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Pietà, di Kim Ki-duk





PIETA'

di Kim Ki-duk



 con Lee Jung-jin, Jo Min-soo,
Eunjin Kang

 Corea 2012, 104 min.

 

 

 

 






Dopo circa quattro anni di profonda crisi creativa mista a depressione, stati che non hanno per nulla conosciuto la sperata catarsi con l’operazione sostanzialmente fallita di
Arirang (2011: tentativo di autoconfessione pubblica del proprio disagio seguito all’ormai noto incidente sul set di Dream), il ritorno da regista di Kim Ki-duk ha fatto molto più rumore del previsto, aggiudicandosi il Leone d’oro alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia del 2012. Le contestazioni che hanno circondato la scelta della giuria presieduta da Michael Mann erano ampiamente prevedibili, e non tanto per il film in sé quanto per l’aura maudit che circonda da anni il regista sudcoreano, noto per la sua abilità nel maneggiare le più inverosimili perversioni relazionali e trasformarle in materiale esplosivo di grande effetto visivo. In effetti, un Kim Ki-duk intimista come quello di Arirang sembrava poco verosimile ma soprattutto poco produttivo, per quanto possa essergli risultata utile quella esperienza per il superamento della situazione di stallo. Dopo che Amen (2011) era stato addirittura ritirato dal cineasta insoddisfatto, Pietà sembra davvero qualcosa di simile ad un nuovo inizio, dato che gli spunti principali sono sostanzialmente gli stessi di Ag-o (1996), il suo esordio come regista: una bramosia di denaro incontenibile, la sindrome ossessivo-compulsiva di un malavitoso in carriera nel tentativo di costruirsi una reputazione di persona senza scrupoli, l’impossibilità di coniugare questa sete insaziabile con una dimensione affettiva di cui non si intravede l’utilità pratica e si è perduta del tutto quella morale. Il protagonista è infatti uno strozzino di periferia, appartenente ad una rete di cessione e recupero crediti, che usa metodi  estremi per farsi pagare dai suoi debitori: nella maggior parte dei casi provocando su di loro amputazioni o incidenti debilitanti sui posti di lavoro, in modo da intascare il risarcimento assicurativo. Una donna entra con prepotenza nelle sue giornate sostenendo di essere la madre che lo ha abbandonato quando era piccolo e affermando che adesso intende farsi perdonare per questo, che lui sia d’accordo o meno. Ne segue un comprensibile periodo di conflitto, fra un tentativo di incesto e riparazioni pubbliche a suon di schiaffoni da parte sia dell’uno che dell’altra, al termine del quale lo spietato esattore accetta la presenza della donna, sebbene molti indizi filmici facciano dubitare della parentela. E infatti la donna è in realtà la madre di uno dei tanti perseguitati da Gang-Do (questo il nome del protagonista), che si è suicidato in un modo piuttosto raccapricciante, mostrato come flashback all’inizio del montato, e che sta solo realizzando una lenta e non facile vendetta, destinata a terminare in modo tragico, con la morte di entrambi.

Sappiamo bene come la cinematografia coreana si sia specializzata da lungo tempo in trame basate su meccanismi di vendetta piuttosto complessi e, in certi casi, quasi fumettistici. La vengeance trilogy (2002-2005) di Park Chan-wook, così carica di lirismo visivo, rappresenta il punto culminante di questo fenomeno in anni recenti, ma in Italia è stato possibile ammirare anche l’interessante The Housemaid (2010) di Im Sang-soo, discusso ma riuscito remake del classico Hanyo (1960) di Kim Ki-young, il che significa che da oltre mezzo secolo il cinema coreano si cimenta con la polisemia del concetto di vendetta e si sforza di rappresentarla in molte sue varianti. Ma Kim Ki-duk è cineasta ben noto, e dunque da lui ci si aspetta necessariamente qualcosa di rilevante. In particolare, ci si aspetta un buon intreccio arricchito delle componenti morbose care al regista: perversioni sessuali spinte alle estreme conseguenze, freddezza alla Stroheim nelle tecniche di ripresa e in particolare nei primi piani, progressiva rarefazione delle possibili vie d’uscita dal vortice degli avvenimenti. Tutto questo c’è nel film, e nel complesso questi fattori sono presenti in una miscela equilibrata. Non si capisce dunque tanto accanimento contro la pellicola da parte di critici come Paolo Mereghetti, che a suo tempo si era prodotto in lodi sperticate per lavori come Ferro 3. La casa vuota (Bin-jip, Leone d’argento nel 2004) o La samaritana (Samaria, 2004), e che in questo caso parla invece di un «film fin troppo meccanico» e di «personaggi monocordi»1, come se solo un Bresson potesse permettersi di mostrare soggetti ad espressività fissa, mentre Roberto Escobar ritiene di poter bocciare la pellicola usando come misura di riferimento le trame delle sceneggiate napoletane2! Ma i riferimenti vanno cercati all’interno del percorso filmico fin qui realizzato dallo stesso Kim Ki-duk, che più volte ha dimostrato di saper generare situazioni davvero coinvolgenti esplorando zone difficili della psiche, e con particolare efficacia laddove si tratta di far scattare meccanismi di dipendenza reciproca tra soggetti borderline (L’isola, 2000), oppure di de-eroticizzare simultaneamente sia la sessualità morbosa che l’astinenza totale (Bad Guy, 2001), o anche di dipingere vasi comunicanti nelle rispettive posizioni di disperazione in attesa di un riscatto (L’arco, 2005) o di percezione della noia collegata a questa attesa (Time, 2006). In tutti questi casi si nota la presenza nel meccanismo diegetico di un fattore vittimario privo di ogni componente salvifica; in altri (Samaria, 2004) è presente invece una parabola sacrificale senza una vera e propria vittima, almeno nell’accezione tradizionale del termine. Tutto ciò accade perché a Kim interessa in modo evidente proprio lo spazio che separa questi due estremi: la disponibilità a varcare la soglia della morte in circostanze determinate dall’ambiente sociale o dai comportamenti umani, da un lato; l’inconsistenza di conseguenze significative dopo simili atti in una società indifferente a ogni cosa, dall’altro.

E molto più che in altre opere, decisiva nel trasmettere questa sensazione di smarrimento estremo, di riscatto impossibile, è la scelta di girare nei meandri inumani popolati da questo Lumpenproletariat di periferia, per l’esattezza a Cheonggyecheon, dove il giovane Kim aveva effettivamente lavorato per due anni in una fabbrica locale. Sulla scelta di un luogo tanto “solido”, tetro, opprimente, il cineasta si è così espresso: «Lo spazio è ‘analogico’, è pieno di storia, è il luogo da cui tutto comincia. I protagonisti invece sono ‘digitali’: sembrano non avere memoria, radici, ma solo l’interesse per il denaro»3. Da ciò dipendono due conseguenze decisive e complementari: l’impossibilità di rispondere alla domanda più volte posta da Gang-Do ai suoi “clienti”: «Che cos’è il denaro?» e l’insistenza nell’utilizzare macchine vetero-industriali (torni, fresalatrici, etc.) nel mutilarli o torturarli. È un modo per sottolineare la fatica collegata al lavoro sia degli operai, che si illudono di poter migliorare il proprio status indebitandosi, sia dell’esattore che deve farsi restituire da loro qualcosa che non hanno. Con una tecnica di ripresa tanto elementare quanto efficace, nella prima parte del film Kim Ki-duk enfatizza gli sforzi di Gang-Do nell’esigere una somma da un debitore: ad ogni schiaffo dato con forza al malcapitato sotto gli occhi della madre impotente, la macchina da presa vibra sul proprio asse creando un effetto da soggettiva empatica dello spettatore verso la donna, amplificando le dimensioni del ceffone. Ma non è meno faticoso l’ingresso della presunta madre nella vita quotidiana di Gang-Do, da cui dipende la costruzione di quel legame necessario alla concretizzazione della vendetta.Nella penultima sequenza – nella quale sono mostrati affiancati nella medesima fossa provvisoria i corpi dello strozzino, di Mi-Son (la falsa madre) e del vero figlio (quest’ultimo, per la verità, in condizioni un po’ troppo buone, essendo morto da molto tempo e risultando evidente che il frigorifero nel quale era stato custodito fino a pochi giorni prima era stato usato solo come sistemazione momentanea ma non era alimentato dalla corrente elettrica) – sembra aprirsi per qualche istante uno spazio potenziale per accogliere almeno l’ombra di un possibile sentimento pietoso della donna verso quel «non figlio», come lo ha definito Natalia Aspesi4, e che ovviamente assume la sua massima pregnanza subito dopo la morte di lei. Ma l’esplosione dell’immagine in ipersaturazione del bianco quando si allarga nel totale spazza via anche questa possibilità, e alla fine Gang-Do «si ritrova incapace di lenire il dolore / questa tristezza che divora il cuore»5, come recitano i versi di Paeg’am Sǒngch’ong, grande poeta coreano del XVII secolo, e si incammina verso l’epilogo suicida, unica conclusione possibile.

Il regista ha ripetutamente dichiarato che considera Pietà un film contro il capitalismo. Ma sarebbe più corretto dire che è un film contro l’idolatria del denaro, fenomeno ben più antico del capitalismo. Se poi proviamo ad incrociare certe riflessioni su questo tema con i dati fornitici dall’etnologia, al posto del denaro-moneta possiamo immaginare gli strumenti per la lavorazione del ferro usati dai fabbri Nandi del Kenya raccontati da Hollis, oppure i vaygu’a e le collane di soulava (pietrine di madreperla rosso fuoco) dei melanesiani delle Trobriand che fecero strabuzzare gli occhi a Malinowski, o anche le conchiglie di abalone (Haliotis) dei Kwakiutl e degli Haida resi celebri dagli studi di Franz Boas6. Allora ci rendiamo facilmente conto che il denaro è solo uno fra i tanti strumenti di dominio sociale che, nel momento in cui viene sacralizzato7, può condurre a forme di delirio criminale come quelle di Gang-Do, perfino in gruppi umani che non hanno proprio nulla a che fare con il capitalismo occidentale. È per questo che non c’è risposta alla domanda «Che cos’è il denaro?»: è una domanda alla quale non deve esserci risposta. Invece è evidente il richiamo a componenti religiose, in questa idolatria dei soldi, come altri ce ne sono stati in lavori precedenti. Ma i giornalisti che hanno cercato di far sbilanciare il regista su questo aspetto hanno ottenuto solo una risposta fuorviante: «Io non ho pregiudizi o prevenzioni verso nessuna religione. All’epoca di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera si parlò di film buddista; di La samaritana si scrisse che era protestante; questo ora viene definito cattolico: in realtà sono definizioni riduttive, io ho una mia religione ma non l’ho mai voluta esplicitare»8. Va detto allora che in Corea del Sud il 45% circa della popolazione si dichiara atea, il 26% è buddista mahayana (il tempio monumentale di Haeinsa è patrimonio mondiale dell’Unesco) oppure zen, il 16% si professa cristiana evangelica (la denominazione maggiormente diffusa al 2011 era quella metodista), i cattolici sono il 5%. Nelle campagne e nelle periferie urbane meno sviluppate sono estremamente diffuse forme superstiti dell’antico sciamanesimo locale, che tutti gli studiosi dei fenomeni religiosi in questa area del mondo considerano l’espressione più arcaica della regione (solo in pochi aspetti paragonabile agli sciamanesimi dell’Asia settentrionale) e che a tutt’oggi annovera non meno di un milione di seguaci, anche se in buona parte occasionali. Ebbene, lo sciamanesimo coreano ha al suo centro la donna, la mu-dang, che possiede soprattutto virtù curative, a volte profetiche ed è anche in grado di risistemare rapporti familiari rovinati da qualcuno o da qualche avvenimento9. Dunque, viene da pensare che una matrice culturale nazionale alla base dell’elaborazione del personaggio di Mi-Son debba aver animato la mente di Kim, più o meno consapevolmente, non meno di quanto abbia fatto la visione della Pietà di Michelangelo, da cui è venuta fuori la foto scelta per la locandina. Quella foto è stata scattata prima ancora dell’inizio delle riprese – infatti non ha molto a che fare con la vicenda narrata – ed è poi stata lasciata dal distributore, la Good Films, anche se con l’approvazione del regista, che in quanto pop director non ha alcun motivo di opporsi a certe contaminazioni iconografiche.

Note con rimando automatico al testo

1 “Corriere della Sera” del 04.09.2012.

2 Cfr. “L’espresso” n. 39 (2012), p. 164.

5 In cammino, alla fine della primavera, in: AA.VV., Poesia religiosa coreana, a cura di M. Riotto, Torino, UTET 2004, p. 373.

6 Cfr. A.C. Hollis, The Nandi: their Language and Folk-lore, Oxford 1909; B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific, London 1922; F. Boas e G. Hunt, Ethnology of the Kwakiutl, vol. 2, Smithsonian Institution Bureau of American Ethnology 1921.

7 Anche alcuni oggetti dotati di valore tabuizzante come i fady degli antichi malgasci studiati da Arnold van Gennep (Tabou et Totémisme à Madagascar, Paris 1904), ad esempio, si è poi scoperto che in realtà presentavano diversi usi possibili, alcuni tra i quali sono perfettamente comparabili a quello del denaro nel principio dello scambio secondo il modello occidentale. Diverso è il discorso per quegli oggetti considerati intoccabili perché da essi una popolazione ritiene che dipenda la propria stessa sopravvivenza, come i churinga delle tribù Aranda rese celebri da Durkheim (Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris 1912) e da Strehlow (Aranda Traditions. Landmarks in Anthropology, University of Michigan 1947).

9 Cfr. Li Ogg, Le religioni coreane, in: Storia delle religioni (a cura di H.-Ch. Puech), ediz. ital. a c. di M.N. Pierini, Bari-Roma, Laterza 1978, pp. 217-221. Per dati più recenti, cfr. K. Hee-sung, Religion in Korea, Seul, Ministry of Culture and Tourism 2003.