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Ci sei? I mondi e l’evento del fuori.

L’ultima immagine del libro che McLuhan pubblicò nel 1967 insieme al fotografo Quentin Fiore – libro dal titolo apparentemente auto-ironico: The medium is the massage1 – è una vignetta disegnata da Alan Dunn in cui un teen-ager si rivolge a suo padre informandolo, in estrema sintesi, delle principali tesi sostenute dal sociologo canadese2. Il padre lo guarda attonito, stupito e stupido al tempo stesso. Non comprende il senso di ciò che il ragazzo vorrebbe comunicargli. Dietro i due troviamo raffigurati due mondi che non sembra riescano a trovare un senso “comune”. C’è da un lato il mondo alfabetico e tipografico, di cui l’immensa libreria è il simbolo eloquente, quanto lo stesso atteggiamento dell’uomo seduto comodamente a leggere, alla luce diffusa e orientata al tempo stesso di una lampada. Dall’altro lato c’è il mondo “elettrico” cui appartiene la chitarra poggiata, in evidente “fuori luogo”, ad uno scaffale della libreria; e c’è l’abito e l’atteggiamento stesso del ragazzo, indici di chi sta lì solo il tempo per comunicare (o tentare di comunicare) qualcosa ad un adulto che viene percepito come “out”, come fuori dal mondo (elettrico). I due appartengono a due mondi che, per quanto coesistano, sembrano ignorarsi a vicenda senza trovare un senso che li possa unire. Il ragazzo è sicuro di sé. Non si pone il problema di comprendere il mondo del padre. È un mondo “passato” rispetto a cui al massimo si può ostentare un atteggiamento deferente, ma niente di più. Nello sguardo che il padre rivolge al teen-ager c’è, invece, sorpresa, stupore, timore (e stupidità). Il ragazzo ad un certo punto si accorge di questa impasse emotivo-cognitiva del padre e, interrompendosi bruscamente, gli chiede: Ci sei? Vale a dire, “comprendi quello che ti sto dicendo?”; ma, anche “sei qui? Sei riuscito ad entrare nel (mio) mondo?”.

La prima e ovvia riflessione su questa vignetta dovrebbe mettere in evidenza la contrapposizione tra i due mondi (culturali) e la loro difficile con-penetrabilità. Ne seguirebbero considerazioni sul tema dell’incontro/scontro tra mondi culturali differenti e divergenti. Tuttavia, lasciando da parte tale problematica, e dando (per ora) per scontato – senza ulteriore riflessione – che, relativamente al contesto evocato, l’epoca “presente” in cui cade il discorso sia quella segnata dalla pervasiva operatività dei media elettrici – e non solo perché è il teen-ager a parlare, cosa ovviamente opinabile, in quanto il silenzio attonito del padre è del tutto eloquente, ma perché anche questo silenzio stupito è come se accettasse, nella propria incapacità di comprendere, che il “nuovo”, che la nuova epoca sia quella di cui fa parte il ragazzo –, dando per scontato tutto ciò facciamoci, innanzitutto, una domanda: chi dei due fa “esperienza” del “presente”, chi dei due fa davvero esperienza del “nuovo” che si annuncia? Il teen-ager che ritiene, in maniera irriflessa, di star dentro al “presente”, come in una sorta di liquido amniotico, oppure il padre che oppone alla sicurezza del figlio solo una timorosa e stupita incomprensione?

Credo, senza pretendere di dir qualcosa di nuovo, che né l’uno né l’altro riescano a far esperienza e dar conto del “presente”. Ma come è possibile far esperienza del presente, come è possibile fare esperienza del nuovo che si annuncia? E “dove” si annuncia? Relativamente al contesto evocato dalla vignetta, “dove” in effetti si annuncia il nuovo, nel mondo alfabetico del padre o in quello elettrico del figlio? Il figlio sembra dare per scontato di vivere nel presente ma, anche se enuncia le tesi di McLuhan, non sembra affatto consapevole di quel che dice; è come se gli mancasse l’esperienza dell’evento del presente. Il padre, invece, di tale evento coglie solo la sua incomprensibilità. E noi? Noi siamo consapevoli delle molte ragioni a sostegno delle analisi critiche di McLuhan. E siamo pronti a discuterne. Tuttavia, è a noi che appare evidente che tutti e due i mondi… sono “mondi”. E che la loro radicale differenza non elimina affatto, anzi esalta, la loro medesimezza in quanto “mondi”. E ciò, in fondo, ci rassicura molto.

Ciò nonostante, facciamoci una domanda: “siamo così sicuri che l’esperienza del presente sia una possibilità data per sempre? Se l’esperienza del “presente” è comunque legata alla possibilità di un “mondo”, che ne sarebbe di essa se il mondo venisse meno o comunque si riducesse a una sorta di provincia “umana” nell’ambito dell’essere (mi rendo perfettamente conto che questa affermazione così perentoria dovrebbe essere supportata dalla dimostrazione della possibilità di pensare l’essere al di là del mondo; ma di questo spero di riuscire a dire qualcosa fra un poco).


Il gioco dei mondi

Prima di articolare una possibile risposta a tale questione, vorrei commentare alcuni passaggi di alcuni testi che Jacques Derrida pubblica nel 19683, in stretto legame con il progetto grammatologico che egli aveva proposto appena l’anno prima4, e in cui la problematizzazione del presente si lega alla questione che potremmo chiamare del gioco dei mondi.

«Che cos’è il presente? Che cos’è pensare il presente nella sua presenza?»5, si chiede Derrida nel famoso saggio La différance. Senza pensare di poter qui riepilogare tutta la sua argomentazione – che è una sorta di Auseinendersetzung con lo Heidegger di Identità e differenza6– potremmo dire, forzando un poco il testo, che questa domanda equivalga per lui a quella relativa all’inizio del “mondo” (e del pensiero); come si presenta questo mondo, questo mondo in cui ek-sisto?; Come ha (avuto) inizio? Qual è (stato) il suo apparire originario? Derrida ha buone ragioni nel sostenere che l’inizio è già da sempre “cancellato” e “inscritto”, al medesimo tempo, nella stessa parola che, iscrivendolo, lo cancella. Potremmo dire che la parola che lo dice è, nel medesimo tempo, “detta” dall’inizio: è sua traccia; e, in quanto sua traccia, è la sua cancellazione (in effetti è una doppia cancellazione, quella dell’inizio e quella della parola che lo dice). Quel che intendo sostenere è che, nel pensiero “grammatologico” derridiano, la parola che mostra e pensa la presenza del presente si trova nella stessa aporia costitutiva della parola che mostra e pensa l’inizio del mondo o, che è lo stesso, il puro avvento di un “nuovo” mondo, il novum assoluto. Queste due parole sono già costitutivamente “iniziate”, nel senso che sono tracce di ciò che non c’è, nel senso che sono tracciate dall’inizio (“iniziate” dicevo) e che, proprio per tale ragione strutturale, non accadono né prima né contemporaneamente alla manifestazione del presente, o, che è il medesimo, all’inizio del mondo. Esse non sono che tracce che ripetono una presenza che in quanto tale, secondo Derrida, non c’è mai stata: «[…] il presente diviene segno del segno, la traccia della traccia […]. È traccia e traccia della cancellazione della traccia»7. La parola accade sempre differita spazialmente e temporalmente rispetto all’inizio, ad un inizio che può essere esso medesimo “nominato” (e cancellato) dalla stessa parola différance.

La tesi sostenuta da Derrida è paradossale e radicale: se c’è la scrittura non c’è alcun arché8. La scrittura è an-archica. Se c’è la scrittura non c’è l’origine, ma c’è la scrittura quindi non c’è origine (arché). Lo stesso inizio non è archico: è l’eracliteo gioco dell’en diapheron eautò, che è più vecchio dell’essere stesso: «la différance, in una certa e assai strana maniera – scrive, infatti, Derrida – (è) più “vecchia” della differenza ontologica o della verità dell’essere. È a quest’età che la si può chiamare gioco della traccia o della différance che non ha senso e che non è»9. Essa da un lato rende possibile la “differenza” tra l’essente e l’essere; dall’altro lato, rendendola possibile, lasciandola essere, non è, è al di là dell’essere e dell’essenza, ma anche dell’esistente: «ora se la différance è […] ciò che rende possibile la presentazione dell’essente presente, essa non si presenta mai come tale […]. La différance non è […] non ha né esistenza né essenza»10. Tuttavia, rendendo possibile il mondo, differendo da esso (e differendo in se stessa), essa per così dire lo “abita”, ma come ciò che lo “decostruisce” producendo altri mondi. La différance è sempre al lavoro per mettere in gioco i mondi, nel doppio senso dell’espressione: è il gioco che li fa essere e il gioco che li mette in gioco producendo altri possibili mondi11.

Se il trasporto che stiamo facendo della problematica della traccia dal piano della decostruzione del “testo metafisico” (che sembra essere l’intendimento principale di Derrida negli scritti della metà degli anni Sessanta dello scorso secolo) al piano dei mondi simbolici (cioè al piano dei macro-contesti) è plausibile, allora dovremmo precisare almeno due cose: 1) che, dal punto di vista decostruttivo, non sembra esserci la possibilità teorica non solo di pensare ad un mondo come “totalità di senso” che non sia già in decostruzione, ma anche di pensare che se ne dia solo “uno alla volta”, per così dire; il mondo è sempre disseminato di altri mondi, com-possibili o in-compossibili che siano; 2) che l’esperienza del nuovo appare nella forma dell’aporia12, nella forma del non-passaggio, dell’impasse, dello spaesamento, e dell’inquietudine radicale; essa è pensata come esperienza di un passaggio che non si vede e che tarda a darsi, come esperienza di un non passaggio, di un’a-poria, su cui bisogna tuttavia insistere, perché ci attende – e ci inquieta – come una verità che può essere sperimentata (e mancata) solo ai limiti del senso. Non a caso la figura fondamentale dell’aporia è la morte, la nostra morte, impossibile a dirsi, impossibile (come la nascita) ad essere rilevata nel “mondo” ma che è anche produttiva di figure di mondo, potremmo dire, di “supplementi” che mettano in figura la sua infigurabilità, consentendoci di sopra-(v)vivere13.

Derrida pensa la différance come una riserva di non-senso, o meglio come una riserva di insensatezza che potrebbe distruggere questo mondo ma anche produrre ulteriore senso e ulteriore mondo. Essa è ciò che è perso in un’«invisibilità senza ritorno»14 e «tuttavia la sua stessa perdita è messa al riparo, guardata, riguardata, ritardata»15; ma è messa in riserva e al riparo come ciò che inquieta il “senso” e che può distruggerlo. Derrida stesso ad un certo punto del suo saggio rileva come «l’enigma stesso della différance»16 consista in questa sua doppia veste, “economica” e distruttiva, e scrive:

Altrove ho cercato di indicare, in una lettura di Bataille, ciò che potrebbe essere una (scom)messa [mise] in rapporto, se si vuole, sia rigorosa sia, in un senso nuovo, “scientifica”, dell’economia ristretta che non fa parte alcuna alla spesa senza riserva, alla morte, all’esposizione al non-senso, ecc., e di un’economia generale che tiene conto della non-riserva, se così si può dire. Rapporto tra una différance che ritrova il suo tornaconto e una différance che manca di ritrovare il suo tornaconto, laddove la scommessa sulla presenza pura e senza perdita si confonde con quella sulla perdita assoluta, sulla morte17.

La decostruzione derridiana della metafisica e del mondo dell’occidente (e di ogni mondo possibile, si dovrebbe dire) non manca di ribadire come, nella stessa opposizione tra economia e dispendio, tra calcolo economico del tornaconto e depénse improduttiva, tra pulsione di autoconservazione e pulsione di morte (per dirla con Freud), tra “senso” e “insensatezza”, o tra l’assenza e la presenza (dell’essere), la différance non debba essere pensata né a partire dall’una né dall’altro dei termini dell’opposizione, poiché essa «eccede l’alternativa della presenza e dell’assenza»18. La traccia (che è l’altro nome della différance), infatti, eccede l’alternativa tra presenza ed assenza in quanto è traccia di «un passato che non è mai stato presente»19. Essa spiega il gioco stesso della presenza e dell’assenza, in quanto è all’opera sia nella (distruttiva e dispendiosa) pulsione alla presenza – la traccia è percorsa potremmo dire da una tensione auto-distruttiva alla presenza – sia nella infinita e altrettanto strutturale disseminazione del rimando di segno a segno, di “assenza di presenza” ad “assenza di presenza”.

Per le stesse ragioni, la traccia-différance apre anche sempre ad un ad-venire che è sempre già stato, per così dire, ma solo nella forma dell’assenza. Apre ad un ad-venire senza volto, sottratto anch’esso, come il “passato che non è mai stato presente”, al dominio della presenza e della mortifera pulsione alla presenza. La traccia indica una riserva strutturale che non può essere “rilevata” (aufgehoben), che non può essere hegelianamente “tolta” e che consiste nel gioco che fa essere i mondi e, con i mondi, le opposizioni che danno ad essi l’ordine del senso (così come dei dissidi che possono catastrofizzarli).

A ben guardare, però, il gioco eracliteo della disseminazione dei mondi e della disseminazione del senso anche nella teoria di Derrida non sembra essere troppo lontano dal gioco zeit-raumlich dell’Ereignis di cui parla Heidegger20. Per quanto il gioco della différance possa mutare, trasformare in profondo l’esistenza umana, esso comunque appare un gioco che salva e salvaguarda l’umanità dell’uomo anche nell’estremo pericolo.

Ora, se il gioco della différance è la condizione trascendentale perché si dia mondo, è possibile pensare che questo darsi di mondo venga meno, non perché non valga più come condizione trascendentale, ma perché le “forme della vita” per alcuni aspetti non marginali comincino a sottrarsi al “gioco dei mondi” proliferando secondo linee tendenzialmente a-simbolizzate di vita intelligente?

La possibilità che il “gioco dei mondi” si riduca ad un provincia nell’ambito dell’essere è forse parte del gioco stesso, permesso quindi dal gioco, come la possibilità della sua impossibilità? Per cui si potrebbe sostenere che il gioco della différance per essere radicalmente tale debba includere anche, necessariamente, come sua possibilità la sua stessa impossibilità? Non sono sicuro che questo argomento, che ricorre ad esempio, mutatis mutandis, nella famosa definizione heideggeriana della morte come la “possibilità più propria e più autentica”21, vale a dire come la possibilità della mia impossibilità, sia qui utile a capire quel che sta accadendo al di là dei mondi possibili. Il rischio, infatti, è che, pur radicalizzando la logica del possibile facendo coerentemente rientrare in esso la sua impossibilità, si resti su di un piano per cui tale “impossibilità”, essendo comunque pensata secondo una logica del possibile, funga tutt’al più da pericolo “produttivo” di mondo, da rischio creativo di senso.

È evidente che se si resta sul piano del gioco della traccia, ci sarà sempre mondo. E l’esperienza del nuovo consisterà sempre di nuovo nell’esperienza spaesante e “impossibile” dell’evento, cioè di una nuova possibilità di mondo.

Siamo sempre in un mondo, potremmo dire con Heidegger. Ci siamo, sia quando restiamo stupiti, attoniti di fronte ad un mondo che non comprendiamo, sia quando lo presupponiamo come ovvio e non lo mettiamo a tema.

Per chiudere, con una risposta, la domanda che, a partire dalla vignetta, ho scelto come titolo, dovremmo concludere (provvisoriamente) che l’esperienza dell’evento che “trasforma il mondo” non può darsi senza che l’esperienza del pericolo e della catastrofe del senso si leghi a quella di un possibile altro riconoscimento di senso, vale a dire di un possibile nuovo mondo.


L’evento del fuori

E se il mondo, senza “finire” – perché ci sarà pur sempre mondo finché saremo in grado di condurre un’esistenza “soggettiva” – fosse costretto a delimitarsi, a “ridursi” a causa dell’irruzione di un fuori del tutto privo di senso e di “mondità”?

Per tentare di pensare tale “fuori” dal mondo vorrei seguire una pista che, proprio nei suoi scritti più vicini al progetto grammatologico, Derrida propone per quanto, a mio avviso, risulti poi minoritaria nel complesso dello sviluppo della sua filosofia. È una pista che segna uno scarto significativo nei confronti dell’eredità heideggeriana, ancora molto presente, benché, per così dire, “laicizzata” nell’insieme dei testi che sto tentando di commentare. Certamente Derrida opera in questi scritti una esplicita critica all’impostazione “ontologica” heideggeriana. Pur riprendendo da Heidegger la tematica della Differenz come “più vecchia” dell’essere e dello stesso “principio di identità”, egli si distanzia nettamente da lui rispetto alla possibilità che la metafisica possa essere oltrepassata in vista di una manifestazione dell’Ereignis o della Differenz “in quanto tale” – prospettiva, a dire il vero, sempre solo “accennata” da Heidegger in alcuni suoi scritti, e spesso solo attraverso una certa “tonalità” pastoral-profetica del discorso. La traccia per Derrida, come abbiamo già detto, esclude strutturalmente la possibilità del presentarsi dell’Inizio. Essa è sempre cancellazione dell’inizio e cancellazione di se stessa “in quanto” traccia dell’inizio. Egli ribadisce continuamente la necessaria secondarietà della traccia (vale a dire il suo essere sempre “traccia di traccia”). Tuttavia, per quel che fin qui si è detto, il pensiero della traccia e della différance resta comunque fondamentalmente nel solco aperto da Heidegger, nel momento in cui il gioco della traccia è pur sempre concepito come producente mondo (anche se forse, rispetto a quanto contenuto in Della grammatologia, questa interpretazione andrebbe parzialmente rivista e precisata).

Fin che ci si fonda su questa tesi, non si è poi tanto lontani da Heidegger, specie da quegli scritti (e sono molti) in cui il pensatore tedesco interpreta la Tecnica come un modo del disvelamento dell’essere, quindi come un’epoca di mondo, come un’epoca della fine delle epoche22, come l’ultima epoca, epoca in cui il gioco dell’Ereignis potrebbe rivelarsi “in quanto tale” (anche se questa conclusione è lasciata, in effetti, molto “aperta” da Heidegger).

Ciò nonostante, nel pensiero di Derrida, come dicevo, si trova un’alternativa a tale discorso, per quanto sia un’alternativa che resta quasi sempre sullo sfondo, quasi come un retro-pensiero, rispetto allo sviluppo principale della sua ricerca filosofica.

Si potrebbe cominciare a chiarire questa prospettiva a partire da quel che egli scrive, contrapponendosi esplicitamente al pensatore tedesco, a proposito del calcolo e delle macchine.

Nella chiusa della conferenza tenuta a Friburgo nel 1957, con il titolo Il principio di identità, Heidegger scriveva:

Il pensiero ha impiegato più di duemila anni per comprendere in modo appropriato una relazione così semplice come la mediazione all’interno dell’identità. Come possiamo quindi noi ritenere che basti un solo giorno per realizzare il raccoglimento pensante nella provenienza essenziale dell’identità? Proprio perché esige un salto, tale raccoglimento ha bisogno del suo tempo, il tempo del pensiero, che non è quello del calcolo che oggi trascina il nostro pensiero ovunque. Oggi una “macchina pensante” (Denkmaschine) calcola in un secondo migliaia di relazioni, che però, a dispetto della loro utilità tecnica, sono inessenziali.

Qualunque cosa tentiamo di pensare, e comunque la pensiamo, noi pensiamo nell’alveo della tradizione. È essa che domina quando dal meditare, ci libera in quel rammemorare che non è più pianificare.

Soltanto quando, pensando, ci rivolgiamo al già pensato siamo impiegati per ciò che è ancora da pensare23.

 

Al di là della consueta opposizione tra pensiero “calcolante” e pensiero “rammemorante” (andenkend), questo brano mette in evidenza come il calcolo macchinico, il calcolo automatizzato sia immediatamente concepito da Heidegger come fuori dal “tempo del pensiero”, come il fuori dal pensiero, da un pensiero che non può che pensare – “comunque la pensiamo”, egli scrive – “nell’alveo della tradizione”. Da un lato troviamo, quindi, il calcolo resosi completamente autonomo dal pensiero, dall’altro lato troviamo quel che, con lessico derridiano, possiamo chiamare il “testo della metafisica”, all’interno del quale opera il gioco decostruttivo e aporetico della traccia che porta con sé, con la distruttività del senso-mondo, anche la produttività di altri possibili mondi. Heidegger la chiama “tradizione”, ma nel senso proprio del tramandamento. I due discorsi su questo punto sembrano, al di là del lessico specifico e del “tono” complessivo, perfettamente sovrapponibili. E la convergenza, come ho già accennato, sembra portare entrambi a concepire l’emergere del nuovo, l’emergere dell’evento che trasforma nell’essenza il mondo (ma non elimina il mondo) come quel pericolo in cui “cresce” ciò che salva, per dirla con i famosi versi di Hölderlin commentati da Heidegger24. Nel pensiero contenuto nel “testo della metafisica”, ma potremmo anche dire – estendendo, come abbiamo già fatto, tale tesi – nei mondi simbolici in cui conduciamo le nostre esistenze, è da sempre all’opera la traccia che tramanda e distrugge, ripete e crea, mette in pericolo e salva, dissemina e produce senso.

Tuttavia, per quanto tale convergenza sia evidente in passaggi per niente marginali, nel pensiero derridiano più legato al progetto grammatologico – progetto nei fatti interrotto, comunque non portato a compimento – c’è un tema che mi sembra fuoriesca abbastanza nettamente dalla teoria della différance, almeno relativamente al suo lato più “heideggeriano”. Il tema è proprio quello del “calcolo automatico” e della “macchina pensante” e “funzionante”. In tale problematica c’è ben più di un accenno alla possibilità di un pensiero del “fuori” che ponga a tema la “marginalizzazione” del “gioco del mondo”. Tale pensiero appare come necessariamente interno ed esterno al mondo, perché appare come fondato su uno sguardo all’essere che riesce a lasciarsi dietro di sé il mondo umano (pur presupponendolo come Boden – non Grund – cioè come luogo incerto ma ancora ospitale a partire dal quale tentare di contemplare il fuori). Si tratta di un pensiero che consapevolmente abdica alla sua pretesa dialettica, alla sua pretesa di riportare nel senso il fuori-senso, nella casa dell’essere ciò che cresce fuori di essa.

Nelle pagine conclusive del saggio Il pozzo e la piramide. Introduzione alla semiologia di Hegel, Derrida si chiede:

Ora il calcolo, la macchina, la scrittura muta appartengono allo stesso sistema di equivalenza e il loro lavoro pone lo stesso problema: nel momento in cui il senso si perde, in cui il pensiero si oppone al suo altro, in cui lo spirito si assenta da se stesso, il rendimento dell’operazione è sicuro?25

È la domanda che si fa Heidegger nella conclusione, prima riportata, de Il principio di identità, ma mutata di segno attraverso un punto di domanda che insinua un dubbio radicale e una possibilità non prevista. Il calcolo logico, la macchina pensante, la scrittura algoritmica si oppongono al senso e al pensiero, almeno al pensiero così come lo intendono sia Hegel che Heidegger.

La questione ruota intorno al “lavoro del negativo” che, com’è noto, non è solo il processo dialettico attraverso cui la ragione, secondo Hegel, “rileva” (aufhebt) il lavoro morto dell’intelletto, ma è anche, più in generale e in “concreto”, il processo attraverso cui lo spirito “sopporta” dentro di sé il non-senso e la morte. E se il negativo non si lasciasse dialetticamente rilevare, si chiede Derrida?

Cosa sarebbe il negativo se non si lasciasse rilevare? E che, insomma, in quanto negativo, ma senza apparire come tale, senza presentarsi, cioè senza lavorare al servizio del senso, avesse successo? Ma che, di conseguenza, avesse successo in pura perdita?26

E se tale negativo, ci dice Derrida, se tale assenza di spirito e pensiero «avesse successo»? E avesse successo «in pura perdita»?

Qual è il senso di questa domanda così radicale? Qui la perdita, la “pura perdita” non sembra aver niente a che fare con alcuna dépense, con alcuna “pulsione di morte”; è una perdita assoluta, è una perdita sempre già persa dallo spirito: la macchina calcola, la macchina funziona “fuori” dallo spirito, puro non-senso “irrilevabile”. La domanda di Derrida, lanciata quasi in sordina, alla fine di un saggio molto acuto e brillante, apre all’improvviso una prospettiva di pensiero imprevista. Che significa qui “aver successo”? Riguarda forse l’evento del fuori? Il che significa non solo che la tecnica macchinica, pur essendo una realizzazione dell’intelligenza umana, funziona, in quanto tale, indipendentemente da qualsiasi mondo di senso, ma che tale dimensione del fuori possa diventare così potente da riuscire a marginalizzare, a provincializzare il mondo (di senso). Potremmo descrivere tale evento come derivante dalla progressiva autonomizzazione tecnica dell’ambiente di vita che produce nuovi “abiti di vita” tecno-morfi, in cui la dimensione di vita sub-simbolica e non simbolica sia sempre più presente. Ma in tal modo andremmo forse molto più in là delle intenzioni di Derrida.

Quel che egli sembra limitarsi a dire è che non solo Hegel, ma tutta la filosofia fino ad Heidegger, non è stata capace di pensare il “fuori”.

Ciò che Hegel, interprete che rileva tutta la storia della filosofia, non è mai stato in grado di pensare, è una macchina funzionante. Funzionante senza essere in questo regolata da un ordine di appropriazione. Tale funzionamento sarebbe impensabile in quanto inscrive in se stesso un effetto di pura perdita. Sarebbe impensabile come un non-pensiero che nessun pensiero potrebbe rilevare costituendolo come suo proprio altro. In esso la filosofia vedrebbe senza dubbio un non-funzionamento, un non-lavoro ed in tal modo le sfuggirebbe ciò che tuttavia, in tale macchina, funziona. Da solo. Fuori27.

Qui Derrida riprende e, forse, radicalizza un’acquisizione teorica del suo progetto “grammatologico”, progetto in cui il pensiero della différance sembrava aver intrapreso una strada diversa da quella poi percorsa già negli anni immediatamente successivi. Riprendendo una serie di analisi paleontologiche di Leroi-Gourhan28, egli aveva scritto:

Dall’«iscrizione genetica» e dalle «corte catene» programmatiche che regolano il comportamento dell’ameba o dell’anellide fino al passaggio, al di là della scrittura alfabetica, agli ordini del logos e di un certo homo sapiens, la possibilità del gramma struttura il movimento della sua storia secondo livelli, tipi, ritmi rigorosamente originali. Ma non si può pensarli senza il più generale dei concetti di gramma. Questo è irriducibile e inafferrabile. Se si accettasse l’espressione avanzata da A. Leroi-Gourhan, si potrebbe parlare di una «liberazione della memoria», di una esteriorizzazione già da sempre iniziata ma sempre più grande della traccia che, dai programmi elementari dei comportamenti cosiddetti «istintivi» fino alla costituzione degli schedari elettronici e della macchina per leggere, allarga la différance e la possibilità dell’accumulazione in una riserva: questa costituisce e cancella ad un tempo, nello stesso movimento, la soggettività cosiddetta cosciente, il suo logos ed i suoi attributi teologici29.

E qualche pagina dopo aveva concluso, lapidario:

[…] per noi il pensiero è qui un nome perfettamente neutro, un bianco testuale, l’indice necessariamente indeterminato di un’epoca a venire della différance. In un certo modo, «il pensiero» non vuol dire nulla30.

Fin qui Derrida, che scriveva, in ogni caso, in anni in cui il mondo sembrava in pieno ribollio di senso e di avvenire. Forse, nonostante il rigore e la freddezza del suo pensiero, nonostante la radicalità delle sue tesi, inciampò subito in quel ribollio e, dando calore, anche politico31, alla freddezza e alla lucidità di quelle analisi, finì per pensare il movimento della différance come “in qualche modo” riducibile al gioco che fa giocare i mondi. Ma solo “in qualche modo”, perché l’ampiezza di quel pensiero continuò a far sentire la sua presenza, nelle pieghe del suo testo filosofico, come una strada percorsa solo in parte.

Bisognerà riprendere questa strada, perché oggi un pensiero del “fuori” (mondo) per quanto, ne convengo, pieno di insidie e di difficoltà, appare un compito ineludibile e un obiettivo teoretico che bisogna avere il coraggio di perseguire se si vuol comprendere ciò che ci sta accadendo.

Un tale compito dovrebbe tentare di percorrere diverse strade per dare soluzione a numerose domande:

  1. Dovrebbe pensare e costruire una nuova estetica non simbolica32, che possa anche dar conto dell’emersione, per via tecnologica, di un ambito di vita sub-simbolica prima sottaciuto, non visto, strutturalmente rimosso;

  2. Dovrebbe elaborare una filosofia della tecnica che sfugga sia all’antropologismo dello strumento sia alla “teologizzazione” e alla “sostanzializzazione” della Tecnica (pericolo a cui, in fondo, non sfugge del tutto neanche Heidegger, che continua a pensare che la tecnica moderna sia un modo dell’essenza);

  3. Dovrebbe essere capace di ripensare la “finitudine” dei mortali – cui il fuori è del tutto indifferente – come percorso di singolarizzazione dell’esistenza, percorso che accade al limite dei mondi di senso33.

  4. Dovrebbe, infine, e fondamentalmente, elaborare una teoria dell’essere e del divenire pensata al di fuori del gioco della différance, che, per quanto fin qui argomentato, riprendendo tesi heideggeriane, resta ancora viziato da un residuo antropologismo.

Pensare l’evento anche al di là del “gioco dei mondi” può forse voler dire, in conclusione, che anche la questione di come sia possibile pensare e corrispondere al nuovo che trasforma il nostro mondo, la nostra esistenza, la nostra vita dovrà porsi in altro modo. In una maniera oggi ancora difficile da immaginare.

 

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Note con rimando automatico al testo

1 Il testo della vignetta è il seguente: «Vedi, papà, il professor McLuhan dice che l’ambiente che l’uomo crea diventa il suo medium entro il quale deve definire il suo ruolo. L’invenzione dei caratteri a stampa creò il pensiero lineare o sequenziale, separando il pensiero dall’azione. Adesso, con la TV e il folk singing, il pensiero e l’azione si sono riavvicinati e la partecipazione sociale è maggiore. Torniamo a vivere in un villaggio. Ci sei?” (M. McLuhan, Q. Fiore, trad. it. di R. Petrillo, Il Medium è il Massaggio, Feltrinelli, Milano 1968, p. 156-157).

2 Il rimando d’obbligo è a M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, trad. it. di E. Capriolo, Il Saggiatore, Milano 1967.

3 Si tratta, in particolare, di La «différance » (1968), «Ousia» e «grammé». Nota su una nota di «Sein und Zeit» (1968), Il pozzo e la piramide. Introduzione alla semiologia di Hegel (1968), Fini dell’uomo (1968), tutti rifluiti in J. Derrida, Margini - della filosofia (1972), a cura di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997.

4 J. Derrida, Della grammatologia, trad. it. a cura di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A. C. Loaldi, Jaca Book, Milano 1969.

5 J. Derrida, La «différance », in Id., Margini – della filosofia, cit. p. 52.

6 M. Heidegger, Identità e differenza, trad. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2009.

7 J. Derrida, La «différance », cit., p. 53. In Della grammatologia, Derrida, a questo proposito, aveva scritto: «La traccia non è solamente la sparizione dell’origine, qui essa vuol dire […] che l’origine non è affatto scomparsa, che essa non è mai stata costituita che, come effetto retroattivo, da una non-origine, la traccia, che diviene così l’origine dell’origine. […] Se tutto comincia con la traccia, non c’è traccia originaria» (Op. cit. p. 69).

8 Ma la questione dell’inizio può essere può essere ridotta e ricondotta alla questione dell’origine e dell’arché? Cfr. su tale questione cruciale l’ormai classico M. Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano 1990.

9 J. Derrida, La «différance », cit., p. 51; vedasi anche, su questo punto Ousia e grammé Nota su una nota di «Sein und Zeit», in Id., Margini – della filosofia, cit., pp. 103-104.

10 J. Derrida, La «différance », cit., p. 32.

11 La différance , ricordiamolo, come parola può essere solo scritta per manifestarsi, in quanto la differenza tra la “a” di différance e la “e” della parola différence può essere percepita solo nella lettura silenziosa, silenziosa perché priva di phoné, sia pure di quella “interiore”; essa appare solo nel dissidio tra due lettere che all’ascolto appaiono prive di differenza. A ben guardare però la différance non appare solo sul lato della scrittura (e della lettura priva di voce) ma anche necessariamente nella differenza tra la parola parlata e la parola scritta. La différance è anche la différence tra la scrittura e la voce. Attraversa la loro opposizione, la cancella e la fa essere al contempo. Sulla strategia della decostruzione in generale si veda l’importante contributo di M. Vergani, Dell’aporia. Saggio su Derrida, Il Poligrafo, Padova 2002.

12 Vedi, in particolare, J. Derrida, Aporie. Morire – attendersi ai “limiti della verità”, trad. it. di G. Berto, Bompiani, Milano 1999.

13 Cfr. J. Derrida, Sopra-vivere, trad. it. di G. Cacciavillani, Feltrinelli, Milano 1982.

14 J. Derrida, La «différance », cit., p. 54.

15 Ibidem.

16 J. Derrida, La «différance », cit., p. 47.

17Ivi, p. 48.

18Ivi, p. 49.

19Ibidem

20 Rimando soprattutto al testo della famosa conferenza di Heidegger del 1962 Zeit und Sein (trad. it. Tempo ed essere, a cura di E. Mazzarella, Guida editori, Napoli 1980, pp. 97-126).

21 Vedi M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi & C., Milano 1976, in particolare il paragrafo 53 (pp. 316-324).

22 Vedi M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1976, pp. 5-27.

23 M. Heidegger, Il principio di identità, in Identità e differenza, cit. pp. 50-51.

24 Il verso di Friedrich Hölderlin (Wo aber Gefahr ist, wächst / Das Rettende auch), terzo e quarto verso delll’inno Patmos, è più volte citato e commentato da Heidegger, come in La questione della tecnica, cit., p. 22 sgg.

25 J. Derrida, Il pozzo e la piramide. Introduzione alla semiologia di Hegel, in Margini – della filosofia, cit., p. 151.

26Ibidem

27Ibidem

28 Cfr. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, trad. it. di F. Zannino, 2 voll., Einaudi, Torino 1977.

29 J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 98.

30 J. Derrida, Op. cit., p. 111.

31 In Fini dell’uomo, testo di una conferenza dell’ottobre 1968, ma scritta nel mese di aprile, Derrida tiene a precisare: «queste settimane [quelle di aprile], come si ricorderà, sono state anche quelle dell’apertura dei colloqui per la pace in Vietnam e dell’assassinio di Martin Luther King. Qualche tempo dopo, nel momento in cui battevo a macchina questo testo, le università di Parigi venivano invase, per la prima volta su richiesta del rettore, dalle forze dell’ordine, e poi rioccupate dagli studenti nel sommovimento che conoscete» (in Id., Margini – della filosofia, cit., p. 159).

32 Su questa prospettiva di ricerca rimando al percorso da me curato (Per un’estetica sperimentale) all’interno del portale di Kainos. Utilizzo qui l’aggettivazione “non simbolica” – nell’espressione “estetica non simbolica” – con riferimento alla nozione di ordine simbolico proposta ed elaborata da Jacques Lacan. L’ordine simbolico è l’ordine del significante (in continua trasformazione e mai “totalizzabile”) attraverso cui il soggetto “esiste”, nel senso che è rappresentato e si rappresenta in un mondo di linguaggio. Per quanto l’entrata nel simbolico divida il soggetto dalle sue stesse identificazioni significanti (il soggetto umano, come è noto, è, per Lacan, ciò che è rappresentato da un significante presso un altro significante, per cui la sua ricerca di un senso “proprio”, di un “significato” che lo rappresenti senza resti, è infinitamente destinata allo scacco) è pur sempre attraverso un ordine linguistico che articoli, e “manchi” al tempo stesso, la sua contingenza nascente-mortale che il soggetto può condurre un’esistenza più o meno felice. L’aggettivo “non simbolico” intende, invece, l’emergere di “abiti di vita” tecno-morfi de-simbolizzati e de-soggettivizzati in cui le singolarità nascenti-mortali (e mute) non sono più in grado di “esistere”  come rappresentate in un ordine significante, pur essendo in grado di vivere. Questa condizione oggi non sembra più accadere, come forse accadeva un tempo, tra le forme di vita psicotiche (forcluse dal simbolico) e quelle psico-nevrotiche (“soggettivizzate”), ma appare sempre più come una condizione “aggiuntiva” che scinde le nostre esistenze dall’interno, per così dire, e con cui dobbiamo imparare a fare i conti.

33 Mi permetto di rinviare al mio Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene, Mimesis edizioni, Milano 2009.