo e difensivo della Lega. Staremo a vedere. Ora è il momento del governo che fa politica ma non lo dice.

 

Eppure Monti, attraverso Napolitano, novello padre edipico, è stato inizialmente in grado di canalizzare le speranze di una grandissima maggioranza della popolazione attraverso l’investimento soggettivo nel sapere, nella competenza. Come ritiene si debba qualificare la sua politica?

 

Innanzitutto mi sembra di poter dire che nel governo delle soggettivazioni non c’è uno stacco netto tra Berlusconi e Monti, soprattutto se volgiamo lo sguardo verso l’effetto politico. Si tratta ovviamente di due persone differenti, ma che hanno un punto di convergenza forte. Il populismo faccia a faccia, specchiato, proprio di Berlusconi, era in realtà contemporaneo alla governamentalità bioeconomica, cioè alla politica dell’economia, la quale, per così dire, si svolgeva in maniera del tutto opaca. La visibilità era posta su altro, era lo specchio, nel senso più semplice e banale del termine. Questo populismo costituisce l’altra faccia di un governo vero e proprio, di un governo politico, sempre più economico e sempre meno partecipativo in senso democratico, sebbene sempre più partecipativo in senso lobbistico. Oggi, con Monti, il modello di governo e di soggettivazione non solo è lo stesso, ma è anzi portato avanti con molto maggior rigore. È chiaro che l’aspetto di democrazia partecipativa lobbistica, che è sicuramente un aspetto privatistico del fenomeno, viene in parte messo in mora a favore di una ristabilizzazione della forma mercato finanziario più generale, come si sta facendo in Europa. Ciò non toglie però che le scelte sono praticamente le stesse, e basti pensare alla scelta di pesare su un certo tipo di ceto piuttosto che su un altro, ciò che implica un punto di vista generale identico. D’altra parte Berlusconi può restare tranquillo, non ha nessun problema, anzi, per ora non gli sono state toccate nemmeno le frequenze televisive. Questo non significa che non c’è scelta politica, ma che c’è scelta politica di continuare. Naturalmente il modello è molto differente, perché Monti si assume fino in fondo – ciò che del resto gli costa relativamente poco, non essendo un politico di professione – la responsabilità paterna, in questo tipicamente edipica, di essere lui a dire la verità, e così facendo permette una reazione, e da qui potrebbe partire il calcolo politico della sinistra, se ci fosse una sinistra che pensa. Quando c’è l’Edipo, infatti, è molto più semplice fare la rivoluzione, nel senso di opporre un’alternativa. Certo, ora non sembra vi siano molti spazi, ma c’è la possibilità di ripensarsi, poiché Monti si pone come autorità, e diversamente da Berlusconi si assume la responsabilità. Berlusconi non si è mai assunto la responsabilità di nulla, e in particolare la responsabilità delle cose che andavano male, per cui in un certo qual modo era sempre colpa degli altri; lui era il successo, e andava bene così fin quando c’era il successo, ma la responsabilità era della Merkel, di Sarkozy, del mondo della finanza, dei cattivi in giro per il mondo, della globalizzazione e così via. Naturalmente, senza nessun tipo di opposizione, tutto questo ha angosciato la gente, che da un lato si è vista riflessa in un’immagine positiva che comunque si salvava, mentre dall’altro andava alla deriva insieme al blocco delle decisioni economico-politiche. Con Monti invece noi abbiamo un profilo molto più moderno dello Stato, intendo più legato al moderno e quindi alla responsabilità, alla accountability: lui fa la sua scelta, che è politica come tutte le scelte, e questa scelta è visibile, come è d’altronde visibile la responsabilizzazione. Lui gioca molto diversamente sul piano della comunicazione: è vero che dice di continuo che non c’è altra scelta, ma se ne assume la responsabilità, tanto è vero che non usa neanche le forme apparenti di democrazia partecipativa come i tavoli di concertazione, com’era tipico della Terza via. Qui abbiamo questa specie di assunzione di responsabilità per cui non c’è tempo neanche di sentire i sindacati, e abbiamo un atto decisionale brevissimo che si assume la responsabilità di portare a termine l’opera del neoliberalismo, e questo, ribadisco, permette di configurare un fronte. È chiaro che non saprei dire in che misura Bersani riuscirà a salvarsi, ma credo debba avere il coraggio di opporsi fino in fondo.

 

Per restare sul piano prettamente politico, e concentrandoci sullo stallo in cui sembra versare la nostra cultura politica, è stato nostro interesse, nell’ultimo numero di Kainos, chiederci in modo disincantato se e come gran parte del ceto intellettuale del nostro Paese, nella continua equiparazione di Berlusconi al fascismo, abbia finito in qualche modo col mancarne le coordinate storiche. Mi viene spesso in mente al riguardo quanto affermato da Michel Foucault in Nascita della biopolitica a proposito del fascismo come significante fluttuante incapace di rendere conto di un’analisi storica precisa. Personalmente ho sempre creduto che la Sinistra italiana non sia stata all’altezza del berlusconismo nella misura in cui non solo non si è rivelata in grado di usare strumenti politici per contrastarlo, ma ha sempre ritenuto Berlusconi un outsider della politica senza riuscire a comprendere come così facendo non ottenesse che l’effetto di inasprire l’odio e il risentimento di quella percentuale di cittadini che con lui si identificava verso la cultura e conseguentemente verso la sinistra stessa, che della cultura è stata in qualche modo monopolista nella seconda metà del Novecento. Ho poi ritrovato considerazioni simili, sebbene ovviamente molto più fondate, in quel testo assolutamente fondamentale per comprendere lo stato delle cose nel nostro Paese che è A destra tutta di Biagio de Giovanni, che contiene appunto una nettissima condanna dell’incapacità progettuale della sinistra italiana. A fronte di questo, ritiene anche lei di poter attribuire almeno in parte il successo di Berlusconi alla sinistra, considerata anche la sua incapacità di proporre un progetto politico attraente e dunque di incanalare disagi e desideri – ciò che mi pare tra l’altro confermato dal suo iniziale grande entusiasmo nei confronti dell’attuale governo Monti?

 

Bisogna innanzitutto tenere presente un contesto molto ampio e una sconfitta che è soprattutto culturale. Non è vero infatti che la sinistra si identifichi con la cultura. A partire da un trentennio, l’egemonia culturale era ed è ancora di destra. Non solo perché Berlusconi o Murdoch dominano nelle tv, ma perché la svolta antipolitica verso l’autogestione del sociale privatistico è effetto della capacità del capitalismo di assorbire e metabolizzare la grande critica antitotalitaria e decostruzionista che ha lavorato a sostenere, non esplicitamente, ma di fatto, la svolta neoliberale e il suo immaginario. Non piccole forze, ma grandi vettori di destra. Non solo in Italia la sinistra è stata in difficoltà. Il fallimento della terza via ne è stata un indizio importante. Ma si tratta di un argomento molto delicato, molto complesso, tanto più se lei, come immagino, fa riferimento anche all’alta cultura, che fino agli anni Settanta e Ottanta è stata determinata da un modello senz’altro lontano dal cambiamento che si andava facendo. Quando poi questo cambiamento si è andato determinando – e penso a un cambiamento profondo avvenuto all’interno della sinistra colta, che si andava orientando verso la Francia –, abbiamo avuto uno smarrimento della sinistra ufficiale, della sinistra di partito, una frattura molto profonda che il PC non ha saputo accettare e che è anche stata, bisogna dirlo, abbastanza crudele e drammatica, dal momento che veniva rivolta un’ostilità terribile verso una formazione che pure aveva alle sue spalle una lunga tradizione di lotta emancipativa, seppure con i suoi limiti; non dobbiamo dimenticare infatti che uno degli obiettivi più puri del ’68 e della cultura sessantottina è stato il PC. A partire da allora il percorso degli intellettuali italiani, ma anche stranieri, è andato molto avanti, e per quanto legittimo, si è rivelato problematico, perché ha avuto Auschwitz come unico punto di riferimento nel Novecento, stigmatizzando qualunque forma di progetto politico come protototalitaria, e qualunque forma di rappresentazione di soggetto politico come volontà di potenza e criptototalitarismo; da qui un blocco e la retrocessione verso le forme dell’impersonale e dell’impolitico (il che, se pure è giusto dal punto di vista teorico, resta assolutamente problematico da quello della pratica politica). Inoltre la sinistra, quella del senso comune, quella che doveva risolvere i problemi, è rimasta sola, ha perso la cultura, e quindi è rifluita nella Terza via blairiana, adottando praticamente il modello culturale vincente, il neoliberismo. E non si tratta di un modello ridicolizzabile, ma di un grande modello culturale, di una svolta culturale importantissima che ha cambiato la razionalità politica della realtà. Questo modello aveva tra l’altro, per così dire, uno strano aggancio con il ’68, in quanto alcune delle istanze più importanti e più vive, sentite e diffuse del ’68, come la lotta contro l’autorità, la rappresentanza, la delega, sono state da esso riprese, e questo ha creato un blocco. A questo punto infatti la sinistra si trova naturalmente sprovvista di armi e di immaginazione alternativa. Io sono convinta poi che del berlusconismo sia responsabile anche una specifica sinistra, una parte della sinistra che l’ha proprio tollerato, restandone poi invischiata. Un cambiamento richiederebbe dunque una grande rivoluzione, un’ideologia, che per il momento però non si vede.

 

Mi sembra d’obbligo chiederle a questo punto cosa pensa del refrain, che circola ormai da un po’, del berlusconismo come concretizzazione del ’68. Mediaset, si dice, non sarebbe altro che il trionfo dell’immaginazione al potere. Non si rischia così di rendere opache e culturalmente ambigue delle istanze sacrosante? Non sarebbe meglio dire, al limite, che Berlusconi rappresenta invece la concretizzazione perversa di alcune idee sessantottine?

 

Innanzitutto io ho partecipato al ’68, e quindi tengo a difenderne un nodo fondamentale, quello riguardante la democrazia diretta, nodo che si può capire bene se si legge un bellissimo libro di Jean-Luc Nancy intitolato Verità della democrazia – che è poi una risposta all’atteggiamento di Sarkozy quando sostiene che tutte le colpe vengono dal ’68. Allora era fondamentale innanzitutto riattivare l’istanza della vera democrazia rispetto a quella ingessata, delegata, rappresentativa, etc. Si cercava di prendersi direttamente la vita, e il desiderio diventava il luogo e il motore dell’emancipazione, al posto del lavoro e della produttività. Ma ciò ha prodotto un’ambiguità, una perversione che sta precisamente nel fatto che il desiderio è diventato l’oggetto della manipolazione del marketing, il luogo del consumo: dire desiderio significa dire una mancanza che posso riempire con una cosa. Noi dobbiamo essere in grado di cogliere un fatto importantissimo per la politica, cioè la banalizzazione delle istanze, e la banalizzazione dell’istanza desiderante è stata l’ingiunzione a liberarsi, a fare ciò che si vuole, etc. La liberazione sessuale si è trasformata in un imperativo al godimento, che attualmente è un’ideologia egemonica. Dobbiamo tenere presente la rivoluzione culturale, ma anche la sua volgarizzazione. È chiaro che questa perversione, questa rimodulazione perversa, è dovuta all’assenza di forme, perché la forma offerta dal ’68 era purtroppo quella leninista di tipo duramente rivoluzionario, di per sé perdente. Inoltre c’era una certa tendenza alla soddisfazione immediata del desiderio (esempio tipico, le droghe), un tentativo di fare subito il viaggio, senza passare per il dolore, per la fatica del negativo (quando forse un po’ di Hegel non ci farebbe male). E se non si hanno forme per raggiungere il livello alto – Balibar direbbe l’égaliberté –, i luoghi di decisione dei quadri di verità, si è perdenti. Ovviamente mi dispiacerebbe se sembrasse che io intendo dire che Berlusconi e il ’68 sono uguali. Berlusconi è tutt’altra cosa rispetto al ’68, ma è altrettanto chiaro anche che il talk show, il raccontarsi, che è l’anima del berlusconismo televisivo, ha qualcosa in comune con le manifestazioni delle donne, con il femminismo, che all’inizio era appunto raccontarsi, dire il proprio. Ad ogni modo, resta da dire che il ’68 era anticapitalista al massimo, per cui l’istanza anticapitalistica, che era l’istanza operativa, non va dimenticata.

 

Per ciò che attiene sempre alla progettualità politica, dopo aver mostrato il rilievo assunto dalla biopolitica e dalla cultura neoliberale nelle nostre vite, lei ha sostenuto che è lo stesso stato delle cose a richiedere «identità politiche riconoscibili e strategiche, che permettano il posizionamento sulla scena del potere». A suo giudizio, dunque, è necessario un ripensamento delle categorie dell’agire politico e della soggettività politica, essendo l’uno e l’altro attratti da ciò che ha definito ‘neonaturalismo’, che sembra far venir meno tutta la dimensione artificiale del politico. Ebbene, è proprio sul rapporto tra analisi, azione politica e intellettuali che vorrei soffermarmi, nella convinzione che una filosofia militante non richieda meno rigore di una filosofia puramente contemplativa.E più concretamente, considerato che negli ultimi vent’anni l’Italia ha conosciuto un radicale rovesciamento del sistema egemonico della DC e del PC, crede forse realistico, alla luce delle difficoltà in cui versano attualmente PDL e Lega, pensare che possa instaurarsi un nuovo processo egemonico della sinistra? E se sì, quale le sembra possa e debba essere il ruolo degli intellettuali, e dei lavori intellettuali in genere? Ritiene ad esempio ancora valida la lezione foucaultiana sull’intellettuale specifico?

 

Muovo dalla fine: se ci sarà mai un ruolo egemonico della sinistra sarà perché avrà saputo costruire attorno ai suoi intellettuali una nuova egemonia culturale, diversa e riconoscibile rispetto alla destra, ma anche capace di non arretrare rispetto alla miriade di fantasmi che le hanno impedito fino ad ora di avere forza. Penso che le categorie dell’agire politico si stiano modificando molto rapidamente soprattutto se non si guarda all’opaca scena italiana ma alla scena internazionale e postcoloniale, dove forme nuove di soggettivazione politica vengono fuori, senza almeno per ora escludere quelle istituzionali e rappresentative della tradizione moderna democratica. Ciascuno dovrebbe fare la propria parte e cambiare le cose botton up dove si trova ad agire: senza farci troppo male tra noi, perché questa è una cattiva abitudine della sinistra dovuta anche alla estrema raffinatezza, sempre quasi impolitica, di alcuni dei suoi più prestigiosi intellettuali. La democrazia partecipativa che prende spazio nelle forme di governance, ha diversi volti possibili, alcuni assolutamente interni al sistema di potere lobbistico, ma altri che nel processo di soggettivazione costruiscono identità politiche e pubbliche nuove e interessanti. Il diritto oggi può fare molto: i giuristi di sinistra dovrebbero offrire i loro strumenti per pratiche di cittadinanza e di soggettivazione (la class action per esempio). Ma il regime di verità deve rinnovarsi per avere effetti di potere.

 

Personalmente vado sempre più accorgendomi della necessità di afferrare l’orizzonte complesso di razionalità in cui si costruiscono i nostri rapporti, nonché della necessità di disporre di strumenti adeguati a comprendere i nostri ordinamenti, governati come sono da logiche contraddittorie ed eterogenee. Nella nostra realtà si sostengono e si esaltano infatti a tutto campo forme di libertà individuale, sociale e politica nel mentre si praticano e si invocano svariate forme di oggettivazione del soggetto – dalle declinazioni peritali della personalità degli individui (in relazione non solo a patologie invalidanti, ma anche ai più semplici disturbi della personalità) nel campo processuale e sociale, al più ampio orizzonte decisionale appannaggio di comitati tecnici, fino alla legiferazione dell’economico nella sfera del politico. E allo stesso tempo, ancora, mi sembra che l’orizzonte politico sia oggi quanto mai pervaso dal piano affettivo. Nonostante la contraddittorietà delle categorie che presiedono alla costituzione delle nostre forme di esperienza, l’impressione che restituiamo è dunque quella di viverle come se fossero adornate di naturalità, di necessità, così che risulti assai difficile arrivare a capire come staccarsi dalle relazioni di cui si è il prodotto. Lei crede che questi fenomeni così contraddittori possano essere inclusi in una specifica forma di governamentalità? E ritiene forse che in un siffatto stato di cose la promozione di democrazia partecipativa e deliberativa sia in grado di fare i conti con essi?

 

Questa domanda mi interessa molto e dalle risposte che ho dato prima si dovrebbe vedere. Io sono convinta che il diritto stia subendo una trasformazione epocale che lo slega dalle vecchie forme sovraneiste per diventare strumento di negoziazione. La governance, che è la forma di governamentalità neoliberale, dà spazio a forme di partecipazione molto differenziata che sta a noi, o meglio a voi giovani, cercare di identificare. La prima cosa è che non appartengono più o al privato o al pubblico, ma ad una zona porosa intermedia. In questa zona anche le pratiche relative al corpo sono sfuggenti e oscillano, come dice Rose, tra l’eteronomia delle classificazioni oggettivanti, fino alla creatività di piani di vita inediti. E questo, tutto dentro alla forma di autogoverno all’insegna della logica economica. Della quale logica economica forse andrebbe decodificato e de-fantasmizzato, il carico emotivo che vi viene traslato, i meccanismi psicologici che la sorreggono. Un lavoro complicato. Le forme di democrazia partecipativa sono bifronti e ambivalenti: possono avere una piega opposta a seconda della logica privatistica o democratica che perseguono. Certamente le pratiche deliberative e in particolare il movimento di ‘risalita in generalità’ delle argomentazioni, come la visibilità e pubblicità delle scelte e la definizione di beni comuni, trasformano l’opacità della negoziazione spesso lobbistica in processi di soggettivazione anche politica. Ma mi permetto di dire che anche se si rimane nell’alveo biopolitico e governamentale, il processo produttivo dei poteri, la messa in forma delle soggettività definisce un empowerment che non è senza effetti politici al di là delle conseguenze volute da chi lo mette in atto.

 

Nella sua riflessione lei fa spesso ricorso alla psicoanalisi come strumento di comprensione dei fenomeni politici. Sarebbe così gentile da indicarci quello che a suo giudizio è lo spettro, il fantasma che ‘infesta’ i nostri ordinamenti giuridico-politici, nonché i concetti e le categorie psicopolitiche che meglio ci consentirebbero invece di comprenderlo?

 

Ci provo. La psicoanalisi innanzitutto ci apre la dimensione del legame sociale come legame libidico, cioè un legame che fornisce un supplemento, una plusvalenza di godimento. Godimento che non sempre è trasparente e legittimato dai nostri sistemi morali. Diciamo che è osceno, fuori scena e spesso non riconosciuto, macchiato dalla pulsione di morte. Ora: sappiamo che la Legge, il discorso del Padrone, per dirla con Lacan, che ci struttura e del quale non potremmo fare a meno, è accompagnato da un supplemento osceno di godimento: occorrerebbe tenerne conto se si valutano troppo frettolosamente fenomeni come quelli della Lega o della passione per Berlusconi da parte da persone che non avrebbero ‘interesse’ a votare per lui. Il fantasma poi è stato introdotto nella scena del capitalismo proprio da Marx, che se ne è servito per rendere complessa la scena del lavoro-merce. Il fantasma è qualcosa che viene escluso dalla visibilità (ma vorrei ricordarvi che la politica è visibilità) ma è fondante rispetto alla scena stessa, è forcluso cioè è una cosa che sta dentro ma buca, fa breccia, crepa, nella scena politica. Ogni rappresentazione politica, definendo e posizionando le parti visibili, non conta, o forclude qualcosa o qualcuno che però è esattamente il pilastro tolto il quale la costruzione cade. Questo movimento del fantasma, l’impegno a attraversarlo – non tanto a farlo sparire per sempre – è il movimento che rende modificabile il quadro. L’ontologia psicoanalitica per questo e per altre ragioni può essere utile per rilanciare la politica nell’epoca della postpolitica governamentale.

 

Intende dire che una politica fondata sulla psicoanalisi ci permetterebbe di attraversare il fantasma e di rilanciare così la politica nel senso di nuove soggettivazioni collettive?

 

Secondo me il lavoro di un’egemonia, di una nuova egemonia, di una controegemonia che abbiamo evocato come necessaria, consiste in una scelta (e scegliere è tipico dell’egemonia, questo ci dicono Marx oppure Laclau, o Mouffe, o Spivak). Una controegemonia cerca all’interno delle domande sociali una domanda particolare capace di svolgere l’operazione di agganciare il significante vuoto, domanda che può consistere nella giustizia sociale, nella libertà, nell’égaliberté oppure nel popolo, etc. Su quale elemento si opera questo aggancio? Se utilizziamo l’ontologia lacaniana, che è un’ontologia assente perché fatta di relazioni, abbiamo sempre il luogo del soggetto nel luogo del fantasma, cioè nel luogo che non si vede, che non si dice, che non può essere detto, e che non può essere detto perché la soggettivazione avviene attraverso il duplice registro del simbolico e dell’immaginario, sebbene non l’esaurisca (e questo è il punto fondamentale che differenzia Lacan da Althusser, ad esempio). Questo elemento che non viene detto è un elemento casuale? Se restiamo a Lacan è pulsione di morte, ma se invece cerchiamo aiuto in Derrida ci rendiamo conto che è lo spettro, vale a dire ciò che regge la costruzione essendone il mediatore evanescente, essendone l’elemento forcluso. Pensiamo ad esempio al lavoro per come viene descritto da Marx. In realtà il lavoro sfruttato è il mediatore evanescente, perché nella descrizione tutto combacia, tutti i pezzi vanno al loro posto, ma in realtà il ruolo fondante del lavoro viene meno. Oppure pensiamo all’immigrato, che arriva in Italia e non viene mai regolarizzato, nel senso che la sua regolarizzazione viene continuamente rimandata pur essendo nell’insieme dell’economia non solo importante, ma anche il punto che, se veramente affrontato, potrebbe cambiare le cose. Insomma, c’è un punto che sembra parziale, secondario, come può essere stato per un certo periodo il ruolo delle donne, lo stare delle donne nel sistema del welfare senza starci, il ruolo cioè di queste donne che hanno in mano il sistema di sicurezza sociale: ecco, se si affronta veramente quel problema, che magari sembra una richiesta impossibile, se lo si affrontasse veramente, si farebbero saltare le cose. Costruire una battaglia politica egemonizzando esattamente quel punto della forclusione che è concreto, ma che al tempo stesso ha anche la capacità di cogliere in sé l’universale perché mette in gioco l’intero quadro: questa è la battaglia politica, che si fa non a caso, cercando qualcosa che piaccia a tutti, quanto piuttosto trovando quel punto di cui stiamo parlando, ciò che significa guardare in faccia i disagi, i sintomi, che sono oggi così tanto pochi. La nuova psicoanalisi contemporanea dimostra che i sintomi nel vecchio senso del termine sono pochissimi, perché la gente sta male e a disagio, e tende a fuggire dal sintomo e a nasconderlo, prendendo droghe ad esempio. Se invece cogliamo il luogo del sintomo, cioè del disagio, allora forse lì troveremo il particolare una volta agganciato il quale potremo costruire una controegemonia. Come vede non smetto di sognare.

 

Mi avvalgo ora personalmente di un lessico di matrice psicoanalitica per sottolineare come a mio giudizio uno degli affetti politici prevalenti del nostro tempo possa riconoscersi nell’angoscia. Ebbene, vorrei chiederle se alla luce dello stato attuale della cultura, della gravissima crisi economica che stiamo attraversando, delle scarse prospettive di ripresa che si intravedono all’orizzonte, e infine dell’incapacità di molti non solo di comprendere le relazioni di cui si è il prodotto, ma anche di modificare gli equilibri di potere, le sembra verosimile immaginare di giungere nel breve o nel lungo periodo a forme radicali di regressione soggettiva e politica.

 

Effettivamente l’angoscia come senso di indeterminatezza, di paura di qualcosa senza avere le coordinate per capire, è il sentimento prevalente oggi. In realtà il sistema economico dal quale le nostre vite semplicemente dipendono completamente, è assolutamente oscuro, acefalo e vive di una interdipendenza per la quale ciascuno di noi determina conseguenze senza avere la nozione di essere determinante e in che senso. Ed è un sistema che vede la fiducia, il credito, la sua volatilità come l’input di ogni disquilibrio e riequilibrio. Non c’è, come nella politica volontaristica e sovrana, un centro di imputabilità chiara. Dunque siamo in una zona di oscurità che i tecnici non rischiarano per niente. Che l’angoscia sia un vettore emozionale difficile da sopportare e che dunque può esigere, per uscirne, soluzioni di eteronomia totale, è vero. L’unico vantaggio rispetto alle cupe esperienze del passato nasce dalla interdipendenza globale e dalla presenza di forze non facilmente irregimentabili in una alienazione sacrificale, fragili e volatili piuttosto.

 

Vorrei porle un’ultima domanda, ringraziandola con questo sinceramente per aver accettato di dialogare con Kainos. Dunque, lei ha curato per i tipi di Laterza i Dialoghi sulla sinistra di Butler, Laclau e Žižek, tutti autori che in modi diversi cercano di costruire una teoria politica a partire dalla psicoanalisi. A quale delle posizioni espresse sente di essere più vicina?

 

L. B.: Per me non è facile rispondere. Vorrei dire innanzitutto che questi autori non partono dalla psicoanalisi, quanto piuttosto dalla necessità di dire no alla governamentalità imperante, al predominio del neoliberalismo, un predominio totale. Guardi, tutti e tre hanno dei punti deboli, anche gravi, ma ognuno di loro avanza un elemento interessante a cui non vorrei rinunciare. Se dovessi dire delle loro differenze, direi che se dal punto di vista prescrittivo forse Laclau è più concreto, dal punto di vista dell’analisi della rivoluzione culturale necessaria, e quindi dell’ideologia, è ovviamente Žižek quello che ha più rilievo, mentre dal punto di vista del diritto e delle forme infragovernamentali è Butler, secondo me, a essere più utile. Ad ogni modo, tutti e tre offrono strumenti importanti. La soluzione žižekiana è di certo molto provocatoria, ma coglie e cerca di insistere su un punto fondamentale, l’ideologia, e direi, anche se lui non la chiama così, la rivoluzione culturale, o per chiunque abbia familiarità con Foucault, il discorso. Su questo piano si pone certo anche Laclau, sebbene sganciando, in modo un po’ nichilistico, la logica politica dal concetto di verità, cosa che in realtà è problematica, perché se ci si sgancia completamente dal concetto di verità si va a finire in mano a qualunque tipo di formulazione politica, e non si vede perché ci si debba opporre a un’altra. Questo nodo, o meglio, questo deficit etico della teoria di Laclau è un po’ pesante, soprattutto per chi abbia un progetto e voglia ripensare il discorso politico. In generale la modalità dell’egemonia è stata determinante per tutti gli studi postcoloniali, e quindi da questo punto di vista è di certo un discorso ottimo, ma manca il momento etico, il momento della verità – del fatto, cioè, che si deve credere in qualcosa per potere arrivare a proporre del nuovo –, momento che invece Žižek o Badiou ripresentano continuamente. Con ciò non intendo eliminare la problematicità e la delicatezza di questo momento, perché la verità si presenta per tutti i decostruzionisti come uguale al totalitarismo – e infatti si trovano delle strane uscite, molto rischiose, anche aperte al totalitarismo: Žižek, come Badiou del resto, sono maoisti. Ma il problema è quello, l’aggancio alla verità, ed è questa la ragione principale per cui ho lavorato sul tema dell’eroismo, perché l’aggancio dell’atto di ribellione a una verità designata con la propria vita è sicuramente un elemento etico, ma un elemento etico che si sottrae alla deducibilità ontologica. Butler, essendo una donna, offre una concretezza maggiore nella continua ritrascrizione della verità, ed è naturalmente molto più vicina al decostruzionismo, come a Foucault. Insomma, mi sentirei a disagio a dover scegliere tra i tre.