Dal maggio 2022 su questa rivista non sono più accessibili molte immagini d'arte coperte dal copyright dei proprietari, ovvero generalmente musei e collezioni. Nella gran parte dei casi, l'immagine risulta vuota ma è leggibile la sua didascalia, per cui resta possibile la sua visualizzazione nei legittimi contesti.

Redazione e contatti

Cerca nel sito

Ontologia dell’inattualità

L’espressione “ontologia dell’inattualità” si richiama all’espressione “ontologia dell’attualità” che alcuni anni fa Gianni Vattimo ha ripreso da Michel Foucault, facendone la cifra del proprio modo di fare filosofia. Questo riferimento appare come una inversione, che però non vuole essere una contrapposizione: piuttosto, essa ha lo scopo di mettere in luce un aspetto della stessa proposta di Vattimo che l’espressione “ontologia dell’attualità” forse non esplicita abbastanza, o almeno lascia esposta al fraintendimento1. A questo scopo prenderò in considerazione in particolare due questioni: la prima è l’ambito entro cui è sorta l’espressione di Foucault, la seconda consiste in una certa relazione dell’espressione da me scelta, “ontologia dell’inattualità”, con l’indagine heideggeriana sulla storicità, condotta in Essere e tempo, che non è senza rapporto con la sua idea della, o la sua critica alla, fenomenologia.

Partirò dunque dalla prima questione. Foucault ha usato l’espressione “ontologia dell’attualità”, sembra per la prima volta, in un corso tenuto al Collège de France nel 1983, di cui venne in seguito pubblicata una parte con il titolo Qu’est-ce que les Lumières?2. In questo scritto Foucault distingue l’“ontologia dell’attualità” dall’“analitica della verità”: mentre questa si occupa del problema delle condizioni entro cui è possibile una conoscenza vera, la prima si chiede «qual è il campo attuale dell’esperienza possibile»3. Essa aggiunge quindi un’ulteriore condizione alla domanda trascendentale, kantiana, sulle condizioni dell’esperienza possibile, quella dell’attualità. Sebbene quindi Foucault sembri contrapporre in maniera piuttosto netta questi due atteggiamenti filosofici, parlando di una scelta tra una filosofia critica, in quanto analitica della verità, e un pensiero critico, in quanto ontologia di noi stessi, tale contrapposizione, come appare anche nel testo del 1984 dal titolo What is Enlightenment?, pubblicato in una raccolta a cura di R. Rabinow4, è in fondo fatta su un terreno comune, quello della critica: il lavoro storico, genealogico ed archeologico, che dà luogo a un’ontologia dell’attualità appare come intrinsecamente critico5. Mentre però l’analitica della verità indaga le strutture formali universali dell’esperienza, l’ontologia dell’attualità indaga invece le sue condizioni contingenti e mutevoli. L’ontologia critica non viene esercitata, infatti, come «ricerca delle strutture formali che hanno valore universale, ma come indagine storica attraverso gli eventi che ci hanno condotto a costituirci e a riconoscerci come soggetti di ciò che facciamo, pensiamo e diciamo»6.

La dimensione critica di queste due forme di indagine consiste nel fatto che, in entrambi i casi, si tratta della ricerca sulle “condizioni di possibilità” di qualcosa, e cioè sulle condizioni di possibilità del nostro essere: trascendentali, nel caso dell’analitica della verità, storiche nel caso dell’ontologia dell’attualità. L’oggetto dell’ontologia dell’attualità, quindi, non è l’attualità di per se stessa, come non lo è l’esperienza nel caso dell’indagine critico-trascendentale: tale oggetto è piuttosto la condizione di possibilità del mondo attuale. Ci sono dunque buone ragioni per dire che i due compiti non possono essere separati né intesi come esclusivi: quel che li accomuna è l’intento rivolto alle condizioni di ciò che è presente (l’attualità, l’esperienza), quel che li distingue è la natura di queste condizioni (accidentali, necessarie. L’indagine critica, scrive Foucault, è una riflessione sui limiti: «La critica è proprio l’analisi dei limiti e la riflessione su di essi»7. I due compiti, perciò, possono essere visti come complementari, o meglio, quello che concerne l’ontologia dell’attualità può essere considerato come una “restrizione” alla dimensione storica dell’analitica della verità: «se la questione kantiana era di sapere quali sono i limiti che la conoscenza deve rinunciare a superare, mi sembra che, oggi, la questione critica debba essere ribaltata in positivo: qual è la parte di ciò che è singolare, contingente e dovuto a costrizioni arbitrarie in quello che ci è dato come universale, necessario e obbligato? Si tratta, insomma, di trasformare la critica esercitata nella forma della limitazione necessaria in una critica pratica nella forma del superamento possibile»8.

Da ciò emerge un carattere importante della cosiddetta ontologia dell’attualità, che spiega probabilmente anche l’abbandono di questa espressione da parte di Foucault: essa non è affatto un pensiero che “va dietro agli eventi del mondo”, una sorta di “ontologia degli eventi correnti” nel senso di Vincent Descombes9, un “rincorrere” gli eventi del mondo nel loro presentarsi, nel loro corso, in una fuggevolezza che diventa addirittura criterio di legittimazione della riflessione filosofica. Al contrario, essa deve ritrovare in ciò che è attuale un possibile, qualcosa che ne consenta il superamento: mostrando la contingenza delle sue condizioni, ne mostra la trasformazione possibile. Non si tratta quindi di un’indagine volta a legittimare il presente, e quindi il pensiero che lo assume, alla maniera di uno storicismo di stampo hegeliano. La philosophy of current events corre questo rischio: come ha scritto Richard Rorty, che pure della filosofia non ha mai avuto una visione così forte da pensarla come atemporale, «credo che dovremmo guardarci da quella che il filosofo francese Vincent Descombes ha chiamato the philosophy of current events, la tentazione di affermare che la cristianità sia impossibile dopo i papati dei Borgia, o che la poesia sia impossibile dopo Auschwitz, o che l’esistenza dei gulag renda impossibile l’essere socialisti, o che, infine, una certa visione filosofica non possa essere più sostenuta dopo l’11 settembre», e questo perché «il rapporto tra la filosofia e gli eventi è molto più blando»10.

La motivazione di Rorty per negare il senso di un’ontologia dell’attualità come philosophy of current events – la quale, nelle considerazioni di Foucault, corrisponderebbe all’atteggiamento del flaneur, la cui curiosità è preda della moda e che perciò non coglie la “modernità” degli eventi, quella dimensione di virtualità che invita alla loro trasformazione11 – fa riferimento alla mancanza di una vera relazione di causa-effetto, o in generale di giustificazione, tra eventi del mondo e filosofia, quasi che gli eventi correnti possano costituire una legittimazione per quel che la filosofia di volta in volta dice. Il rapporto tra filosofia ed eventi è però, scrive Rorty, molto più blando. In primo luogo perché la stessa considerazione di che cosa possa considerarsi un “evento” – e soprattutto un major event, per dirla con Derrida – è opinabile, e cioè relativa a una serie di presupposizioni che non hanno nulla di eventuale, o forse che sono talmente eventuali da non permettere alcuna univocità di giudizio12. Il motivo che rende insoddisfacente questa concezione dell’ontologia dell’attualità è comunque il suo tendenziale storicismo positivista, che implica una particolare concezione della storia in termini di pura fattualità. Ciò si riflette nel modo in cui si può concepire il significato del termine “storica” nell’espressione foucaultina “ontologia storica di quel che siamo”, che appare come sinonimo del termine “attualità”. Nel suo senso etimologico, istoría è in greco il racconto descrittivo, il rapporto che si fa di qualcosa dopo averlo osservato. L’ontologia dell’attualità sarebbe in tal caso il resoconto descrittivo di quel che accade o è accaduto. Ma così intesa, l’ontologia dell’attualità non è critica: è una presa d’atto positivistica dell’esistente, di ciò che c’è, di quel che si è realizzato così come si è realizzato, trovando anzi la propria giustificazione esattamente in questa pura storicità. Potremmo dire, in termini fenomenologici – ma questo slittamento non è casuale –, che si tratta di una assunzione del dato così come esso si dà.

L’attualità sarebbe dunque la presenzialità di una struttura, o di una formazione, quale si manifesta nell’oggi: è quel che si vede, quel che c’è davanti agli occhi e suscita la curiosità del flaneur. Per usare un’espressione di Heidegger, si tratterebbe di un’ontologia del “semplicemente-presente”, vorhanden: ed è credo in questo senso – in quanto attaccata al presente, presso di esso – che l’ontologia dell’attualità diventa philosophy of current events, una filosofia che nel presente vede il criterio di legittimazione di quel che pensa e dice, fino a trovare nella storia il criterio positivista – o fatto passare per tale (ci sono dei fatti che sono accaduti e che hanno determinato il nostro essere attuale) – del suo procedere.

Come ho detto, si tratta però qui di capire che cosa si intende per “storia”. Significative sono a questo proposito le pagine che Heidegger dedica a questo concetto in Essere e tempo, in particolare i §§ 72-77 del capitolo V, intitolato «Temporalità e storicità». Il problema discusso in queste pagine è quello della determinazione della continuità dell’esistenza, ovvero del passaggio dalla temporalità, come struttura formale dell’esserci, alla storicità, come determinazione effettiva di questa temporalità. Questa continuità, scrive Heidegger, non può essere intesa come una successione di “esperienze” (Erlebnisse), poiché questo porterebbe a ritenere che autenticamente reale (wirklich) è solo il presente. Ma come si può, si chiede Heidegger, giungere a una qualche comprensione della continuità dell’Esserci, e cioè della sua storicità, della storia, se si pensa che reale (wirklich) sia solo l’esperienza attuale (aktuelle)?13 Qui Heidegger distingue ciò che è wirklich da ciò che è aktuell: il primo è l’effettuale, ciò che ha una Wirkung, anche se solo implicita; il secondo è l’attuale nel senso di ciò che è in atto, e quindi presente, già realizzato. Sulla base di questa distinzione, si tratta allora di pensare una nozione di realtà che possa condurre a una diversa nozione di storicità (non insomma come successione di esperienze, o di eventi), in cui la nozione di attualità come presenza non gioca più il ruolo di centro gravitazionale. Una realtà che comprenda in sé anche l’inattuale, il passato e il futuro, come definienti anch’essiStrecke) della vita. La nascita e la morte, ad esempio, non sono irreali: sono semplicemente inattuali, nel senso di non essere presenti (aktuell), ma non per questo sono ineffettuali, unwirklich.

La mancanza di una tale prospettiva riguardo alla comprensione della storia caratterizza quelle posizioni, per lo più storiciste, che costituiscono il bersaglio polemico di Dilthey e, soprattutto, del conte York. Questi, ad esempio, accusa Windelband e Ranke di attenersi a «“determinazioni puramente oculari”, dirette a ciò che ha corpo e forma», smarrendo così la distinzione tra ontico e storico14. Viceversa, il concetto di storia cui allude Dilthey, secondo il conte York, è molto più profondo, perché «è quello di una connessione di forze, di un’unità di forze a cui la categoria di forma dovrebbe essere applicabile solo in modo traslato»15.

Di fronte a questo estetismo, a un tale “culto della forma”, il conte York afferma: «Ciò che nella storia fa spettacolo e balza agli occhi (was Spektakel macht und augenfällig ist) non è il più importante. Le nervature sono invisibili, come lo è, in generale, l’essenziale. Allo stesso modo che si dice “Se foste silenziosi, diverreste forti”, si potrebbe dire: “Se sarete silenziosi, sentirete, cioè comprenderete”»16. La philosophy of current events non è esente da questa “spettacolarizzazione” della filosofia: essa va dietro a ciò che si vede e a ciò che si dice, mentre l’essenziale è ciò che non si vede, o che non si dice, che è reale benché inattuale.

Si tratta dunque di recuperare una nozione di storicità – e di realtà, nel senso dell’effettualità (Wirklichkeit) – non riducibile all’attualità nel senso di ciò che è ora presente. Anzi, Heidegger osserva che il conte York è giunto «alla comprensione piena dei caratteri della storia come “virtualità” (Virtualität17, e questa precisazione può essere assunta come una chiara indicazione a favore della tesi secondo cui la realtà storica è virtualità. Solo come virtualità, infatti, la storia può essere quello che l’analisi della temporalità dell’Esserci ha mostrato: apertura di possibilità. La storia è insomma un campo di possibilità, le quali sono reali nella misura in cui sono, appunto, possibili, mostrano cioè di poter essere ancora realizzabili, mettendo così in discussione la possibilità che di fatto si è realizzata, nella sua unilateralità, storicizzandola18, inscrivendola cioè in una dimensione critica. Perché, come scrive sempre il conte York, «ogni storiografia veramente viva e non soltanto riproducente la vita è critica»19.

In quanto virtualità, come dice Heidegger, la realtà storica è dunque più dell’attualità: è anzi ciò che mette in discussione l’attuale20. Più che di “ontologia dell’attualità”, allora occorrerebbe parlare di ontologia virtuale nel senso di Deleuze, il quale, in un saggio su Bergson, assumeva il virtuale come ciò che è «reale senza essere attuale, ideale senza essere astratto»21. Se l’indebolimento emancipante di cui parla Vattimo ha un senso, deve averlo innanzitutto come indebolimento dell’attualità: sia essa quella atemporale della metafisica o quella, temporale, del presente.

Solo così – come messa in discussione dell’attuale a favore del virtuale – l’ontologia può infatti essere critica. La connessione tra storicità, virtualità e critica costituisce l’elemento di radicale novità dell’ontologia heideggeriana, in quanto mette fine all’ontologia parmenidea dell’identità dell’essere e insieme al dualismo platonico secondo cui sarebbe necessario ricorrere a un ultramondo (quello delle idee o delle norme astoriche e atemporali) per esercitare una funzione critica sul mondo attuale, ultramondo che a sua volta avrebbe le caratteristiche dell’essere parmenideo. In questa concezione della storia, invece, la storia è immediatamente critica di se stessa, in base alle sue costitutive virtualità inattuali o riattualizzabili. L’ontologia dell’inattualità – espressione con cui quindi designiamo l’ontologia della storia in quanto virtualità, e non attualità – è quindi di per sé critica. È, credo, in questo senso che va interpretata la frase di Heidegger: «La temporalità della storicità autentica, invece, in quanto attimo ripetente-anticipante, è una depresentificazione (Entgegenwärtigung) dell’oggi e una disabitudine alla quotidianità del Si»22, una «separazione dolorosa dalla pubblicità deiettiva dell’oggi»23, depresentificazione che porta a comprendere la storia come «il “ritorno” del possibile»24. Criticare, infatti, è depresentificare.

Tutto questo misura allo stesso tempo la fedeltà e la distanza di Heidegger da Husserl. Se infatti da un lato l’idea della realtà storica come virtualità appare come una diretta conseguenza del principio enunciato nelle Ricerche logiche, «più in alto della realtà sta la possibilità»25 – radicale contestazione del principio aristotelico secondo cui l’atto precede la potenza –, dall’altro costituisce una presa di distanza dal metodo fenomenologico che ha nella presentificazione (Gegenwärtigung) il suo spazio vitale. L’ontologia dell’inattualità costituirebbe quindi una implicita deviazione dalla fenomenologia, le cui implicazioni andrebbero valutate con più attenzione. Anzitutto per quel che riguarda il concetto stesso di “fenomeno”, il quale per la fenomenologia è quel che si dà alla coscienza in praesentia, così come esso si dà, nell’intuizione e nell’evidenza del qui e ora. La definizione che Heidegger dà del fenomeno, ovvero «ciò che si manifesta come essere e struttura dell’essere»26, ne comporta intrinsecamente una complicazione, in quanto l’essere è essenzialmente ciò che non si dà mai nella presentificazione, ma sempre come ciò che non c’è, come il differente rispetto a ciò che è presente. La struttura differenziale e non presentificante del fenomeno così come Heidegger lo intende ne fa qualcosa di intrinsecamente temporale, poiché il non darsi dell’essere nel fenomeno, se non come ciò che non c’è, comporta, all’interno stesso del fenomeno, un riferimento all’inattualità, all’essere in quanto inattuale, “assente”.

Ciò non significa che l’essere sia irreale. La differenza che stacca l’essere dall’ente non è certo reale nel senso della Realität – non è una qualità, una proprietà, che distingua un ente da un altro ente – ma è reale nel senso della Wirklichkeit, della effettualità: produce effetti. E l’effetto che essa produce è una specifica e diversa comprensione27: comprendere la differenza ontologica significa comprendere – o poter comprendere – diversamente. Ovvero, per tornare alla nostra questione riguardo alla fenomenologia: depresentificare.

Sta qui la possibilità, ancora, per l’ontologia, di essere critica. L’espressione “ontologia dell’inattualità” appare come ossimorica o paradossale, se per “ontologia” si continua a intendere la scienza di quel che c’è, allo stesso modo in cui, del resto, altrettanto paradossale sembra essere l’espressione che Heidegger usa per caratterizzare la sua idea della fenomenologia, e cioè “fenomenologia dell’inapparente”28. Essa non solo mette definitivamente fuori gioco il primato husserliano dell’intuizione, ma affida al pensiero esattamente il compito di pensare quel che non è presente, vale a dire di comprendere. A sintetica conferma di quanto sin qui detto, possiamo a questo punto citare un breve brano conclusivo del § 31 di Essere e tempo: «Quanto siamo venuti mostrando, cioè che ogni visione si fonda primariamente nella comprensione comune […] sottrae al procedimento intuitivo il suo rango primario, noeticamente equivalente al rango ontologico privilegiato che la tradizione conferisce alla semplice-presenza. “Intuizione” e “pensiero” sono due lontani derivati della comprensione. Anche la “visione delle essenze” fenomenologica si fonda nella comprensione esistenziale. A proposito di quest’ultima visione ci si potrà pronunciare solo dopo che siano stati esplicitamente raggiunti i concetti di essere e di struttura dell’essere, i soli che possono essere fenomeni in senso fenomenologico»29.

Comprendere è dunque disarticolare la visione e il suo presupposto ontologico, la presenza, depresentificare, proprio perché è, non contemplazione, ma progetto, e cioè elevazione del presente al livello delle sue condizioni di possibilità per farne a sua volta l’effettiva condizione di possibilità future, un volgersi sia verso il suo passato sia verso il suo futuro: la definizione di una genesi e la prefigurazione di un avvenire. Il pensiero è critico proprio in quanto comprensione. Si può dire perciò che il rapporto tra ontologia (o filosofia) ed attualità ricalca quello che c’è tra l’essere e l’ente: l’essere è sempre “essere dell’ente”, allo stesso modo in cui l’ontologia (o la filosofia) è sempre ontologia dell’attualità, non può partire, cioè, che dall’attualità; ma l’essere non è l’ente, ed è su questo tratto differenziale che insiste l’ontologia dell’inattualità: essa opera rispetto all’attualità lo stesso distacco che nella comprensione della differenza ontologica separa criticamente l’essere dall’ente.

Il pensiero, così inteso, cioè come critica che non si limita a “prendere atto” dell’esistente, è perciò sempre inattuale30. Inattuale, come sin qui si è detto, nel senso di non esser riducibile al, né farsi trascinare dal, presente, dall’evento, dall’attualità, fino a farne, come nella philosophy of current events, il proprio criterio di legittimità. Ma se il pensiero si limita a questo, non comprende affatto; per comprendere, deve cercare il proprio criterio di legittimità, non nell’attualità, ma nella possibilità: un modo di procedere che è stato portato alla sua massima espressione da Kant, che ha in generale inteso l’indagine critica come indagine sulle condizioni di possibilità. «Solo distinguendo in questo modo (in greco krínein) non l’ente da un altro ente, ma l’essere dall’ente, noi entriamo nell’ambito della problematica filosofica. […] L’ontologia, ovvero la filosofia in generale, a differenza delle varie scienze dell’ente, è pertanto la scienza critica, cioè è la scienza del mondo invertito. Con questa distinzione dell’essere dall’ente e grazie a questo prelievo tematico dell’essere noi usciamo radicalmente dall’ambito dell’ente. Noi andiamo oltre, lo trascendiamo. Possiamo perciò chiamare la scienza dell’essere, in quanto scienza critica, anche scienza trascendentale»31.

Il fatto che la modernità sia caratterizzata per Foucault da un rapporto “sagittale” con il proprio presente32 non deve quindi significare un ancoraggio assoluto del pensiero alla sua attualità, pena il trasformare l’ontologia dell’attualità in una philosophy of current events. Se vuole essere critica – in senso trascendentale o genealogico, volta a individuare condizioni necessarie o contingenti –, e cioè emancipativa, essa deve prendere in considerazione anche una certa inattualità: la risposta alla domanda Che cos’è l’Illuminismo? da parte di Kant mette in comunicazione la riflessione critica con quella storica, la riflessione sull’oggi con la riflessione sulla sua opera, proprio perché entrambe si pongono come pensieri sulle condizioni di possibilità, e dunque del possibile superamento della condizione attuale. In particolare, la critica genealogica, per Foucault, è volta a cogliere, «nella contingenza che ci ha fatto essere quello che siamo, la possibilità di non essere più, di non fare o di non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo»33. Ciò a cui mira l’ontologia dell’attualità è l’inattuale.

Un’“ontologia dell’inattualità” così ridefinita comporta allora il rischio, per la filosofia, di essere inattuale anche in un altro senso: quello che ricorre, ad esempio, nel titolo di una delle opere più antistoriciste di Nietzsche, le Considerazioni inattuali (Unzeitgemässe Betrachtungen). Unzeitgemäss, “non conforme al tempo”: l’ontologia dell’inattualità non segue il corso degli eventi, è rispetto ad essi sempre più o meno decentrata, out of joint, per usare un’espressione di Derrida34. Ha il suo centro di gravità altrove, nel futuro: «la storia», scrive Heidegger, «non ha il suo centro di gravità né nel passato né nel presente e nella sua “connessione” col passato, ma nello storicizzarsi autentico dell’esistenza quale scaturisce dall’avvenire dell’Esserci»35. Questo essere “inattuali” è forse in fondo la maniera più autentica di essere storici. Quella che almeno Nietzsche sembra avere in mente quando, contro il senso storico del suo tempo, difende il proprio modo di essere “filologo”: «Posso permettermi tutto ciò a causa del mio mestiere di filologo classico: poiché non saprei certo quale altro senso potrebbe avere la filologia classica nel nostro tempo se non di operare su di esso in maniera inattuale (unzeitgemäss zu wirken), cioè a dire: contro questo tempo e pertanto su questo tempo, e speriamo, a vantaggio di un tempo futuro»36.

 

Note con rimando automatico al testo

1 Ad esempio nel recente Dalla fenomenologia a un’ontologia dell’attualità, in: Pensare l’attualità, cambiare il mondo, a cura di G. Chiurazzi, Milano, Pearsons PBM, 2008. Di questo testo, mi limiterò a richiamare i riferimenti a Benjamin e al non-detto heideggeriano, che mi sembrano convergere con una certa concezione della storia e del compito della filosofia che qui intendo difendere.

2 Cfr. M. Foucault, Che cos’è l’illuminismo? (1983), in: Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste (3. 1978-1985), tr. it. di S. Loriga, a cura di A. Pandolfi, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 253-261.

3 Ivi, p. 261.

4 Idem, Che cos’è l’illuminismo? (1984), in: Archivio Foucault, cit., pp. 217-232.

5 Ivi, p. 229, dove Foucault caratterizza l’indagine ontologica che prende le mosse dall’attualità come storico-critica.

6 Ivi, p. 228.

7 Ivi, p. 228.

8Ibid.

9 Così V. Descombes, The Barometer of Modern Reason: On the Philosophies of Current Events, New York, Oxford University Press, 1993.

10 R. Rorty, Per il pensiero debole nessuna capitolazione, intervista di G. Bosetti, in: Il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia nel XXI secolo, a cura di E. Ambrosi, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 65-66.

11 M. Foucault, Che cos’è l’illuminismo? (1983), cit., p. 224.

12 Ciò che caratterizza un major event, e anzi l’evento tout court, scrive Derrida parlando dell’11 settembre, non è la sua “grandiosità”: «[B]enché la parola “major” sottolinei l’altezza e la scala, la valutazione non può essere puramente quantitativa» (G. Borradori, Filosofia del terrore, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 99), ma è sempre in qualche modo “interpretativa”.

13 M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Torino, Utet, 1986, p. 538 [ed. Niemeyer, 1927: 374].

14 Ivi, p. 570 [400].

15Ibid.

16 Ivi, p. 571-72 [401].

17 Ivi, p. 572 [401].

18 A questo si ispira la valutazione nietzscheana della storia monumentale, quando scrive che il suo scopo è conoscere che «la grandezza del passato è una grandezza possibile e assumere, in conseguenza, che essa sarà ancora possibile» (Sull’utilità e il danno dello studio della storia per la vita, a cura di P. Arlorio, Torino, Paravia, 1968, p. 17).

19 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 571 [401].

20 È in base a questa concezione della storia che Heidegger problematizza la concezione abituale della storiografia quando si chiede: «La storiografia avrà dunque come suo tema il possibile? Il suo “senso” non consiste forse esclusivamente nei “dati di fatto” e in ciò per cui essi sono “di fatto” avvenuti?» (ivi, p. 563 [394]).

21 G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, a cura di P.A. Rovatti e D. Borca, Torino, Einaudi, 2001, p. 73.

22 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 560 [391].

23 Ivi, p. 566 [397].

24 Ivi, p. 560 [391].

25 Ivi, p. 100 [38].

26 Ivi, p. 134 [63].

27 Su questo punto mi permetto di rinviare a G. Chiurazzi, Per una concezione trasformazionale della verità: ermeneutica e pragmatismo, in Pensare l’attualità, cambiare il mondo. Confronto con Gianni Vattimo, a cura di G. Chiurazzi, Milano, Bruno Mondadori, 2008, pp. 97-111.

28 M. Heidegger, Vier Seminare, Frankfurt a.M., Klostermann, 1977, p. 147.

29 Idem, Essere e tempo, cit., p. 242 [147].

30 Di qui la sua tendenziale “esotericità”: perché, come osserva ancora il conte York, la mentalità estetico-meccanicistica «trova con facilità la sua espressione terminologica; essa è infatti un’analisi che va dietro all’intuizione, e la maggior parte delle parole proviene dall’ocularità. Ciò che invece tende a penetrare nel fondo della vita è contrario ad ogni esposizione essoterica; dal che consegue una terminologia disabituale, simbolica e fuor del comune. Dalle caratteristiche singolari del pensiero filosofico deriva la singolarità dei suoi mezzi espressivi» (ivi, p. 573 [402]).

31 Idem, I problemi fondamentali della fenomenologia, tr. it. di A. Fabris, Genova, il Melangolo, 1990, p. 15.

32 M. Foucault, Che cos’è l’illuminismo? (1983), cit., p. 255.

33 Idem, Che cos’è l’illuminismo (1984)?, cit., p. 228.

34 J. Derrida, Spectres de Marx, Paris, Galilée, 1993; tr. it. di G. Chiurazzi, Spettri di Marx, Milano, Cortina, 1994.

35 M. Heidegger, Essere e tempo, cit. p. 553 [386].

36 F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno dello studio della storia per la vita, cit., p. 3.