La soglia della trascendenza

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Note sull’arte e il sacro

 

 
Infine tutto è transitorio e ciò
che resta della vita è l’elemento spirituale.
L’elemento spirituale dell’arte o chiamiamolo
più semplicemente, l’elemento artistico.
In tutto quel che facciamo l’esigenza di assoluto
è sempre la stessa.
Paul Klee

 

 

Premessa

 

Quello che segue è, nella prima parte, un breve excursus, senza pretese di completezza, delle circostanze in cui gli studiosi dei fenomeni artistici di ogni tempo si imbattono nell’osservazione di caratteristiche che, dalla prassi artistica, dallo stile, dalle considerazioni dei contemporanei riguardo alle opere, rimandano alla condizione spirituale di artisti e fruitori, all’attitudine di una civiltà verso l’immagine e verso il divino. Ma spesso gli storici dell’arte si trovano ad analizzare l’opera di artisti che, tacitamente o con profusione di scritti teorici, alludono a un carattere immateriale, trascendente o pienamente mistico dell’atto creativo. Non è possibile in tal caso evitare di interrogarsi, come si è cercato di fare nelle parti successive, sul significato di queste dichiarazioni di intenti o confessioni creative. E d’altra parte è suggestivoconfrontare le parole degli artisti e quelle dei filosofi.

Si è privilegiato il passato nella trattazione. O meglio, il passato remoto e qualcuno dei “padri” del secolo scorso, in quanto, sia per la parte che ebbero nell’aprire l’arte all’orizzonte della scienza e della filosofia, fino a riconquistarle un valore di “via alla verità” e in taluni casi un’intensità squisitamente spirituale, sia a causa dell’influenza esercitata sui loro contemporanei e successori, rivestono un ruolo insostituibile nella comprensione dell’elemento trascendente nell’arte contemporanea.

 

 

Oriente e Occidente

 

La considerazione della natura animata delle immagini fatte da mano umana, nei monoteismi ebraico e islamico, può essere ben esemplificata dal modo di neutralizzarne il potere evocativo della vita, considerato blasfemo perché in gara con l’opera del Sommo Artefice, cioè con il creato, attraverso stratagemmi di tipo linguistico che si trovano in entrambe le tradizioni semitiche.

Nella miniatura islamica la proibizione di rappresentare creature viventi, osservata rigidamente per la decorazione delle moschee1, è ignorata, e l’interdizione si restringe alla sola figura del Profeta, che viene rappresentato con il volto sostituito da una fiamma o da una campitura lasciata in bianco. Il procedimento equivale a una cancellatura, operata sull’elemento considerato essenziale e vitale, il viso, ed è curiosamente analogo, ma di segno opposto, all’abrasione di bassorilievi e busti che nel mondo romano sanciva la damnatio memoriae, riservata a defunti imperatori, i quali di norma erano divinizzati dopo la morte.

Gli scrittori della Kabbalah2, la mistica ebraica, raccontano di come fosse stato possibile ad alcuni rabbini, studiando la Torah e le combinazioni dei nomi di Dio fino a ricavarne formule magiche, infondere la vita vegetativa e talvolta anche l’uso della parola a una scultura di forma umana plasmata con argilla, il Golem. I racconti concordano nel descrivere le capacità di servitore semistupido di tale creatura, che cresceva fino a superare pericolosamente il suo artefice. Questi però, avendo apposto sulla sua fronte la parola verità, composta di quattro lettere, emet, nell’infondergli la vita poteva, cancellandone la prima e mutandone il significato in morte - met -, sortire l’effetto di farlo crollare a terra. Con l’unico rischio di vedere punita la propria hybris ed essere schiacciato dai resti del gigante.

I cabalisti tuttavia negavano che il Golem potesse avere un’anima, che proviene solo da Dio, e l’intero artificio era considerato un esperimento blasfemo, abbandonato dopo ammonizione divina.

La palese analogia tra l’elemento alfabetico e il volto della figura nei due casi riportati dimostra come l’immagine avesse valore di segno e l’immediatezza della sua funzione denotativa, la presenza dello sguardo, turbasse la sensibilità dei musulmani, soprattutto in relazione a quanto potevano vedere nelle chiese degli infedeli, le icone. La blasfemia cristiana era dunque combattuta; a sua volta il culto dell’immagine nell’Impero bizantino venne messo in discussione proprio a partire da ambienti anatolici e nell’epoca della prima grande espansione musulmana, l’ottavo secolo.

D’altra parte la stessa analisi rimanda all’importanza in entrambe le culture semitiche della parola scritta e del suo suono pronunciato. Nel mondo islamico la calligrafia fu un’arte tenuta in altissima considerazione, se non ritenuta l’arte per eccellenza, e praticata, come la danza nel mondo asiatico, anche dai membri dell’aristocrazia, con risultati di eccezionale virtuosismo e grande varietà stilistica. La decorazione epigrafica delle moschee era infatti l’unica consentita, insieme a quella puramente formale dell’arabesco, ossia della geometria fondata sul numero e sulla proporzione matematica. In entrambi i casi il godimento della bellezza creata dall’armonia compositiva era consono alla lettera coranica, in cui la bellezza (al jamal), intesa come armonia, è attributo di Dio e a Lui gradita. La matematica è per i musulmani il linguaggio di Dio nella creazione e l’intelligibilità della forma geometrica, nel suo rispondere a un’equazione algebrica, risponde alla dottrina del tawhid, l’Unità divina, per cui tutto ciò che può e deve essere rappresentato è, in funzione anti-naturalistica, la vera realtà divina, la pura bellezza astratta; nello stesso tempo la regolarità e l’aniconismo garantiscono che, pur nella complessità lussureggiante dello sviluppo della decorazione, sia rispettato il principio della povertà (faqr), ossia la concentrazione dell’anima sulla predetta realtà divina e non sulla ricchezza mondana3. Anche l’uso dell’oro nelle monumentali calligrafie a mosaico delle moschee ommayadi, safavidi e mongole, è giustificato in funzione estetica e non suntuaria4.

Nel Corano, a proposito della creazione, si dice che Dio creò innanzitutto il calamo (qalam), la canna opportunamente e sapientemente tagliata per la scrittura calligrafica, e solo quando iniziò a scrivere con esso il racconto della creazione, il mondo ebbe inizio. La più importante manifestazione per i sapienti arabi della concordanza tra la razionalità del creato, nella sua forma geometrico-matematica, e la bellezza divina, è nello spettacolo del firmamento. Nell’uso “mondano” della pittura, le eccezioni contemplate alla proibizione di rappresentare i viventi erano, significativamente, previste per scopi scientifici e astronomici – i trattati di anatomia e botanica e la rappresentazione delle costellazioni, secondo l’iconografia di derivazione greca e persiana. Nell’ultimo caso, come in quello sopra ricordato della miniatura di carattere narrativo, la rappresentazione è comunque anti-naturalistica, bidimensionale e convenzionale, poiché cerca di rappresentare non la realtà come essa appare, ma un ideale mondo paradisiaco5. La ricerca della precisione matematica nella trasposizione figurativa delle costellazioni, cui pure veniva riconosciuto un valore magico, rispondeva all’imperativo di comprendere il linguaggio divino, l’armonia delle sfere celesti. La piena assimilazione della scienza ellenistica di matrice aristotelica da parte degli arabi e, grazie a loro, la rinnovata penetrazione del pensiero greco nell’Occidente cristiano, fu in certa misura agevolata dal carattere intellettualmente curioso e pratico delle élites musulmane, ma anche dalla visione monolitica della loro religione, che, negando un’immagine e quindi una mitologia ad Allah, e legandone interamente espressione e potenza alla Parola e al suo suono (il Corano salmodiato), consentiva di ricondurre l’universo alla realtà divina senza negarne la complessità e l’intelligibilità. La rappresentazione fenomenica non interessa mai gli artisti islamici, presi a rappresentare la bellezza delle forme razionali, o illustrare il raffinato ritmo della poesia. Anche nell’architettura, dove il vuoto è più importante del pieno, la policentricità della moschea, che predilige il ritmo e sembra circondare, da ogni parte identica, il fedele, rimanda al Corano: «Ovunque vi volgiate, ivi è il volto di Allah»6. L’ubiquità del divino, invisibile eppure presente, contrasta con lo slancio volontaristico ed eroico dell’architettura gotica verso il cielo; anche l’uso di nervature e cupole è molto diverso: la calotta semisferica islamica, spesso aperta in un oculo sommitale, sembra discendere verso il basso, avvolgente come la volta celeste. Per la mentalità islamica, “le pietre non volano”: si può traforare e rendere diafana la superficie con i muqarnas, profusione di nicchie che moltiplicano la forma del mihrab, ma la vasta staticità dello spazio dove si recita la preghiera, la sacralità della terra ricoperta di tappeti, su cui ci si prosterna, è la dimensione del sacro nell’Islam.

 

La nascita di una forma rigidamente tipizzata di oggetto cultuale bidimensionale che, nei primi secoli del Cristianesimo, soppianta e quasi sostituisce nell’Impero bizantino l’idolo di tipo pagano - statua a tutto tondo di grandezza naturale o colossale - corrisponde anche nell’Europa occidentale ad un mutato rapporto con la produzione di immagini. La statuaria di soggetto sacro ricomparirà circa otto secoli più tardi. L’origine formale dell’icona è stata identificata da Hans Belting7nelle forme di ritratto funerario tardo romano e di quello, ad esso geneticamente collegato, del santo della comunità, di cui era venerato il sepolcro. La natura di memoria dell’icona non viene mai meno, e proprio l’essere intesa come ritratto di persona reale scatena la polemica iconoclastica. Tuttavia, per tempo rispetto allo scoppiare della questione politico-liturgica nell’Impero bizantino, nel III e IV secolo i Padri greci si erano preoccupati di iscrivere la giustificazione del culto reso all’icona nell’ambito della disputa sul monofisismo, facendo chiarezza sulla doppia natura umana e divina del Cristo, l’una necessaria all’altra nell’economia della salvezza, dal momento che l’Incarnazione - natura umana - rende possibile il sacrificio e dunque la redenzione - il fine del Logos. Allo stesso modo, l’icona è resa possibile dall’Incarnazione, e la sua funzione viene definita analoga a quella del Cristo stesso, che è icona di Dio (“chi vede me vede il Padre mio”). Si sancisce così il valore di medium dell’icona e la legittimità di un culto che all’adorazione e al meccanismo sacrificale, pagano e politeista in genere, dello scambio fra il mondo degli dei e quello degli uomini per il mantenimento della “pace” naturale, ossia della tregua con la Natura tremenda e ostile, sostituisca la contemplazione dell’Altro assoluto. Un sacrificio asimmetrico e non riscattabile ha infatti già garantito la salvezza e la pace.

Mentre la presenza della statua classica è incombente e minacciosa, e pertanto nascosta all’interno della cella del tempio, accessibile solo ai sacerdoti che amministrano il culto sacrificale e la funzione oracolare, l’icona si caratterizza come presenza nella maniera più forte, ma accogliente8: in cima all’iconostasi rivolta verso l’assemblea, o al centro del catino absidale, culmine dell’architettura sacra; non è insignificante che gli occhi degli dei antichi non guardino altro che un orizzonte lontano e appaiano, persa la colorazione originaria, vuoti, mentre l’icona, rappresenti essa Cristo, la Vergine o un santo9, tenda a fissare lo sguardo sullo spettatore. Uno sguardo a cui non ci si può sottrarre, che crea lo spazio sacro a partire dalla bidimensionalità più stretta, e che invita alla preghiera, inaugurando un’asse Io-Tu, in cui il secondo termine è posto al di là della membrana luminosa della sua immagine (l’Ipostasi rappresentata), ma è come immagine che si rende accessibile, amabile, interrogabile. Il peso di questa relazione, in cui il Tu ha valore di ‘oltre’ e di superamento dei limiti storici e umani, di meta di quell’eccesso dello spirito descritto dai mistici che nessuna oggettivazione o movimento dialettico può soddisfare, viene portato, d’ora in avanti, dall’artista chiamato a realizzare l’immagine sacra - e in seguito l’opera d’arte in senso moderno, in cui lo spirito cerca il proprio ‘oltre’.

Nel mondo classico il ruolo dell’artista - architetto, scultore e solo marginalmente pittore - era quello di realizzare il simulacro, ma anche rilievi votivi e decorazioni, secondo i canoni estetici riconosciuti dalla comunità, che però, pur lodandone il genio e tramandandone la gloria, non attribuiva il valore della sua opera se non alla capacità mimetica e illusiva. Tale visione riduttiva, di origine aristotelica, accompagnerà come uno stigma le arti “meccaniche” e sancirà il suo massimo successo dal barocco in poi - l’arte come illusione piacevole e utile - , riassorbendo la valenza rivoluzionaria sia del naturalismo caravaggesco, che segna un ritorno eterodosso alla logica iconica attraverso la drammatizzazione della luce in funzione tragica, sia della stessa poetica barocca del meraviglioso. L’immaginario ritroverà cittadinanza critica con il romanticismo, dopo la secolarizzazione totale del razionalismo settecentesco, che aveva portato a compimento la sostituzione definitiva dell’arte sacra con l’arte edificante di matrice tridentina e sancito la perdita dell’aura dell’opera d’arte, ben prima della sua riproducibilità tecnica10.

Nel mondo cristiano, il monaco iconografo11era investito della missione ascetica di purificarsi e di nutrirsi della contemplazione delle icone più antiche, le acheropite, al fine di fare spazio nella sua mente alla bellezza del canone, depositario della verità dell’immagine stessa e pertanto infrangibile. Tuttavia la sua perspicuità creativa, la sua perizia tecnica e gusto cromatico erano richiesti e apprezzati e giustificati come un devoto esercizio di una facoltà dello spirito, la capacità immaginativa, che pure richiamava la somiglianza tra uomo e Dio, fondamento dottrinale dell’arte stessa, non solo nei suoi prodotti iconici, ma nella sua stessa prassi. Analogo iter ascetico e concettuale è descritto da AnandaK.Coomaraswamy12, per la creazione dell’icona hindu, poiché nel pensiero indiano l’uomo, e in particolar modo l’artista incaricato della produzione di icone, deve farsi simile alla divinità attraverso la meditazione per poterne rappresentare la forma simbolica, lungamente contemplata e assorbita, codificata dal mito e canonizzata dalla tradizione.

Ora, l’essenza dell’icona è trascendente, ma la sua energia è presente al mondo13. L’attività di questa energia nell’icona si esplica anche attraverso la bellezza dell’immagine, intesa in senso radicalmente diverso dalla bellezza classica14, senza che però si dia una cesura completa tra il sistema estetico greco-romano e quello cristiano. È stato riconosciuto15che il mondo romano al volgere del II secolo conosceva già un nuovo Kunstwollen e che il sistema di valori estetici si era spostato sul suo asse, abbandonando il canone della purezza formale apollinea, del corpo atletico e della naturalezza, accentuando in chiave neoplatonica tutti i tratti della figura umana che denotassero l’attività dell’anima - occhi mani mimica - : si iniziava così una deformazione espressionista e una scala dimensionale di tipo simbolico che agiranno nell’arte cristiana fino al XIV secolo16. Ancora alla fine del Medioevo, nonostante l’espressione di una composta e intima serenità raggiunta nella statuaria del gotico maturo, le correnti mistiche del cristianesimo incontrarono la sensibilità popolare e l’impulso penitenziale degli ordini mendicanti, dando vita a forme esasperate di rappresentazione del dolore nell’immagine stessa di Cristo crocifisso. Ciononostante, non viene messa in discussione la bellezza della carne in quanto rispecchiante quella dell’anima, né il sistema decorativo e costruttivo dell’arte classica, che ugualmente giungerà pressoché intatto al Rinascimento. La bellezza dell’icona consisteva pur sempre nell’utilizzare la grammatica formale e cromatica classica, di cui rimangono tracce evidenti e a più riprese riemergenti (periodo post-iconoclastico; rinascenzapaleologa17) nell’andamento sinuoso delle figure, nella ricerca di vigore plastico, nel bilanciamento monumentale delle composizioni. Tuttavia, il senso dato a questa grammatica, la fissità delle proporzioni canoniche contrapposta al moto vitalistico e organico dell’arte antica, è funzione del destinatario dello schema iconico, l’interiorità del fedele, che esso crea, nel momento in cui ne intercetta l’occhio. Nell’interiorità così ottenuta come spazio sacro, la bellezza dell’icona agisce come sedativo dei sensi che, ammaliati, si abbandonano all’alterità assoluta, e impigliati nella griglia lineare-cromatica il cui potere armonico li seduce,possono dimenticare il mondo fenomenico. È così che lo spirito del fedele sperimenta un excessus contemplativo e mistico, la presenza del divino in sé, in modo simile a ciò che avviene nella meditazione yogica e zen, dove la mente fa presa su se stessa per guardarsi come specchio del divino e con ciò liberarsi dal contenuto esterno, alleggerirsi e riposare nel vuoto di determinazioni18.

Tuttavia nel mondo indiano la meditazione è un esercizio che ha per fine la contemplazione di un assoluto nulla, nella cui ineffabile indeterminazione tutto l’essere confluisce19,per cui il supporto materiale alla meditazione, l’immagine scolpita o dipinta è priva agli occhi del devoto del valore di presenza e di ogni autonomo potere salvifico, tanto meno della proprietà taumaturgica che nel cristianesimo si attribuisce all’icona, al pari della reliquia e del reliquiario che la contiene. Anzi, in una civiltà molto meno “materialistica” di quella occidentale, il livello superiore dell’esperienza contemplativa prevede proprio il distaccarsi dalla necessità di mezzi materiali, quali le immagini, e l’addentrarsi in uno stato di assoluta libertà dalle percezioni. Quanto il valore delle immagini dipendesse dall’uso del devoto e della comunità, è dimostrato dalle cerimonie di “apertura” e “chiusura” degli occhi delle divinità, che ne sancivano la sacralizzazione e successiva sconsacrazione, dopo la quale l’oggetto sacro ritornava oggetto tout court, passibile di distruzione20.

 

 

La forma e i mondi possibili

 

Nel suo saggio Lo spirituale nell’arte21, pubblicato nel 1911, Kandinskij afferma che l’uomo dotato di uno spirito superiore alla massa del suo tempo porta avanti una solitaria opera di pioniere, facendo avanzare il vertice del triangolo antropologico alla cui base è la moltitudine degli uomini comuni. Il suo destino è il fallimento nella contemporaneità, ma le generazioni successive accederanno a più alte forme artistiche a partire dal riconoscimento della sua opera. A muoverlo è la necessità interiore, principio infondato simile alla libertà kantiana, che muove l’utilizzo selettivo che Kandinskij fa delle forme naturali e il conseguente passaggio a quelle astratte, attraverso un progressivo raffinamento della sensibilità nella grammatica compositiva. Già per Goethe22l’arte imita la natura nella sua produttività infinita, ed in questa capacità divina e autorigenerantesi risiede la sua verità. C’è continuità, del resto, tra la concezione iconica e scolastica dell’arte e quella romantica, in entrambe essendo il carattere sacro dell’atto creativo riconosciuto come viatico per il superamento di un limite di carattere gnoseologico.

Dal canto suo Paul Klee teorizza una genesi “cosmica” delle forme, elevando la natura a infinito serbatoio generativo di ogni possibile esperienza creativa, una natura però interna alla percezione psichica, che indaga la geometria del continuum spaziale, delle leggi formative che costruiscono il cosmo a partire dal caos: questo teatro delle forze naturali elementari costituisce il campo d’azione dell’artista, il cui tentativo di ordinare i mezzi figurativi “ideali” secondo la loro potenzialità espressiva e costruire un “pensiero immaginale” è trasmissibile per exempla nell’insegnamento, come testimonia la sistemazione degli scritti per gli studenti del Bauhaus.

Essendo la lingua divina dell’icona perduta per l’uomo moderno, che vive l’assenza del sacro, scomparso dall’orizzonte tecnicizzato della società capitalistica, alcuni artisti sentono l’esigenza di una dimensione spirituale del processo creativo, di cui avvertono il persistente mistero23, come già i romantici, e tentano di costruire ipotesi interpretative non già del senso del mondo, di cui ormai non possono ravvisare alcuna funzione, ma del senso dell’arte stessa24, verificando con i mezzi teorici a loro disposizione la possibilità di una nuova lingua universale che abbia sullo spirito la presa sufficiente ad aprirgli una finestra sulla vera essenza delle cose, un “varco” verso il superamento della superficie fenomenica. La bellezza ricercata dagli astrattisti è la risonanza spirituale, ma anche la forma in cui il ribollire brulicante della natura si cristallizzi in ordine, la pacificazione armonica che permetta di guardare alla molteplicità infinita ricreandola nel gesto, senza interromperla. «Porre ordine al movimento» del mondo, questo lo scopo del pittore moderno, «al di là del pathos», scrive Klee nei suoi diari25, come si diceva che Ingres avesse «posto ordine alla quiete». Negli scritti più famosi e programmatici, la Confessione creatrice e Sull’arte moderna26, Klee tenta di chiarire la propria ricerca, variando il consueto sistema dell’enunciazione aforistica dei principi, cui segue more geometrico la dimostrazione sviluppata attraverso esempi concreti. Il lavoro del pittore consiste nellosperimentare le possibilità degli elementi formali – punto linea chiaroscuro colore – non tanto di combinarsi fra loro come le note musicali, secondo il modello compositivo kandinskijano, armonizzante e serenamente interno all’iocomeres cogitans27, quanto di sviluppare le loro intrinseche proprietà nel movimento, che crea lo spazio tridimensionale e non prospettico, nel conato all’esistenza che è proprio della materia e di cui la forma, anzi la figura (Darstellung), è diagramma e risultato. La morfogenesi che è l’arte stessa, «non ripete le cose visibili, ma rende visibile» il mondo. A questa frase, che apre la Confessione creatrice, segue un racconto sull’evoluzione degli elementi grafici che, come frasi musicali adeguatamente interpretate, descrivono il viaggio verso «una migliore conoscenza», come un percorso nella natura familiare – la campagna – e misteriosamente lontana: «sul nostro capo ancora qualche stella (una seminata di punti)». Poco più avanti aggiunge che «da elementi formali astratti (…) viene infine a crearsi un cosmo formale, il quale mostra tali somiglianze con la Creazione, che basta un soffio per attuare l’espressione del religioso, la religione». È con intento ironico che l’artista si paragona al creatore? O cerca di minimizzare il “pathos” della lotta per conservare la duplicità dell’io e dell’opera nell’unità dello spazio del quadro? Scrive Klee: «L’io e l’opera si guardano l’un l’altra».28

Abbandonata da lungo tempo la funzione edificante assegnata all’arte dal Cristianesimo moderno, le avanguardie europee resuscitano la funzione gnoseologica della visione artistica. In più punti dei Concetti introduttivi alla teoria della figurazione, Klee ritorna sul duplice aspetto dell’analogia fra creazione artistica e creazione universale e della valenza di scandaglio dell’essenza della materia, della sua genesi, della ricerca che il pittore conduce, con “ardore solo nell’intimo”, e con mezzi matematici, per imparare a “vedere dietro la facciata, ad afferrare le cose alla radice”, ma anche “a star desti, a familiarizzarsi col corso della storia”. Storia naturale infinita siintitola il primo capitolo della Teoria della figurazione, e Klee, appassionato collezionista di naturalia, parla del caos primigenio e di sé come artista - caos egli stesso - , ma soprattutto «creatura vivente su un astro tra gli astri», che perviene, sulla via che conduce oltre le esperienze ottico-fisiche grazie alla legge matematica della funzione, a «trarre conclusioni sull’interno dell’oggetto, per intuizione». È questa “interiorizzazione visuale” che pone

 

l’io e l’oggetto in un rapporto di risonanza che trascende i fondamenti ottici. (…) la via non-ottica della comune radice terrestre che dal basso sale all’occhio dell’io (…) e della comunanza cosmica, che proviene dall’alto: vie che, congiuntamente, sono metafisiche29.

 

Lo spazio “sacro” è così ricreato, l’interiorità è quella stessa che lo schema iconico inaugurava, ma alla mistica presenza divina si è sostituito il mondo, la cui visione interiore si coagula «in libere immagini astratte, le quali attingono, trascendendo il voluto e lo schematico, una nuova naturalezza». L’artista «crea allora un’opera oppure partecipa alla creazione di opere a immagine e somiglianza delle opere di Dio»30. Sebbene la critica recente31sia poco incline a indulgere nella visione di un Klee “mistico”, e prevalga piuttosto una visione analitica del rapporto tra l’io e il mondo fondato sull’astrazione nella sua pittura, vale la pena di ricordare come alcuni studiosi di Heidegger32 abbiano posto in relazione la conoscenza degli scritti di Klee e soprattutto della sua opera da parte del filosofo tedesco, e lo sviluppo delle tesi del saggio Sull’origine dell’opera d’arte.

La proposta metafisica dell’arte di Klee, che vuole sondare la possibilità generativa di altri mondi33,poiché ritiene di aver trovato la via di accesso all’essere nell’espressione dei “mezzi immateriali”, sembra trovare una risposta nella correlazione tra arte e verità schizzata da Heidegger nel saggio del 193534. Qui il filosofo afferma che l’opera d’arte espone un’apertura dell’essere dell’ente, e mostra la vera essenza delle cose nella loro immagine-presenza (non immagine-copia). Nell’opera si dàl’evento della verità, il non-nascondimento dell’ente che, nella dinamica tra darsi e ritrarsi che rende possibile l’apertura come evento, tra ciò che viene illuminato e il fondo oscuro su cui sorge, tra Mondo e Terra, pone la bellezza nell’apparire tra dono e diniego, lo straordinario che emerge dall’abituale. Klee aveva scritto:

 

la bellezza che forse non bisogna separare dall’arte, non riguarda tanto l’oggetto, quanto la rappresentazione. In questo e in nessun altro modo l’arte supera il brutto senza sfuggirlo. Si abbandona il mondo di qua e si costruisce in un’altra regione alla quale si può pienamente assentire. Astrazione. Il freddo romanticismo di questo stile senza pathos è straordinario.Quanto più spaventoso il mondo (come è appunto oggi) tanto più astratta l’arte. Un mondo felice, invece, genera un’arte volta all’al di qua35.

 

L’ansia di Klee di stabilire le leggi funzionali, di «rendere essenziale il fortuito»36, includere l’irregolarità nel processo di crescita organico delle forme e descrivere la conquista dello spazio dell’opera, che anima la Gestaltungslehre,sembra tendere alla stabilità dello stare aperto dell’essere nell’opera. In apparente contraddizione, il suo insistere sulla transitorietà e sul divenire delle forme, sulla Gestaltungcontrapposta alla staticaForm, sembra invece trovare consonanza nella tensione tra svelamento e nascondimento che è l’essenza della verità, di cui l’opera, per Heidegger, è una storicizzazione.

Se inoltre Klee appare come “profeta” di una visione dell’arte a nostro avviso non senza similitudini con ciò che di lì a pochi anni cercheranno di realizzare i maestri della Scuola di New York, guardando alle sue dichiarazioni teoriche attraverso la lente dell’ascesi meditativa orientale non si può far a meno di notare una convergenza tra la valenza liberatoria, cioè annullante l’individualità, e pertanto salvifica, dell’atto contemplativo-creativo dell’artista indiano eil movimento mentale “inclusivo” del pittore che, risalendo geneticamente la storia degli oggetti e iscrivendo la coscienza in un continuum spazio-temporale creato dall’opera stessa, si fa «tronco» e si pone come mediatore tra «radici» e «chioma»37, della cui bellezza non è responsabile, perché l’opera «non è la legge», «essa è al di là della legge»38, dove la legge è da intendersi come la coscienza ordinante dell’artista.

 

 

Il silenzio dell’arte e il rumore del mondo

 

La New York degli anni Trenta e del dopoguerra, con il suo perbenismo borghese, l’oppressione maccartista e le laceranti disuguaglianze sociali, ma anche con le prime fasi della produzione di massa e della propaganda consumistica, vede la generazione di artisti nati all’inizio del secolo maturare il proprio rifiuto delle convenzioni sociali e soprattutto estetiche dell’alta società, di cui fanno parte i collezionisti e i direttori dei musei. La “moda europea”, inaugurata dall’Armory Show nel 1913, aveva reso il gusto dei magnati e dei critici americani sensibile all’avanguardia europea; con i soggiorni di Duchamp, apprezzato e “inteso” dal pubblico statunitense come cubista, dei surrealisti e di Mondrian, gli artisti americani poterono assorbire l’atteggiamento “modernista” del fare (e disfare) arte, ma vissero anche l’ansia di emanciparsi dalla sudditanza psicologica verso i grandi europei. Alla ricerca di autonomia intellettuale e al disagio sociale si somma in alcuni casi un esplicito desiderio di esplorare con l’arte altri, nuovi territori, secondo il mito americano della frontiera, ma intesa come trincea dello spirito, che cerca una verità da opporre alla falsità del mondo, alla molteplicità frastornante e avvilita delle sue immagini-prodotto, così come all’estetica del lusso che si va affermando nei buildingscostruiti dagli architetti di fama del Vecchio Continente per le grandi compagnie, dove troneggiano le opere osannate dei recenti maestri europei. Non è casuale che artisti di origine ebraica come Barnett Newman e Mark Rothko abbiano fondato un’arte “religiosa” sul ripensamento dell’astrazione in chiave mistica e anti-costruttivista.

Rothko tenta di immergere lo spettatore in una luce che ne riveli l’essenza e al tempo stesso lo redima; ma egli non è il solo chiamato a perdersi nella percezione ipnotizzante di un’immensa macchia di colore, fatta di finissime velature sulla tela. Creando enormi campiture di colore con una tecnica delicatissima, che lascia sempre intravedere la trama della tela sottostante, come se un’immagine fosse proiettata su uno schermo cinematografico, l’artista è necessariamente così vicino alla superficie da non poter vedere nient’altro che il suo colore:

 

I quadri che dipingo sono molto grandi. So bene che storicamente dipingere grandi quadri ha significato assolvere una funzione legata alla pompa e alla sontuosità. Tuttavia, la ragione per cui io li dipingo (…) è diametralmente opposta: il mio intento è l’intimità e l’umanità (…). Un quadro di grandi dimensioni, in qualunque modo lo si dipinga, permette al contrario di far parte di esso. È ineluttabile39.

 

Da un lato riappare dunque un’idea dello spazio che include la coscienza dell’artista e dello spettatore. Dall’altro Rothko insisteva sulla teatralità delle sue opere come eventi inaspettati:

 

I quadri devono essere miracolosi. Nell’istante in cui un quadro è terminato, ha fine l’intimità fra la creazione e il suo creatore. Il creatore diventa esterno alla sua stessa opera. Per lui, come per chiunque altro, il quadro dovrà essere una rivelazione, la soluzione inattesa e inedita ad un problema che da sempre gli urge dentro. Riguardo alle forme: sono elementi unici in una situazione unica. Sono elementi volitivi che amano affermarsi. Si muovono nella libertà interiore40.

 

Quello che si vuole sottolineare è come le più essenziali affermazioni di Klee e Kandinskij echeggino in questi scritti, vòlti spesso a difendersi dalla critica contemporanea, mentre altrove Rothko e Newman parlano della fredda razionalità dell’astrattismo europeo, in particolare di Mondrian, e del formalismo della critica anglosassone41, come di uno svuotamento dell’opera del suo contenuto espressivo e della necessità di reintrodurre un soggetto, ossia fare dell’opera un simbolo, il veicolo di un’idea: “Non esiste buona pittura sul nulla”42. Per il giovane Rothko, amante dei tragici greci e conoscitore di mitologie primitive, la verità della condizione umana è la posta in gioco dietro ogni narrazione mitica. Da junghiano, sembra convinto che il solo titolo dato all’opera, ad esempio il Ratto di Persefone di Gottlieb, e le sue caratteristiche formali, possano far deflagrare di fronte allo spettatore il senso ultimo del mito, riposto nel suo inconscio. L’unico legame genetico che entrambi gli artisti accettavano era infatti quello con i Surrealisti, pur mostrandosi critici sugli esiti tecnici del realismo onirico e considerandolo una concessione tutta europea alla seduzione della realtà. A questo proposito Rothko scrive:

 

Accetto la realtà materiale del mondo e la sostanza delle cose (…) Insisto sulla parità dell’esistenza del mondo generato dalla mente umana e del mondo generato da Dio al di fuori di essa. Se ho esitato a usare oggetti quotidiani è perché mi rifiuto di mutilarne l’apparenza a beneficio di un’azione che non possono più svolgere, o per la quale forsenon sono stati concepiti. (…) Il surrealista ha svelato il vocabolario del mito e ha stabilito una corrispondenza tra le fantasmagorie dell’inconscio e gli oggetti della vita quotidiana. Questa corrispondenza costituisce l’esperienza euforicamente tragica da cui l’artista attinge il proprio materiale. Ma io ho troppo a cuore sia l’oggetto che il sogno per vederli dissolvere nell’inconsistenza vaporosa del ricordo e dell’allucinazione. L’artista astratto ha conferito consistenza fisica a troppi mondi, a troppi tempi invisibili. Non condivido la sua negazione dell’evento, né tantomeno la sua negazione dell’esistenza materiale della totalità del reale. L’arte è per me un evento dello spirito: solo nell’arte lo spirito trova la sua forma concreta e il senso della sua vivacità e della sua quiete43.

 

Per l’artista si tratta di definire e realizzare un’arte che superi radicalmente ogni oggettività ponendosi come evento dello spirito, che dia una forma nel mondo a vivacità e quiete, stati e movimenti, non sostanze. È un modo di pensare analogo a quello che Heidegger adopera di fronte al problema di definire l’Essere senza oggettivarlo nell’ente e ricadere così nella metafisica tradizionale: l’evento, l’accadere, è come la luce che rende visibili le cose, è dunque ciò che le fa essere, che si svela e ritrae nel tempo storico. Se per Heidegger la parola poetica è deputata ad avvicinarsi all’Essere, forzando i limiti del linguaggio, per Rothko la luce dai contorni sfuocati conduce l’occhio oltre i suoi limiti fisici, e la techne/ars pittorica si riafferma come via alla verità, come poiesis.

Nel breve saggio di Michael Butor del 1968 sull’opera di Rothko, Le moschee di New York44, l’autore si avvale di una metafora ispirata al titolo di un celebre racconto di Lovecraft, per definire la luce dei quadri di Rothko, la vibrazione cromatica che agisce sul quadro come “corrodendolo” dal centro verso i margini, “il colore venuto dallo spazio”. Questo bagno tintorio “alieno” assume agli occhi di Butor una connotazione purificatoria e distruttiva al tempo stesso.

 

Rothko saprà dare alla luce captata dal suo schermo un carattere di estraneità e, come di conseguenza, ne farà regredire l’origine il più lontano possibile, rendendo la propria arte una sorta di preghiera a un dio sconosciuto. (…) La luce ci viene presentata come attiva (…) le macchie si ingrandiscono a poco a poco fino a divorare tutta la superficie della tela, lasciando sussistere unicamente il margine che occorre loro per apparire come macchie45.

 

E il colore di questo margine, dove ancora non accade niente, non vibra la prossimità della luce, è definito da Butor il colore «della notte che precede l’annunciazione», «sorta di luce nera», o ancora il mistico «colore dell’attesa». Altrove nel saggio Butor, parlando di Bianco e verdi su Blu, del 1957, fa riferimento alla spazialità creata dal colore, dal «differenziale cromatico fra le due macchie di colore» che invita lo spettatore a entrare nella luce, come una «scala di Giacobbe», tesa verso il cielo46.

Rifiutando di consegnare ai committenti della Seagram Company il meditatissimo ciclo di opere richieste per il lussuoso ristorante Four Seasons, progettato da Philip Johnson all’interno del grattacielo in Park Avenue47, Rothko, nel 1958, sembra voler prendere le distanze dal carattere di luccicante ricchezza e aristocratica monumentalità dell’International Style, così come dall’idea di musealizzare e rendere così beni di lusso le sue opere, che avrebbero seguito il destino dei capolavori europei ostentati dai proprietari nel ristorante. Butor contrappone il grido dell’opera di Pollock presente nel Seagram Building, che si difende eroicamente dal chiacchiericcio circostante del pubblico del ristorante, al silenzio mortale delle opere di Rothko, il cui scopo era opporsi al rumore, fermare lo spettatore in ascolto, interromperne il discorso e farlo pensare. Ma esse sarebbero perite nel diventare un pezzo, accademicamente perfetto, di quel “museo”.

Tuttavia, nel lavorare alle tele, Rothko aveva escogitato una forma luminosa rettangolare, «l’anello di fiamma» che «viene a circondare lo spettatore», il quale si trova dalla parte del margine scuro, che è l’al di qua, il mondo circostante, e «si presenta come una porta attraverso cui lo spettatore stesso è invitato a entrare per raggiungere un’altra regione»48.

Realizzandole e negandone la consegna49, la loro clamorosa assenza dalla sala da pranzo ne ribadiva il potere di giudizio, dichiarando la differenza tra il luogo dell’opera e il luogo – banale – della realtà. Il carattere di presenza/assenza del trascendente proprio della vuota maestosità delle moschee è stato perciò paragonato da Butor alla ricerca di Rothko50. Non a caso nella successiva collaborazione con Philip Johnson, architetto allievo di Miesvan derRohe, le quattordici opere murali create da Rothko nel 1967 per una sua cappella a Houston, nel Texas, trovarono la giusta dimensione nel luogo di culto. Dopo il suicidio dell’artista, nel 1970, l’insieme venne intitolato RothkoChapel.

 

La realtà viene dunque sentita come un limite da superare, una materia su cui incidere fino a ottenere un’apertura istantanea. Barnett Newman, l’altro grande esponente del gruppo newyorkese e teorico della Color Field Painting, coniuga l’interesse per la Torah e il Talmud alla lettura di Burke e Kant, da cui desume l’idea che anima il breve scritto programmatico The Sublime isnow, del 194851. Accogliendo la distinzione tra la ricerca del bello e quella del sublime come tendenze contrapposte che scorrono sotterranee nella storia dell’arte, Newman rifiuta decisamente l’ideale greco di «innalzamento» ottenuto attraverso la perfezione della forma, il «feticcio della qualità» che ha secondo lui impedito all’arte europea di «attingere il sublime», a causa del «desiderio cieco di esistere nella realtà sensibile (il mondo oggettivo, sia esso puro o distorto) e di costruire un’arte inscritta nella cornice di una pura plasticità (…) costituita indifferentemente, da una superficie dinamica romantica o da una statica classica»52. Altrettanto insoddisfatto «dell’universo di vuoti formalismi geometrici – una retorica pura di relazioni matematiche astratte», che ha solo irretito l’arte nella inutile battaglia «sulla natura della bellezza: se il bello fosse nella natura o al di là di essa», Newman afferma, per sé e i suoi compagni di viaggio:

 

Invece di costruire cattedrali su Cristo, sull’uomo o sulla ‘vita’, le stiamo traendo da noi stessi, dai nostri stessi sentimenti. L’immagine che produciamo è quella ‘autoevidente’, reale e concreta, della rivelazione53.

 

Non manca una certa furia nella volontà di affrancare l’arte dalla realtà: «L’impulso primario dell’arte moderna è consistito precisamente in questo desiderio di distruggere la bellezza»54. Le maggiori lodi sono infatti per gli artisti che, come Picasso, hanno cercato di comprendere e imitare l’arte primitiva, incurante della bellezza perché ancora magico-sacrale55. In L’immagine plasmica del 1945, Newman aveva individuato nell’espressionismo la cifra dei nuovi artisti:

 

I migliori esponenti americani (…) erano capaci di trasmettere una emozione intensamente percepibile che sfiorava le profondità dell’intimo. Si trattava di una tendenza rischiosa, perché l’enfasi sul sentimento aveva la tendenza a escludere il contenuto intellettuale. (…) bisognerebbe dire che si tratta di attingere un sentimento attraverso un contenuto intellettuale. Le nuove opere hanno dunque carattere filosofico56.

 

Con parole di risonanza kleeana, Newman afferma:

 

tutti gli artisti, rozzi o raffinati che siano, si trovano a commerciare con il caos (…) nel tentativo di andare al di là del mondo visibile e conosciuto [l’artista] lavora con forme che lui stesso ignora (…) Non importa che gli psicologi si ostinino a voler indicare l’origine di queste forme nell’espressione dell’inconscio. Il pittore (…) è del tutto estraneo a questo meccanismo; qui risiede la profonda differenza tra lui e i surrealisti57.

 

Infine, il termine plasmico «traduce la caratteristica di questa arte poiché implica (…) l’ostensione in simboli tangibili di un’idea o un concetto intimo», contrapposto a plastico, che sottende «la glorificazione delle forme che ci sono abituali, la presentazione di un contenuto abbellito e ingentilito in modo da esercitare il suo impatto attraverso la seduzione dei nostri sensi»58. Sembra di sentire Bernardo tuonare contro i troppo plastici scultori romanici, ma anche un’eco della ripulsa semitica verso l’arte dei gentili.

Jean-François Lyotard, scrivendo di Newman in occasione della mostra Le temps: regardssur la quatrièmedimension tenuta nel 1984 al PalaisdesBeaux-arts di Bruxelles59, articola la nozione dei “luoghi di tempo” connessi all’opera d’arte, ossia delle dimensioni temporali che vanno dal tempo della creazione a quello della fruizione, a quello, ancora, del contenuto della narrazione. Contrapponendogli Duchamp, quale artefice di meccanismi narrativi che mostrano l’assurda incongruenza e casualità della percezione temporale, il non ancora e il non più che non si incontrano mai, Lyotard chiama Newman l’angelo, il messaggero che è egli stesso messaggio, intendendo che «per Newman, il tempo è il quadro stesso». «Una tela di Newman oppone alle narrazioni la sua nudità (…) Tutto è presente: dimensioni, colori, tratti, senza alcuna allusione»60. L’opera lascia i commentatori senza parole, perché lo stupore è l’espressione dell’uomo davanti al sublime. L’istante non si può “consumare”, l’occorrenza è fuori del tempo, o meglio, essa pone il tempo. Scrive Lyotard:

 

Lo spazio di Newman non è più tragico, come se fosse instanziato su un destinatore, un destinatario e un referente. Il messaggio non ‘parla’ di niente, non deriva da nessuno. Non è Newman a ‘parlare’, a far vedere per mezzo della pittura (…) esso dice eccomi, cioè: io sono per te oppure: Sii per me. Due istanze –io e te – insostituibili e che hanno luogo solo nell’urgenza del qui e ora. Il messaggio è la presentazione, ma del nulla, cioè della presenza. Questa organizzazione ‘paradigmatica’ è molto più vicina all’etica che a qualsiasi altra estetica o poetica61.

 

Di nuovo uno spazio istituito dall’asse Io-Tu, come nello schema iconico. All’eternità del divino si sostituisce l’apertura dell’istante, il «fulmine», ciò che accade «al centro dell’indeterminato» e non è mai nel tempo. Anche senza rispolverare l’interpretazione di Thomas B. Hess62circa l’uso cabalistico fatto da Newman dei simboli e dell’influenza della mistica ebraica nella sua ricerca, Lyotard ammette che la “presenza” del quadro di Newman si erge, come la voce del Signore nei momenti tragici della Bibbia: più suono che immagine, anzi, evocazione e contrario e per negazione del sublime inesprimibile, come già accennato da Kant63. La volontà di Newman di captare la presenza dell’essere, nel riconoscere l’insufficienza di ogni mezzo residualmente figurativo, così come di ogni narrazione/enunciato, sfocia nella ricerca, erronea secondo Lyotard64, del senso di sé nell’essere. Nel testo che accompagnava il progetto per una sinagoga, nel 1963, Newman scriveva di voler creare un luogo in cui si rispecchiasse il comandamento Sappi davanti a chi sei, con un mound centrale, un tumulo su cui pende l’energia dello Tzim-tzum, il ritrarsi e manifestarsi insieme della potenza divina che, secondo la Kabbalah, dà luogo alla creazione. Secondo Lyotard, in ogni opera Newman tenta di testimoniare l’inizio, l’attimo in cui l’essere si manifesta all’imperativo: Sii. La risposta al grido Lamma Sabachtani (“Dio, perché mi hai abbandonato?”), sottotitolo della serie di quattordici Stations of the Cross, esposta al Guggenheim di New York nel 1966, trova una risposta nell’opera presentata insieme alle Stations con il titolo Be II , e chiamata da Hess nella sua monografia First Station.

Dall’epifania “intima” dell’icona l’artista che cerca l’essere è giunto alla “presentazione” del comandamento come pura vibrazione cromatica, evento intercettato dalla superficie attinica della tela, e alla materia, cui si nega una forma propria, resta soltanto uno statuto di traccia e, infine, di medium di una contemplazione, non di oggetto di un giudizio estetico, così come avviene nel pensiero religioso indiano. Se l’aura benjaminiana è la «lontananza», per quanto vicina ne sia la materia, dell’opera «cultuale»65, ènella tensione infinita ad avvicinarne l’essenza che si definisce lo spazio sacro. Nell’arte irrituale e mistica del ventesimo secolo, l’aura è l’istantanea scattata all’essere e alla coscienza che si fronteggiano.

A partire dal 1963 Donald Judd, per sua stessa ammissione debitore di Newman, trasporrà nei suoi specificobjectsil senso della presenza dell’assoluta alterità nello spazio stesso dello spettatore, ispirando forse l’incipit dell’Odissea kubrickiana.

 

 

Arte e non più arte

 

Se il pensiero degli artisti arriva a toccare nel Novecento temi filosofici, o meglio teologici, è però dalla seconda metà del Settecento che la filosofia ha scoperto l’arte come suo oggetto. L’estetica come filosofia tipica della modernità è una conseguenza dell’arretrare del pensiero di fronte alla pretesa di esaustività della scienza da un lato, e dell’aprirsi della storia come teatro della ragione morale, dall’altro. Per Odo Marquard66entrambi gli aspetti hanno le loro radici nell’idealismo trascendentale kantiano, che delineando i confini della ragione e i limiti della sua pretesa di verità, ha altresì sondato l’impotenza della ragion pratica a realizzare il regno dei fini, pervenendo alla soluzione di fondare la legge morale sul “come se”, dunque su una finzione. Nella lettura di Marquard, per il Kant della terza Critica il Bello come simbolizzazione del bene sopperisce nelle intenzioni, attraverso il potere universalizzante del giudizio disinteressato, alla debolezza della legge morale, ma nei fatti apre la strada alla visione conservatrice dell’arte bella come «sedativo al cospetto della mancanza di prospettive» o «surrogato della realizzazione politica, della ragione storica».67

Tuttavia, già con Hegel la filosofia della storia non ha più bisogno dell’arte bella e così l’arte “estetica”, cioè l’arte moderna dal romanticismo in poi, che cerca di creare il bello ex nihilo o attraverso il ricorso del genio alla natura salvifica, si presenta come compensazione della fine dell’arte. Le teorie estetiche conservatrici e anti-utopistiche del Novecento (C. Enzensberger, J.Ritter, lo stessoMarquard) hanno ripreso il pensiero di Hegel e le critiche da lui mosse al sistema dell’identità di Schelling, che intendeva riassorbire la realtà nel cammino di autodispiegamento creativo dell’Io, e che, non a caso, aveva ispirato la ricerca dell’opera d’arte totale di Wagner. Per Marquard, al quale si deve la categoria di compensazione sopra citata, il sospetto hegeliano di fronte all’idea di opera d’arte totale contenuta in germe nella filosofia dell’arte schellinghiana va di pari passo con la sua ammissione del fine non salvifico dell’arte stessa, conseguente al suo declassamento, che mette capo alle forme d’arte moderne. Queste cancellano il confine tra realtà e opera d’arte: tutto può essere arte. E, aggiunge Marquard, la teoria romantica della natura come serbatoio dell’anti-realtà, la non-storia cui attinge il genio per creare, trova la sua demistificazione e insieme il suo completamento nella teoria freudiana dell’inconscio. Confondendo con una certa disinvoltura il concetto freudiano di sublimazione e quello di rimozione, Marquard nel suo Il significato della teoria dell’inconscio per una teoria dell’arte non più bella68, afferma che l’arte è una delle forme con cui le pulsioni rimosse, cioè la natura, ritornano nella storia, e all’estetica “doppia” del bello e del non-bello (sublime) che inaugura il periodo post-artistico, affianca la considerazione extraestetica dell’arte non più bella, come fenomeno psicopatologico.

Una considerazione a nostro giudizio ben più profonda e articolata della relazione tra arte e realtà da un punto di vista psicoanalitico è contenuta nel saggio di Massimo RecalcatiIl miracolo della forma69, dove la sublimazione è ricondotta alla corretta interpretazione freudiana di una diversa e differita forma di soddisfacimento della pulsione, che non comporta rimozione, né idealizzazione dell’oggetto del desiderio, ma genera il tempo stesso della creazione artistica come tempo di realizzazione socialmente accettabile dell’Io e di tregua nel suo rapporto con la Cosa (dasDing). All’interno della sua rilettura delle implicazioni estetiche della teoria lacaniana, Recalcatiindividua,sulle orme di Sartre,un nesso tra l’immagine bella e la protezione dall’orrore della realtà – il Bello come scongiuro – e tra la sublimazione artistica e l’elaborazione del lutto, il lavoro nel tempo che rende possibile un tempo oltre la perdita della realtà. La nascita – miracolosa – della forma artistica è per Recalcatiil risultato delle operazioni di riduzione spinte sempre più a fondo sulla materia e sulle strutture simboliche del linguaggio, attraverso cui artisti quali Tàpies, Morandi, Burri, Pollock e Kline mettono in atto le loro “poetiche del reale”. Analizzate attraverso gli strumenti delle tre estetiche lacaniane – il vuoto, la tyche, la lettera – queste scavano una trincea attorno alla Cosa, costeggiandone il “vuoto” rendono kleeanamente visibile l’invisibile, innalzano l’oggetto “alla dignità della Cosa”, usano l’anamorfosi e la funzione quadro per realizzare l’urto perturbante (lo Stoss heideggeriano) del reale nell’opera, corrono il rischio costante di perdere l’immagine, e con essa il velo che consente di guardare il reale senza distruggersi, fino a giungere ad un’immagine-segno, lettera senza codice, “sinthomo” dell’uomo-artista che in esso si riconosce, e che Recalcati stesso definisce “icona scissa dal coinema” (secondo il lessico di F. Fornari). Benché non esplicitamente, Recalcatisembra ammettere che il valore della tensione tra forza e forma sottesa costantemente alla creazione artistica, che quando è veramente tale non cede né all’ossessione metafisica della disgiunzione tra forma e materia, né all’imposizione psicotica del reale informe nell’opera, sia un valore in senso stretto, ossia un segno dell’umano, proprio in quanto la sublimazione è una «possibilità inedita della pulsione»70. Del resto l’autore si esprime chiaramente nel senso di una “meta più ambiziosa”: «trovare immagini per raffigurare l’irrafigurabile. In questo senso l’opera implica sempre una dimensione sacra, se per sacro si intende l’apertura a ciò che va al di là di ogni possibile apertura»71. Il grande Altro, che nell’accezione leggermente ambigua e polisemica usata da Recalcati vale per tradizione da infrangere, Nome del Padre da oltrepassare nel processo di soggettivazione, linguaggio preesistente che definisce e condiziona originariamente il soggetto72,è, come del resto dasDing, a nostro avviso difficilmente scindibile da un carattere trascendente, misto di tremendum et fascinans, che serpeggia anche nelle pagine dedicate a un artista come Burri, il quale non rinunciava all’affermazione della bellezza come assoluto valore nelle proprie opere. Ricavata non attraverso la ripulsa della materia, ma anzi, nel corpo a corpo di distruzione e ricomposizione – bruciature e cuciture, tagli, deformazioni e collages – essa è la rivelazione faticosa e mai indolore della forma come rivelazione dell’umano e dell’oltreumano insieme, del Mondo nella Terra.

 

 

Conclusione provvisoria. Il passato e l’illusione.

 

Se Hegel tuonava contro la filosofia dell’Assoluto di Schelling come la “notte in cui tutte le vacche sono nere”, e Marquard ha ironizzato sugli artisti impegnati la cui ricerca dell’opera d’arte totale, ossia della vita come opera, diverrebbe «l’ufficio liturgico» di una «nuova religione»73,con un significativo riferimento a Joseph Beuys, Anselm Kiefer ha detto in un intervista del 200774:

 

Le frontiere –fatte di apparenze – che abbiamo costruito in Occidente, per esempio le costellazioni astrali, il concetto di ragione prima, poi il “cogito ergo sum” di Cartesio, e ancora il dogmatismo della Chiesa cattolica e la sua sanguinaria estromissione delle eresie, sono costruzioni illusorie che servono solo a sopravvivere in un mondo privo di un senso percettibile.(…) Credo che gli scrittori e i pittori interessanti abbiano a che fare con la mitologia. La perseguono. La mitologia è un campo enorme che bisogna continuare a esplorare. Come loro cerco di spiegare in modo non scientifico (perché la scienza non ci riesce) gli enigmi del mondo. E girandomi all’indietro proprio mentre lo faccio, mi proietto nel futuro. È logico. L’oblio e il ricordo sono legati – è paradossale, ma è un dato di fatto.

 

Ritroviamo un’analogia tra l’oscillare del mitografo-artista tra passato e futuro e la condizione finale del lutto elaborato: l’oblio necessario a che si ristabilisca una memoria vitale. Più avanti Kiefer mostra il suo debito verso una spiritualità non occidentale, spaziando con disinvoltura dall’epopea di Gilgamesh alla New Age:

 

Nel progetto perfetto della natura, nulla muore, oppure secondo DeepakChopra “nella realtà profonda al di là dello spazio e del tempo, siamo forse tutti membra di un unico corpo”…questa è la versione orientale della vita dopo la morte…illusione anche qui?

 

Non è un mistero che l’artista tedesco si sia interessato, tra l’altro, alla Kabbalah, alla mitologia greca e teutonica, all’alchimia e alla meditazione yoga, e abbia trasposto nella sua opera termini e concetti provenienti da questi ambiti, servendosene come di tituli apposti alle sue immagini, quasi fantasmagorie di oggetti caricate così di risonanze, illuminanti proprio in virtù del loro potere di assorbire lo spettatore nella loro forma, ora potente ora soave, e astrarlo dal tema dichiarato. Facendo di sé stesso, fin dall’inizio della sua carriera, parte della propria opera, Kiefer si è più volte rappresentato in śavāsana, come archetipo della relazione uomo-cosmo. La meditazione, figura dell’indistinguibilità di vita e morte, sembra essere la cifra del rapporto di Kiefer con il reale, stratificazione di simboli e storie che velano la medesima verità – il nulla –al di là di tutte le trasformazioni, eterne ed infinite, della maya, accolte infine con naturalezza per ciò che sono nel pensiero indiano: il passo necessario verso la liberazione dall’ignoranza. Da ogni simbologia, da ogni mito, da ogni immagine creata come segno a partire da oggetti materiali e suggestioni formali, la mente è condotta più in là, a staccarsi dalla consuetudine fenomenica verso la conoscenza dell’identico a sé stesso. A questo proposito aveva ancora ragione Nietzsche nell’affermare che «solo come fenomeno estetico l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati»75.


Note al testo

1 L’interdizione, contenuta negli hadith, i detti del Profeta, e rafforzata dalla massima di Abu Dawud, secondo cui “gli angeli non entrano in un luogo dove sono rappresentate figure”, è intesa ad evitare che si possa rivolgere la preghiera ad altro che a Dio, e quindi cadere nell’idolatria. Tale è infatti considerato nell’Islam sia l’uso dell’immagine come strumento di meditazione, mero simbolo, secondo il principio della rassomiglianza ideale con la divinità, come è nell’induismo, sia la sua elevazione a contenitore dell’essenza divina, sua epifania in terra, che avviene nel Cristianesimo. Secondo AnandaK.Coomaraswamy (in La trasfigurazione della natura nell’arte, Abscondita, Milano 2007), la rappresentazione della divinità in immagini è bisogno umano che si manifesta in ogni religione. Ma la confusione di tipo “linguistico”, propria dei monoteismi e del cristianesimo in particolare, tra il valore denotativo e immediato dell’immagine, quale segno della presenza divina, e quello di simbolo che rimanda “anagogicamente” alla divinità, secondo il movimento “metaforico” dell’intelligenza angelica, ha condotto alla controversia sulle immagini stesse, caricate di un potere eccessivo. D’altra parte, nel pensiero di MeisterEckhartCoomaraswamy ravvisa un interessante parallelo dell’attitudine verso le immagini propria del pensiero indiano: la teorizzazione dell’esperienza estetica come via di accesso alla comprensione del mondo sub specie aeternitatis, ossia dell’aprirsi istantaneo della prospettiva divina nella mente del fedele “rapita” dall’opera d’arte. Per Eckhart, l’artista può, se dirige correttamente e liberamente le sue facoltà, far vedere il volto autentico delle cose, nella misura in cui ne attinge una conoscenza simbolica (paroksat) e non fenomenica (pratyaksena). La coscienziosa e disinteressata manipolazione della materia, l’aderenza alla forma ideale e il piacere spirituale del processo creativo sono paragonate alla auto-contemplazione della mente di Dio.

2 G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980, pp. 201-257.

3 Per la comprensione dei caratteri propri dell’arte islamica, si rimanda al saggio ormai classico di TitusBurckhardt, L’art de l’Islam, del 1985, ed. it. L’arte dell’islam, Abscondita, Milano 2002; si sono tenuti presenti anche SeyyedHosseinNasr, Principles of Islamic Art, in “Journal of the Iqbal Academy Pakistan”, vol. 43, nº 2, aprile 2002, consultabile all’indirizzo http://www.allamaiqbal.com/publications/journals/review/apr02/ e A. Spinelli, Arte islamica. La misura del metafisico, Fernandel Scientifica, Ravenna 2008.

4 È con movimento concettuale analogo che, a partire dal XII secolo, nell’Europa cristiana si afferma una giustificazione teologica dell’uso dei materiali preziosi e dei vetri colorati per la creazione di oggetti quali i reliquiari e la suppellettile liturgica e nella decorazione delle cattedrali: l’abate Suger a Saint Denis, com’è noto, recuperò l’ideologia neoplatonica dello Pseudo Dionigi per collegare la proprietà della materia alla sua valenza simbolica, sovrapponendo alla qualità visibile, il colore, la virtù anagogica di rivelazione della natura divina. Cfr. E.Panofsky, Suger, abate di saint Denis, in Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino 1999, pp.123-133.

5 A tal proposito si può ricordare che la nozione corrente di un’influenza islamica sul naturalismo dell’arte sveva, la cui matrice è tutta di recupero dell’arte romana, sia piuttosto da ricollegare, secondo il famoso ea quaesuntsicutsunt, allo spirito spregiudicato che muoveva gli astronomi e i medici arabi nello studio delle opere scientifiche greche e nell’osservazione della natura, pur senza intenti di rappresentazione illusiva.

6 Sacro Corano, Sura II, vers. 115.

7 H. Belting, Il culto delle immagini, Carocci, Roma 2004, pp. 105-132.

8 La statua del dio posta in un luogo pubblico, spesso nel cuore della polis, come nel celebre caso dell’Atena crisoelefantina di Fidia, non instaura però una relazione devozionale con il popolo, ma materializza la protezione divina e insieme sostanzia l’identità della polis: visibile e significativa soprattutto per i non-ateniesi, non a caso posta sull’acropoli per essere avvistata da lontano.

9 Anche quando l’icona “rappresenta” un mistero, come la Trinità di Andrej Rublev, lo sguardo che unisce i tre angeli, le tre Persone, dà luogo ad una spazialità che risucchia lo spettatore in un colloquio interiore. Questo equilibrio tra silenzio e comunicazione ha sempre affascinato gli studiosi di Rublev. Cfr. P. Eudokimov, Teologia della bellezza, Ed. Paoline, Roma 1971, pp. 279-295.

10 W. Benjamin, L’ opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000. L’altro volto della neutralizzazione moderna del carattere sacro dell’opera d’arte è la posizione hegeliana che, sancendo l’impossibilità di attingere – o rivivere – la “suprema determinazione” dell’arte del passato, ossia dell’arte classica guardata attraverso le lente miope dell’ideologia winckelmanniana, colloca il presente e la storia dell’arte post-classica in un limbo di indefinita decadenza. Hegelnega all’arte romantica – e a tutta l’arte post Christumnatum– la possibilità del bello e quindi il superamento della realtà (il brutto), a causa della sua eccessiva interiorizzazione del disincanto del mondo, consegnando il fare artistico all’inconsistenza che segue la fine dell’arte.

11 P. Eudokimov, op. cit., pp. 249-253.

12 A. K. Coomaraswamy, op. cit., p. 127.

13 P. Eudokimov, op. cit., pp.210-215.

14 La scoperta del canone estetico dell’icona è stata possibile in Occidente grazie agli scritti di Pavel Florenskij, in particolare Le porte regali. Saggio sull’icona, risalente al 1921-22, ed. it. a cura di E. Zolla, Adelphi, Milano 1977.

15 A. Riegl, Problemi di stile, Feltrinelli, Milano 1963; Id. Industria artistica tardoromana, Sansoni, Firenze, 1953. Per la storicizzazione della successione di sistemi formali nell’arte, e la riflessione sulle ragioni intrinseche dell’evoluzione formale, cfr. H.Wölfflin, Concetti fondamentali della storia dell’arte, Abscondita, Milano 2012 e H. FocillonVita delle forme, Einaudi, Torino, 1999.

16 L’arte medievale che porta segni di questa istanza anti-naturalistica sarà di grande interesse per gli artisti post-impressionisti. Suggestioni dell’arte celtica si trovano nella fase bretone di Gauguin e nel giovane van Gogh sono presenti tentativi di creare un’arte “popolare” con una semplificazione tettonica delle forme paragonabile a quella degli scultori romanici. Van Gogh scrisse in una lettera al fratello Theo che il suo scopo iniziale, l’anelito originario della sua arte era “dipingere il volto dei santi” (Lettere a Theo, Pironti, Napoli 2003, p. 152). Non è un caso, inoltre, che gli espressionisti francesi e tedeschi degli anni Venti e Trenta siano stati accostati e si siano sentiti affascinati dall’arte romanica di area franco iberica, la cui discussa matrice formale è stata cercata a sua volta in remoti originali barbarici (Cfr. L. Grodecki, F. Mütherich, J. Taralon, F. Wormald, Il secolo dell’anno mille, BUR, Milano 1996, pp. 339-348). Che sia stato l’impatto con l’arte dei barbari - animisti - ad agire sul Kunstwollen dei primi secoli cristiani o che il mondo romano, pervenuto autonomamente ad una crisi di valori religiosi e ad un nuovo bisogno estetico, abbia dato vita a forme che furono poi assorbite dalle sopraggiunte popolazioni nord orientali nel loro processo di appropriazione della nuova religione mediterranea, è problema controverso, ma troppo ampio per questa sede.

17 V. Lazarev, Storia della pittura bizantina, Einaudi, Torino 1967.

18 Si può istituire un paragone tra la meditazione yogica e il carattere contemplativo ascetico, o meglio di distoglimento progressivo della percezione in opere di artisti americani, alcuni di origine ebraica, quali BarnettNewmann, Mark Rothko, Ad Reinhardt, nelle quali l’intento del trattamento della superficie pittorica è di assorbire l’attenzione dello spettatore fino a concentrarne la percezione sui passaggi cromatici infinitesimali, distogliendolo dall’oggetto osservato in sé e quindi da sé stesso, in un processo ipnotico.

19 Come ricorda Coomaraswamy nel suo saggio La trasfigurazione della natura nell’arte, nella concezione religiosa hindu la molteplicità delle forme naturali, dagli animali ai fenomeni atmosferici, che costituisce la maya, più che nel significato di illusione maligna e “velo” della verità diffuso nell’interpretazione occidentale e schopenhaueriana, è intesa come l’insieme delle forme visibili che il Signore (Isvara/Visnu) assume “per gratificare i suoi adoratori” (op. cit., p. 28 e 125), i quali devono tornare attraverso esse a Lui. Il processo comprende anche le innumerevoli persone divine, emanazioni mitiche del Brahman, per cui, secondo Coomaraswamy, considerare l’induismo una religione politeista, almeno nei suoi principi, costituisce un’ingenuità (ivi, p. 121). La nota formula contenuta nella Bhagavad Gita, attribuita a Krsna, recita: «Tutti gli uomini, o Arjuna, seguono la mia strada. Quale che sia l’idea con la quale gli uomini si rifugiano in me, io assumo, per favorirli, l’aspetto corrispondente.»(Bhagavadgita. Il canto del Beato, ed. it. a cura di R. Gnoli, UTET, Torino 1991, Quarta Lettura, § 11.)

20 Cfr. A. K. Coomaraswamy, op.cit., p. 129.

21 W. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 2005.

22 J.W. Goethe, Massime e riflessioni, a cura di S. Seidel, Theoria, Roma 1983; Id., Semplice imitazione della natura, maniera, stile (1789) in Scritti sull’arte e sulla letteratura, a cura di S. Zecchi, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

23 P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, vol. I, Il pensiero immaginale, a cura di Marcello Barison, Mimesis, Milano-Udine 2011, p. 461: “La forza creativa non si può definire: essa permane in ultima analisi misteriosa.”

24 Per una trattazione complessiva delle origini e dello sviluppo delle correnti artistiche novecentesche si rimanda al saggio di Werner Hofmann, I fondamenti dell’arte moderna, Donzelli, Roma 1996, che è stato alla base delle riflessioni contenute in queste note, e al sempre valido studio di Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 1998.

25 P. Klee, Diari 1898-1918, il Saggiatore, Milano 2010, anno 1914, p. 314.

26 Saggio apparso in “TribünederKunst und Zeit”, ed. Erich Reiss, Berlino, 1920; Conferenza tenuta a Jena nel 1924, e pubblicata postuma nel 1945 a Berna, ed. Benteli. Edit. in Teoria della forma e della figurazione, vol. I, Il pensiero immaginale, a cura di M. Barison, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 76-80 e 81-95.

27 Vale la pena di ricordare la lettura dell’arte astratta kandinskjiana come “arte concreta” data dal nipote AlexandreKojève, in un saggio del 1936 dal titolo Le pitture concrete di Kandinskji(ed. it. a cura di Alfonso Cariolato, Abscondita, Milano 2004). Egli ne afferma lostatuto ontologico, secondo la definizione hegeliana,in sé e per sé,dal momento che i suoi quadri sono oggetti dotati di realtà propria, oggetti di primo grado, non rappresentazioni, mediate e necessariamente ridotte nella loro complessità fenomenica dalla soggettività parziale dell’artista. Con movimento che sorprese lo stesso Kandinskji, come si evince dal carteggio fra i due, Kojève ribalta così sulla pittura mimetica e figurativa l’accusa di astrattismo, argomentando che le forme geometriche e gli accordi cromatici dello zio sarebbero dotati di autonomo valore di bellezza oggettiva anche senza di lui, il quale più che autore ne diventa malgrésoi il mezzo realizzativo, una mera condizione di esistenza, quasi un parallelo un po’ riduttivo e assai meno lirico della chioma dell’albero della metafora di Klee citata più avanti in queste note. È significativo notare che le opere di Kandinskji che più si prestavano alla concezione di «opera totale» che Kojève aveva in mente, quale opera d’arte del futuro post-storico nella società senza classi, sono quelle degli anni Venti e Trenta, in cui l’artista compone poche forme geometriche pure e regolari in quadri di formato ampio, vicini in qualche modo al Suprematismo, ma anche alla grammatica surrealista di Mirò, mentre andava approfondendo negli scritti teorici la sua scienza della composizione, ma anche la sua personale psicologia della forma. Non a caso sono le opere su cui maggiormente si dirigeranno gli strali polemici del rifiuto del modernismo europeo da parte degli artisti americani del secondo dopoguerra.

28 P. Klee, Concetti introduttivi alla teoria della figurazione. L’orientamento dello spazio nell’opera d’arte, in Teoria della forma e della figurazione, vol. I, Il pensiero immaginale, cit., p. 57.

29 P. Klee, Vie allo studio della natura, in Teoria della forma e della figurazione, vol. I, Il pensiero immaginale, cit., pp. 66-67. Il saggio fu pubblicato per la prima volta in «Staatliches Bauhaus Weimar 1919-1923» edito dal Bauhaus a Weimar, e da Karl Nierendorf a Colonia, Bauhausverlag, Weimar/München, 1923

30 P. Klee, op. cit., p. 67.

31 Un’interpretazione di tipo storico, divenuta “classica”, dell’opera e della dimensione esistenziale di Klee è contenuta nella prefazione di G.C. Argan all’edizione italiana della Teoria della forma e della figurazione, a cura di M. Spagnol e R. Sapper, Feltrinelli, Milano 1959 e nell’introduzione ai Diari, cit., pp. VII- XVI. Ripercorrendo il cammino delle sue esperienze artistiche giovanili, nel rapporto con i grandi maestri italiani e tedeschi e nel nesso nietzscheano-wagneriano delle sue letture di giovane musicista e poi nell’incontro con il gruppo di Kandinskij e Marc, Argan delinea qui la nascita dell’io-Dio e la necessità di abbracciare la natura nell’opera, ancora carica di pathos romantico, di cui, poi, vorrà disfarsi. La dissertazione di dottorato di Carmen Metta, Forma e figura. Una riflessione sul problema della rappresentazione tra Ernst Cassirer e Paul Klee,Quodlibet, Macerata 2009, è stata fonte di preziosi spunti di approfondimento durante la stesura di queste note. L’autrice illumina i rapporti tra la concezione di simbolo in Cassirer come forma propria della conoscenza intellettuale libera/superiore, e quindi segno arbitrario, e la pluridimensionalità simultanea dell’opera in Klee quale affrancamento della rappresentazione dalla mimesi e dalla misurazione delle cose, facendo risalire il procedimento “filosofico” di entrambi alla comune meditazione sul calcolo integrale e sulla teoria dello spazio continuo di Leibniz. La percezione d’espressione cui perviene Cassirer è per Metta risultato analogo all’affondare della prassi genetica del pittore verso la funzione puramente espressiva della forma, (i “modi d’espressione” o “risonanze espressive”), preliminare ad ogni contenuto di significato, che costituisce la vitalità originaria dell’io nel suo includere il mondo con l’atto figurativo.

32 G. Seubold, Gli appunti postumi di Heidegger su Klee, in C. Fontana, (a cura di) Paul Klee. Preistoria del visibile, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 1996, pp. 103-108.
Cfr. anche l’articolo di Tony Lack, Martin Heidegger, Paul Klee, Antoni Tapies and the art of nature, consultabile all’indirizzo http://www.academia.edu/2404148/Heidegger_Klee_Tapies_-_Draft.

33 P. Klee, Sull’arte moderna, in Teoria della forma e della figurazione, vol. I, Il pensiero immaginale, cit., p. 92: «nella sua forma presente, non è questo l’unico mondo possibile! [l’artista] restando nell’al di qua, si dice: il mondo ha avuto aspetti diversi, aspetti diversi il mondo avrà».

34 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1991, pp. 2-101.

35 P. Klee, op. cit., pp. 459-61.

36 P. Klee, Confessione creatrice, in Teoria della forma e della figurazione, vol. I, Il pensiero immaginale, cit., p. 79.

37 La metafora dell’albero compare nella conferenza di Jena; cfr. P. Klee, Sull’arte moderna, in Teoria della forma e della figurazione, vol. I, Il pensiero immaginale, cit., p. 82: «Permettetemi di ricorrere a un paragone, il paragone con l’albero. In questo mondo proteiforme, l’artista (…) è così bene orientato da poter imporre un ordine alla fuga delle parvenze e delle esperienze. Quest’orientamento (…) questo complesso, ramificato assetto, mi sia permesso paragonarlo alle radici di un albero. Di là affluiscono all’artista i succhi che ne penetrano la persona, l’occhio. L’artista si trova dunque nella condizione del tronco. Tormentato e commosso dalla possanza di quel fluire, egli trasmette nell’opera ciò che ha visto. E come la chioma dell’albero si dispiega visibilmente in ogni senso nello spazio e nel tempo, così avviene con l’opera. (…) né servo, né padrone egli è solo mediatore. Occupa dunque una posizione davvero modesta: non è lui la bellezza della chioma, questa è soltanto passata attraverso di lui».

38 P. Klee, Gli oggetti di natura indagati nel loro interno, in Teoria della forma e della figurazione, vol. I, Il pensiero immaginale, cit., p. 59.

39 Testo tratto da A symposium, in «Interiors», 10 maggio 1951, che riproduce l’intervento di Rothko al convegno How to combine Architecture, Painting and Sculpture tenutosi al MOMA di New York, il 19 marzo 1951. Ed. it. in M. Rothko, op. cit., p. 37.

40 The Romanticswereprompted, testo pubblicato in «Possibilities», n. I, 1947-48, numero unico della rivista artistica e letteraria diretta da Robert Motherwell, Harold Rosenberg, Pierre Chareau e John Cage. Ed. it. in M. Rothko, op. cit., pp. 32-35.

41 Clive Bell e Roger Fry, cognato l’uno e amico l’altro di Virginia Woolf, criticati da Barnett Newman in L’immagine plasmica, monologo pubblicato postumo, ma scritto nel 1945. Ed. it. in B. Newman, Il sublime, adesso, Abscondita, Milano 2010, pp. 11-38. In questo testo Newman confuta il valore interpretativo delle nozioni di forma plastica e di significantform, in quanto basato sull’assunto che l’arte astratta non ha soggetto. Per Newman, al contrario, il contenuto spirituale di un’opera, che «è stato ignorato, dato per scontato» dai formalisti, è l’avere a che fare con «il mistero che il mondo stesso è».

42 Lettera pubblicata sul «New York Times» il 13 giugno 1943 a firma Gottlieb e Rothko, ma scritta in parte da Newman. Ed. it. in M. Rothko, Scritti, Abscondita, Milano 2002, pp. 14-17.

43 Testo scritto per la mostra A painting prophecy, 1950alla David Porter Gallery di Washington, D.C., 3-28 febbraio 1945. Ed. it. in M. Rothko, op. cit., pp. 27-28.

44 M. Butor, Le moschee di New York, in M. Rothko, Scritti, Abscondita Milano 2002, pp. 51-81.

45 M. Butor, op. cit., p. 67.

46 M. Butor, op. cit., p. 70.

47 L’edificio, uno dei più eleganti dell’architettura americana, era opera di Mies van derRohe.

48 M. Butor, op. cit., p. 79.

49 Verranno poi esposte in parte e nove di esse furono donate dall’artista alla Tate Gallery di Londra, che tuttora le conserva.

50 M. Butor, op. cit., p. 61.

51 Pubblicato in «The Tiger’seye» nel dicembre 1948. Ed. it. in B. Newman, Il sublime, adesso, cit., pp. 41-46.

52 B. Newman, op. cit., p. 45.

53 B. Newman, op. cit., p. 46.

54 B. Newman, op. cit., p. 43.

55 B. Newman, op. cit., pp. 11-12.

56 B. Newman, op. cit., p. 37.

57 B. Newman L’immagine plasmica, in B. Newman, Il sublime, adesso, Abscondita, Milano 2010, pp. 11-13.

58 B. Newman, op. cit., pp. 23-24.

59 J.-F. Lyotard, L’istante, Newman, in B. Newman, op. cit., pp. 49-62.

60 J.-F. Lyotard, op. cit., p. 51.

61 J.-F. Lyotard, op. cit., p. 52.

62 T. B. Hess, Barnett Newman, New York, 1971.

63 I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 128.

64 J.-F. Lyotard, op. cit., p. 60.

65 W. Benjamin, op. cit., p. 49, nota 8.

66 O.Marquard, Kant e la svolta in direzione estetica in Estetica e anestetica, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 37-69

67 O. Marquard, op. cit., p. 51.

68 O. Marquard, Estetica e anestetica, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 71-97.

69 M. Recalcati, Il miracolo della forma,Bruno Mondadori, Milano 2011.

70 M. Recalcati, op.cit., p. 213.

71 M. Recalcati, op.cit., p. 153.

72 Ma Recalcati lo utilizza anche, più prosaicamente e in modo a nostro avviso contraddittorio, per indicare il sistema mondiale dell’arte.

73 Cfr. O. Marquard, Opera d’arte totale e sistema dell’identità. Riflessioni a partire dalla critica di Hegel a Schelling in Estetica e anestetica, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 195-213.

74 J.M. Terrasse, Frontières en nous, hors de nous, nous, in Anselm Kiefer au Louvre, catalogo della mostra, EditionsduRegard, Paris 2007, ed.it. Frontiere, dentro di noi, fuori di noi, noi in Anselm Kiefer. Il sale della terra, a cura di G. Celant, catalogo della mostra, Skira, Ginevra-Milano 2011, pp. 217-221.

75 F. Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872), in Opere complete a cura di G.Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1982, vol. III, t. I, p. 132.