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Claude Romano, Il possibile e l’evento

 

Claude Romano

Il possibile e l’evento.
Introduzione all’ermeneutica evenemenziale

 

a cura di C. Canullo, Mimesis, Milano 2010

Euro 12 - ISBN - 9788884839633

 

 

 

È possibile un’ermeneutica evenemenziale che riconosca il carattere fondativo che l’evento ha per il Dasein e sveli come la sua esistenza in termini di poter essere non si possa definire a partire dalla libertà ma risulti piuttosto esposta all’azione possibilizzante dell’evento che sfugge a qualsiasi previsione e progetto? La filosofia occidentale, che dal suo atto di nascita si propone come pensiero delle essenze, può integrare nella propria riflessione questo concetto che sfugge ad ogni definizione in termini sostanzialistici, in quanto puro “aver luogo”? Ripensare in questi termini un’ermeneutica evenemenziale è il progetto che dispiega Romano nel suo ultimo libro, tessendo un dialogo che ha come interlocutori privilegiati Husserl e Heidegger, in un tentativo di radicalizzare la riflessione sul carattere evenemenziale dell’essere dell’Esserci che a partire da una nuova centralità attribuita all’evento della nascita lo porta a rivedere sia la riduzione dell’evento a oggetto contenuta nel progetto di spiegazione noetico-noematica della fenomenologia sia a sottrarre l’evento stesso alla latente affinità col fatto che lo consegna ancora nell’analitica esistenziale ad un’ontologia della Vorhandenheit.

1. La filosofia, da Platone in poi, sembra orientata ad espellere la dimensione evenemenziale dalla propria riflessione sull’umano, misconoscendo ciò che i poeti tragici avevano ben compreso, ovvero la forza del “caso necessario” alla cui legge l’uomo è incondizionatamente esposto come misura dei propri limiti nel confronto con l’inumano che lo supera. Soltanto Aristotele tra gli antichi ha distinto tra automaton, il caso che prescinde dalla percezione di qualcuno, proprio della physis e tyche, che si riferisce unicamente ad un ente che si ponga dei fini e che pertanto può vederli rovesciati, e che come tale è attraversato da un’incertezza da cui nemmeno il virtuoso è al riparo e alla quale si può opporre come unica sapienza la phronesis, che è appunto comprensione attraverso le circostanze. Aristotele è così il primo (e per molto tempo l’unico) filosofo ad aver aperto la prospettiva di un’antropologia della finitezza. Occorre infatti attendere nel Novecento la fenomenologia husserliana e l’analitica esistenziale heideggeriana per veder assegnato all’evento dignità filosofica, ma questo non basta, poiché entrambe le prospettive finiscono anch’esse per travisarne il valore ontologico, la prima riducendolo ad oggetto intratemporale costituito dalla soggettività trascendentale e la seconda relegandolo in definitiva al rango di fatto esperibile, sperimentabile. L’idealismo husserliano infatti, non abbandonando mai la priorità del rapporto noetico-noematico nella costituzione del mondo, mantiene il senso del mondo e dei fenomeni prigioniero della Sinngebung soggettiva e fa dell’evento stesso un oggetto di costituzione, perdendo così la possibilità di pensarne l’eccedenza rispetto a qualsiasi anticipazione di senso. Tuttavia anche Heidegger, che in nome della centralità che il concetto di evento assume nella sua filosofia saremmo portati a considerare finalmente un punto di approdo in questa ricerca della comprensione della fenomenicità dell’evento, ci abbandona in realtà a metà strada. Anzi, paradossalmente, Romano individua proprio nel momento in cui l’evento assurge a concetto-guida del discorso heideggeriano, l’inizio di un progressivo allontanamento dalla comprensione della sua radicalità. Già in Essere e Tempo manca una tematizzazione definitiva dell’evento, come si evidenzia ad esempio nelle pagine dell’opera dedicate all’analisi della morte, che in quanto intesa come possibilità della pura impossibilità del Dasein è dichiarata costitutivamente non effettiva, sempre e solo una possibilità e mai una realtà. Heidegger dà così luogo al paradosso per cui il Dasein muore solo finché la morte non è effettiva, poiché non appena essa diventa effettiva il Dasein perde questa possibilità insieme al suo essere. Questa trattazione dell’evento della morte investe direttamente lo statuto ontologico dell’evento stesso che viene sottratto all’esistenza e consegnato ad un’ontologia della Vorhandenheit, nella quale l’evento appartiene ad un modo d’essere radicalmente diverso da quello del Dasein e reciprocamente l’esistenza non ha nulla a che fare con l’evento. Anche quando Heidegger a partire dai Beiträge zur Philosophie introduce in posizione chiave il concetto di Ereignis non si riavvicina alla questione dell’evento. L’Ereignis infatti non può mai essere pensato al plurale, ma è proprio la pluralità degli eventi possibili nei quali si gioca l’esistenza a diventare fondamentale in una fenomenologia dell’evento che intenda articolarsi come un’antropologia della finitezza.

2. Anche alla luce delle analisi del tempo svolte nella storia della filosofia occidentale si evidenzia un’intrinseca incapacità per la maggior parte dei filosofi di render conto della temporalità dell’evento che non è mai totalmente contemporaneo con colui a cui accade. Il paradosso più evidente è ancora una volta secondo Romano quello in cui si risolve la riflessione husserliana sulla costituzione del tempo: le parole che Husserl usa per definire l’attività della coscienza costituente il tempo, protensione, ritenzione, percezione assoluta, fanno infatti riferimento ad una collocazione nel tempo della coscienza stessa. Essa quindi pare ricadere in un tempo oggettivo che deve precedere il tempo soggettivo da essa costituito, generando un paradosso oltre il quale Husserl non sa andare, a meno di impostare un regressum ad infinitum in cui la dimensione temporalizzante che rende possibile la costituzione temporale sia a sua volta prodotto di una costituzione soggettiva, soluzione ugualmente incapace di risolvere l’evidente contraddizione. Del resto il caso husserliano è emblematico di una incapacità costituiva dei filosofi occidentali di pensare il tempo dell’esistenza che non si risolve nemmeno nell’opposizione heideggeriana tra temporalità autentica e inautentica; quest’ultima rimanda infatti ad una differenza tra una temporalità originaria che appartiene al Dasein e una temporalità derivata radicata nei tre atteggiamenti temporalizzanti del Dasein, ovvero attesa, presentificazione e ritenzione. Il tempo, cioè, sembra rimanere una determinazione originaria della soggettività. L’unica prospettiva, che secondo Romano apre uno scarto rispetto alla concezione intratemporale del tempo propria di tutta la tradizione metafisica, prigioniera una soggettivazione-spiritutalizzazione del tempo stesso, è quella delineata da Merleau-Ponty, secondo il quale il tempo non è una successione oggettiva che il soggetto di limita a registrare, ma nasce nel mio rapporto con le cose. Esso è la forma dell’incontro tra soggetto e mondo, né totalmente dalla parte della coscienza né totalmente dalla parte delle cose. Soltanto in questa prospettiva sembra allora possibile comprendere la temporalità dell’evento. La riconfigurazione totale dei possibili che esso comporta infatti non può essere pensata secondo il modo dell’immediatezza, ma solo retrospettivamente, per cui un evento si dà sempre al passato. “Un evento non è, sarà stato un evento […] presente soltanto come passato, alla luce di un futuro che apre” (pagg. 67, 68). Ecco allora che anche dal punto di vista della temporalità emerge l’irriducibilità dell’evento alla dimensione della fattualità. Mentre un fatto è fenomenologicamente collocabile a partire dall’intratemporalità, in quanto prevedibile, compiuto nel presente nella sua manifestazione, incapace di mettere in crisi la coesione totale del senso della nostra esperienza, l’evento è imprevebile, prospettico, la sua esperienza eccede la sua effettualità. Il suo sopravvenire non è intratemporale, ma temporalizzante. Al di fuori di ogni prospettiva metafisica che si muova nell’opposizione tra tempo costituente e tempo costituito, la nostra avventura umana può essere pensata nella sua temporalità soltanto a partire dagli eventi dell’esperienza, che sfuggono alla dinamica attesa-percezione-ritenzione, per cui non c’è memoria dell’evento, ma soltanto memoria a partire dall’evento.

3. In nessuna prospettiva ermeneutica ha finora trovato spazio un’analitica della nascita. Nel pensiero heideggeriano la prevalenza dell’essere per la morte consegna il Dasein ad una dimensione estatica, per cui esso può tornare presso di sé nella propria autenticità soltanto a partire dal suo essere a-venire. Ora Romano propone invece di prendere sul serio una fenomenologia dell’evento della nascita. Che ne è dell’evento della nascita? Lo stesso Heidegger ammette in Essere e Tempo che la nascita non può essere risolta in evento passato non più esperibile com’è invece costitutivamente la morte. La gettatezza stessa sembra implicare un’analitica della nascita, in quanto nascendo il Dasein non soltanto è gettato nel mondo, ma è consegnato con un unico gesto alla morte come possibilità del non essere possibile: solo un essere nativo nel fondo del suo proprio essere può venir chiamato mortale. Questo non significa evidentemente pensare la nascita in termini aristotelici come generazione né costruire un’analisi bio-ontica della nascita stessa. Come il morire non è un dato, così la nascita non è un semplice fatto. Essa accompagna piuttosto l’esserci in ogni suo passo, come l’inassumibile per eccellenza, non una possibilità, ma l’evento a partire dal quale tutte le possibilità si possibilizzano. È l’inautentico per eccellenza perché non può essere assunta in prima persona, è intrinsecamente impersonale, nascere è un verbo che dovrebbe sempre essere coniugato nella persona del si, poiché è sempre possibile dall’altro e attraverso l’altro, assegnazione dell’essere come un dono.

4. A partire dalle considerazioni fin qui condotte quale forma prende allora il progetto di una ermeneutica dell’evento? La differenza tra evento e fatto non può essere schematicamente ricondotta alla differenza tra soggetto e oggetto, ma definisce piuttosto lo scarto ontologico tra l’assistere ad un fatto e l’accadere di un evento nell’esistenza di qualcuno: il fatto non fa che attualizzare dei possibili pre-esistenti, mentre l’evento esonda per definizione dai limiti del preconfigurato, poiché colpendo i fondamenti stessi del mondo, costituisce una riconfigurazione del possibile nella sua totalità. Questa distinzione non si risolve soltanto in una formula capziosa, Romano ammette infatti che ogni evento si dà nella forma di un fatto, ovvero iscritto in una trama causale, ma sottolinea la necessità di ripensare seriamente il carattere evenemenziale di alcuni fatti nei quali sopravviene appunto un sovvertimento del senso del mondo, un’interruzione, la cui comprensibilità non si appoggia più sugli antecedenti, ma al contrario apre ex novo una dimensione di intelligibilità. Il caso più emblematico è quello della morte di una persona cara, la cui possibilità come fatto è sempre iscritta nella possibilità del mondo, ma il cui carattere dirompente di evento si manifesta nello stupore, nello smarrimento che sempre lo accompagna, inaugurando come una nuova cronologia. L’evento è poi intrinsecamente rivolto-a, in esso ne va del senso del mondo per qualcuno, per cui una fenomenologia dell’evento è indissociabile da una fenomenologia di colui al quale l’evento avviene, l’adveniente, la cui umanità è intesa come “esposizione ad eventi” e come “capacità di rapportarsi ad eventi”. Romano propone allora di delineare una fenomenalizzazione dell’evento che ne riconosca i tratti irriducibili. L’evento si rivela sempre eccedente rispetto a qualsiasi attualizzazione, quindi non riconducibile ad una ontologia della Vorhandenheit, in quanto non appartiene al dominio del reale, ma del possibile, anzi del possibilizzante. Tale possibilizzazione non è quindi il prodotto di una libertà autarchica, ma dell’evento stesso in cui a sua volta si radica ogni libertà. L’evento è impersonale e rivela l’anonimato originario che attraversa l’esistenza, trascende l’essere definito dall’esser mio, spezza la continuità del soggetto e introduce continue fratture tra passato e avvenire. L’essere sé non può più allora esser pensato come un progettarsi a partire da una libertà autarchica che definisce il proprio poter essere, ma si rivela consegnato all’espropriazione originaria di un senso che viene sempre da altrove e consegna l’esserci ad un compito che lo trascende continuamente.

5. Il progetto iniziale e la sfida di indagare la possibilità di un’ermeneutica dell’evento paiono a questo punto compiuti da Romano. Ma a vantaggio di cosa? Quali acquisizioni garantisce al pensiero la possibilità di una prospettiva radicalmente evenemenziale? La risposta, contenuta in verità già nella proposta, è la possibilità di delineare un’autentica antrolopogia della finitezza, che ci permetta di render conto ontologicamente della nostra esperienza mondana, uscendo dalle pastoie di una filosofia della soggettività come di un pensiero della fattualità positiva. La stessa analitica della nascita come dono rivela il carattere non originario dell’ipseità, aprendo l’esistenza ad un passato sempre più antico di quanto possa definire come “mio” e a possibilità altre da quelle che io progetto. Nella nascita prima di appropriarsi di sé, infatti, il Dasein è consegnato ad un dono del quale ogni appropriazione è impossibile, collocando nell’intimità della sua esistenza l’impossibilità del compimento di questa stessa intimità. Essere sé non è più allora pensabile come progettarsi verso un poter essere, ma è approfondire l’enigma di un senso che venendo sempre da altrove ci consegna ad un compito che trascende la nostra avventura mondana.