Vergogna: una strategia cognitiva o un’emozione?

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1.
Il volto bifronte della vergogna

Partiamo da una ricognizione etimologica. L’italiano vergogna viene dal latino vĕreor: temere, avere scrupolo o paura, esitare. L’inglese shame e il tedesco Scham presentano, invece, come loro radice, l’indoeuropeo kam: nascondere, occultare, coprire1. Nell’uno e nell’altro caso, l’accento cade, così, su due aspetti fenomenologicamente distinti: nel primo, sulla struttura stessa dell’atto in questione, nel secondo, sulle conseguenze che ne discendono, ossia sul significato sociale di esso.

Fin dall’inizio, dunque, la vergogna si caratterizza per un volto essenzialmente bifronte: ciò che in essa è in gioco è, cioè, non solo un pensare a se stessi, ma anche a «quello che gli altri pensano di noi»2.

Chi si è interrogato su questo volto bifronte della vergogna è stato, fra gli altri, Sartre. All’inizio della Parte Terza («Il per-altri») de Lessere e il nulla, egli afferma che, mantenendosi in linea con il suo «atteggiamento di descrizione riflessiva», intende tematizzare alcuni «modi di coscienza» che, pur rimanendo «in se stessi strettamente per-sé», presentano «una struttura ontologica radicalmente differente».

Tale struttura ontologica è mia, preoccupandomene è di me che mi preoccupo, cionondimeno questa preoccupazione “per-me”, mi scopre un essere che è il mio essere senza essere-per-me.

Ebbene, un esempio di tali «modi di coscienza» sarebbe dato, appunto, dalla vergogna. Essa, in quanto «coscienza non posizionale» di sé, consisterebbe in una prospezione intenzionale: nell’«apprensione […] di qualche cosa», dove «questo qualche cosa sono io».

Io ho vergogna di ciò che sono.

Nonostante tutto, però, la vergogna non è originariamente un fenomeno che appartiene al campo riflessivo, campo in cui abbiamo a che fare soltanto con la nostra coscienza. Viceversa, comporta non solo che altri siano presenti a quest’ultima, ma li implica proprio nella sua struttura primaria, quella per cui essa è ciò che è sempre «di fronte a qualcuno»:

ho vergogna di me stesso quale appaio ad altri. […] Riconosco di essere come altri mi vede.

Sartre ne può concludere, così, che la vergogna è, in se stessa, «riconoscimento» e che tale aspetto le è connaturale proprio insieme con il precedente. In conclusione, la vergogna è sì «vergogna di sé», ma lo è sempre e solo «di fronte ad altri»3.

La vergogna pura non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile; ma, in generale, di essere un oggetto, cioè di riconoscermi in quell’essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per altri4.

 

2. La vergogna come riconoscimento

Ed è proprio a questo motivo della vergogna come “riconoscimento” ciò cui allude il racconto, forse, più celebre riguardo ad essa: Adamo ed Eva che, prima, in Gn 2:25, sono nudi e non ne arrossiscono, mentre, poi, in Gn 3:7, aprono gli occhi e prendono atto della loro condizione definitiva5. In tal senso, c’è chi nella vergogna ha visto all’opera quel fenomeno di autoconsapevolezza,dettaoggettiva, che designa un «carattere unico ed esclusivo della coscienza umana»: il profilo che si dà quando quest’ultima si dirige verso di sé, verso l’interno, ossia assume ad oggetto se stessa.

L’unicità della vergogna […] sta nel suo rapporto con un Sé capace di riflettere su se stesso6.

Va detto subito, però, che la comparsa della vergogna nel bambino «deve richiedere qualcosa di più, oltre all’autocosapevolezza oggettiva». Nel senso che egli deve disporre di determinate capacità cognitive, grazie a cui può avere accesso ad un certo insieme di emozioni autocoscienti: le emozioni che «implicano un giudizio di valore»7.

Ma torniamo alla narrazione biblica. Essa descriverebbe l’«ontogenesi della vergogna nello sviluppo del bambino», nonché «il processo di attivazione della vergogna nell’adulto».

È la vergogna l’emozione cruciale nel racconto biblico: il comportamento di Adamo e di Eva nell’accorgersi di essere nudi, il loro sentirsi esposti davanti a Dio e il loro tentativo di nascondere la propria nudità costituiscono il punto focale della storia. Tre sono gli aspetti salienti. Adamo ed Eva […] sono curiosi, […] la curiosità porta alla conoscenza. E la conoscenza a sua volta genera la vergogna8.

E la vergogna sarebbe, qui, saldata strettamente con la scoperta di sé, per cui i nostri progenitori verrebbero colpiti più che nel loro senso di colpa, nel loro senso di appartenenza. Ciò che ci trasmetterebbe il racconto in questione è, cioè, «la vergogna dell’essere scacciati [dall’Eden] perché ritenuti non degni, la sofferenza dell’essere messi al bando, il dolore del ritrovarsi senza la sicurezza dell’appartenenza a una comunità»9.

 

3. Biopolitica della vergogna

In riferimento alla vergogna, chi ha scavato ancora più a fondo rispetto al suo fungere da indicatore del nostro grado di appartenenza ad una determinata comunità è stata la Nussbaum. Essa, agendo ad un livello più sotterraneo in rapporto a «qualsiasi orientamento sociale specificamente rivolto alle norme», costituirebbe, cioè, il modo in cui «gli esseri umani negoziano alcune contraddizioni intrinseche alla loro umanità»: quelle «legate alla coscienza di essere creature finite e contraddistinte da esigenze ed aspettative eccessive»10.

Muovendo nella sua ricognizione da una tale tesi, il mito classico a cui ella si richiama è il racconto circa le origini dell’amore narrato da Aristofane nel Simposio (189c-193e) di Platone. Un tempo, gli esseri umani erano perfetti e rotondi come sfere. Poi, poiché osarono puntare alla conquista del cielo, vennero puniti dagli dei e furono tagliati da essi in due metà. È così che gli uomini, vergognandosi della loro nuova condizione, danno inizio ad una vita contrassegnata dallo stento e dal bisogno.

Aristofane ritrae la vergogna come un’emozione dolorosa fondata sul riconoscimento della nostra non-onnipotenza e della nostra mancanza di controllo sul mondo, indicando che alla base di questa dolorosa emozione, allorché si manifesta nella vita, c’è un ricordo o l’intuizione residua di un’onnipotenza e una completezza originarie. Noi intuiamo che dovremmo essere un tutto, […] ma sappiamo che ora non lo siamo.

Al riguardo, molto indicativo nel racconto in questione è il modo in cui sono messi in relazione vergogna e sesso, nel senso che la prima riguarderebbe il secondo non considerato in se stesso, ma «in quanto segno di uno stato più generale di necessità e vulnerabilità»11, «di mortalità e di bisogno»12. Aristofane, cioè, coglierebbe proprio nel segno, laddove indica nella vergogna quel sentimento primitivo che, per il fatto di essere delle creature finite, noi avvertiamo ad un certo punto della vita, a causa della nostra inadeguatezza e incapacità13. La Nussbaum suppone, così, che nel bambino, al senso di onnipotenza del desiderio vissuto nella primissima infanzia, faccia seguito, nel momento in cui egli capisce di dipendere da altri, «un’emozione primitiva e rudimentale di vergogna»14. Lo ribadisce anche in un’altra sua opera: Lintelligenza delle emozioni.

Ogni onnipotenza infantile si accompagna all’impotenza. Quando un bambino scopre di essere dipendente da altri, possiamo aspettarci che ne consegua una rudimentale emozione di vergogna. Questa implica, infatti, la scoperta di essere deboli e inadeguati in qualcosa in cui esigiamo di essere all’altezza. […] Se il bambino si aspetta di controllare il mondo, come in qualche modo fanno tutti i bambini, proverà vergogna, e anche rabbia, per la sua incapacità di controllo15.

Certamente, noi proviamo emozioni elementari anche prima di essere coscienti della distinzione fra il nostro corpo e quello di chi ci accudisce. Tuttavia, la vergogna «richiede quantomeno un’idea iniziale del proprio sé, così come un’idea iniziale del carattere distinto dell’essere inerme che si è rispetto alle fonti del conforto e del nutrimento». L’emozione in questione farebbe, perciò, la sua comparsa quando, diventando pienamente coscienti della nostra individuazione e separatezza e cessando di vivere «in quel modo beato di simbiosi con la madre così simile alla vita nel grembo materno»16, incomincia a svilupparsi in noi il sentimento dell’autostima. Infatti, è proprio perché «ci si aspetta di avere valore o persino di essere perfetti, che ci si ritrae o si nascondono le prove del proprio non-valore o imperfezione»17.

E precisamente qui risiederebbe la differenza fra la vergogna e il senso di colpa. Mentre il secondo avrebbe come oggetto primario un’azione determinata, la prima, invece, il profilo della nostra persona presa nella sua globalità:

l’intero sé piuttosto che un’azione specifica del sé. […] Quindi, mentre la vergogna si concentra sui difetti e sull’imperfezione della persona che la prova, e quindi su aspetti essenziali della sua stessa natura, il senso di colpa è incentrato su un’azione (o un desiderio di agire), ma non si estende necessariamente alla totalità dell’attore considerandolo come un essere completamente inadeguato18.

Dove, però, il senso di colpa è potenzialmente creativo, in quanto può promuovere il perdono e la riparazione del male, la «vergogna primitiva» costituisce, invece, «una minaccia per ogni possibilità di moralità e di vita comune»: la minaccia alla possibilità stessa di «coltivare una vita interiore creativa»19. In tal senso, se tale «vergogna primitiva» non viene elaborata adeguatamente, possono derivarne gravi difficoltà in sede di interazione sociale e di sviluppo della personalità.

Nelle famiglie in cui si pone un accento eccessivo sulla perfezione, e nelle società in cui il bisogno e la vulnerabilità sono considerati con vergogna da parte degli attori sociali dominanti, esiste un particolare pericolo che questo equilibrio venga scombussolato per lasciare spazio ad un senso di vuoto che dia adito alla collera e alla depressione, o ad entrambe20.

Ma anche quando superiamo la fase del narcisismo infantile, riconoscendo la realtà distinta delle altre persone e stabilendo con esse relazioni nel segno della reciprocità, resta sempre vero il fatto che gli uomini non vogliono essere né deboli, né mortali, per cui, in noi, si può dare una forte tendenza a regredire ad un’aggressività autoprotettiva, «nel momento in cui la debolezza si fa sentire»21.

Una vergogna primaria per la propria debolezza e impotenza è probabilmente un carattere basilare e universale della vita umana. […] Tutti gli esseri umani provano quest’emozione in qualche forma22.

Visto tutto ciò, la Nussbaum si chiede se non sia possibile un impiego politico della vergogna. La risposta è positiva nel caso in cui essa venga vissuta come una forma di sollecitudine in merito al problema sociale e come l’avvertimento che il nostro impegno civile non basta ancora per produrre un cambiamento nella sfera pubblica in cui ci troviamo:

la persona che si vergogna in tal senso si allontana dalla comoda convinzione narcisistica che tutto vada bene all’interno del proprio mondo, e riconosce le giuste rivendicazioni avanzate dagli altri sul suo tempo […]. Invece di proseguire indisturbata sulla sua strada, la persona riconosce il fatto di non essersi accorta della realtà che tocca la vita degli altri e compie un passo, per quanto esitante, per uscire dal narcisismo e coltivare una “sottile interazione” con il prossimo.

La vergogna fungibile in chiave politica sarebbe così quella, per definizione, «antinarcisistica»: essa, infatti, rafforzerebbe «il senso della vulnerabilità umana, il senso dell’inclusione di tutti gli esseri umani in una comunità solidale e le idee connesse d’interdipendenza e responsabilità reciproca»23.

Proprio come in un altro racconto espostoci da Platone: il grande mito narrato da Protagora nel dialogo che porta il suo stesso nome (320c-322d). Qui, si legge che il pudore (aidos) ci fu dispensato da Zeus, insieme con la giustizia, in quanto egli, temendo che la nostra specie potesse volgere verso l’autodistruzione, volle così consolidare i principi che presiedono all’ordinamento della città, nonché i vincoli costituenti unità di amicizia (philia)24.

 

4. Etica della vergogna

In merito alla distinzione fra colpa e vergogna, che abbiamo appena visto articolata dalla Nussbaum, chi anche l’ha prospettata è stato Bernard Williams, intendendo la seconda, rispetto alla prima, come un agente più marcatamente etico: come più profondamente radicata nel sé morale di ognuno. In tal senso, estremamente significativo è il fatto che mentre i Greci, nella loro lingua, disponevano di un diretto equivalente della nostra nozione di vergogna, non ne disponevano, invece, di uno per ciò che riguarda quella di colpa.

Questa parola [colpa] designa per noi un altro concetto e forse un’esperienza distinta. […] La distinzione tra vergogna e colpa è […] profonda […] e tra di loro esistono differenze psicologiche reali.

Prima di tutto, laddove le «esperienze più primitive della vergogna hanno a che fare con la vista e l’essere visto»25, la colpa affonda le sue radici, invece, in un «sentimento morale della parola»: nell’ascolto, nel «risuonare in se stessi della voce del giudizio»26. Inoltre, mentre l’espressione della vergogna è data dal desiderio di nascondersi, di scomparire, di non essere più in un dato luogo, quando ci sentiamo in colpa, siamo dominati, invece, da un diverso pensiero. E cioè che, se anche scomparissimo, essa ci seguirebbe27.

E ancora, mentre la colpa riguarda ciò che è accaduto ad altri, nonché azioni che sono non volontarie, la vergogna, invece, «si rivolge a ciò che io sono»28: essa interessa sì la mia esteriorità, ma in un modo tale che «l’altro vede tutto di me e attraverso me»29. La colpa, poi, come già diceva la Nussbaum, avrebbe a che fare, più della vergogna, con il perdono, sebbene esso «non abbia lo stesso potere del giudice interiore di riparare il mio senso di me stesso»30.

[L]a colpa non può da sola aiutare qualcuno a comprendere quali rapporti intrattiene con quegli avvenimenti [l’aver subito un torto o un danno] o a ricostruire il sé che ha compiuto queste azioni e il mondo in cui questo sé deve vivere. Solo la vergogna può fare questo, perché incorpora concezioni relative alla natura di un individuo e dei rapporti che intrattiene con gli altri31.

Al di là di una tale differenza fra colpa e vergogna, il provare una di esse non è, però, ad esclusione dell’altra. Infatti, si danno anche casi in cui, in riferimento ad un’azione determinata, possiamo fare un’esperienza simultanea tanto della prima, quanto della seconda. L’unica condizione è che l’azione deve sì riguardare altri, ma – sempre e ancora – in rapporto a ciò che noi siamo, per cui deve mediare «tra il mondo interiore del carattere, dei sentimenti, della decisione e il mondo esteriore del danno e del torto»32.

Se però, ancora oggi, la colpa può apparire a molti come un’emozione più trasparente della vergogna, ciò è solo perché essi hanno un’immagine distorta della vita morale, pensando che il sé dotato di profilo etico sia un qualcosa di insensibile agli altri e, perciò, di privo di carattere. I Greci distinguevano, invece, fra una vergogna connessa con i convincimenti interiori della persona e un’altra connessa con l’opinione collettiva relativa ad essa. E quest’ultima è sentita a tal punto come decisiva e vincolante che una delle opposizioni su cui è impiantata la tragedia greca riguarderebbe proprio l’antitesi fra vergogna e reputazione pubblica33.

Sembrerebbe, allora, che una vita etica plasmata dalla vergogna debba essere condannata, senza rimedio, all’eteronomia. Una concezione, questa, che deriva da Kant, ma che si trova già nella Repubblica di Platone. L’uno e l’altro credono, infatti, nel primato della ragion pura ed escludono che nel soggetto morale sia iscritto un testimone interiore che fungerebbe da vero e proprio principio di alterità sociale.

Qualunque sia il modo in cui funziona, la vergogna richiede un altro interiorizzato […]. Allo stesso tempo, questa figura […] incorpora […] tracce di una genuina realtà sociale, in particolare di come sarà la vita con gli altri se agisce in un modo piuttosto che in un altro34.

 

5. Ontologia della vergogna

Tanto la Nussbaum, quanto Williams mettono in luce il nesso che, nella lingua greca, si dà fra vergogna e nudità:

il termine greco che designa i genitali, aidoia, contiene un rimando alla vergogna, aidos35.

La vergogna è direttamente connessa con la nudità, in particolare in contesti sessuali. La parola aidoia, un derivato di aidos, “vergogna”, è un termine greco abituale per i genitali36.

Ebbene, chi nella vergogna ha visto la reazione al nostro essere esposti all’eccesso del nostro corpo è stato, prima di Žižek37, Max Scheler.

Solo perché […] egli [l’uomo] esperisce l’essenziale indipendenza dell’essere della propria persona spirituale dal proprio corpo e da tutto ciò che può derivare da esso, egli può, in determinate circostanze, provare pudore38.

Sconosciuto al mondo animale, come, del resto, anche a quello divino, il pudore trova il suo luogo naturale nel mondo umano, in quanto segnato da uno scarto strutturale fra spiritualità e corporeità, essenza ed esistenza, finito e infinito, eternità e temporalità. Presso i Greci, esso era visto a tal punto come affine alla divinità da essere venerato nella figura di una dea: Aidos. Figura che, personificando la pudica riservatezza stessa, in conseguenza di un’offesa subita dall’uomo, fugge dalla Terra in cielo, da dove continua a dispensare il suo splendore.

Su questa stessa linea Heidegger, nel contesto di un’interpretazione del frammento 16 di Eraclito, citando quei versi dell’Odissea (VIII, 83 sgg.) in cui si racconta che Ulisse, nel palazzo del re dei Feaci, al canto del poeta Demodoco, nasconde il capo e, non visto dai presenti, piange, scrive:

Ma questo non significa chiaramente la stessa cosa che: si nascose per vergogna dei Feaci? Oppure dobbiamo pensare anche la vergogna, aidos, a partire dal restare nascosto, se il nostro sforzo è quello di avvicinarci di più alla sua essenza esperita in modo greco? In tal caso, “vergognarsi” vorrebbe dire: restare riparato e nascosto nell’aspettazione e nel ri-tegno39.

Muovendo da una concezione del pudore inteso come un qualcosa di costitutivamente “sfuggente”, Scheler stabilisce una connessione fra esso e l’angoscia, dove quest’ultima, a differenza della paura, disporrebbe solo di un presentimento, e non di una chiara rappresentazione, dell’evento minaccioso. Si ricorderà come tale connessione fra pudore e angoscia, nonché la distinzione fra quest’ultima e la paura, fosse stata già prospettata da Kierkegaard, il quale, parlando di un’«angoscia del pudore», l’aveva definita come «terribilmente ambigua», in quanto segnata dall’incidenza di una forma di voluttà sensuale, la quale, però, ritraendosi, mai si lascerebbe da noi vedere.

Questo è il concetto del pudore (vergogna). Nel pudore c’è un’angoscia; poiché lo spirito […] è determinato non soltanto come corpo, ma come corpo con la differenza sessuale. Ma il pudore, pur essendo la consapevolezza della differenza sessuale, non implica un rapporto con una tale differenza; vale a dire l’istinto, come tale, non esiste. […] Non c’è alcuna traccia di voluttà sensuale, eppure c’è una vergogna, ma di cosa? di nulla. Eppure l’individuo può morire di vergogna; e il pudore violato è il più profondo dolore perché è il più inesplicabile di tutti40.

Nella sua ricognizione metafisica del pudore, Scheler giunge fino al punto di invertire i rapporti tradizionali fra quest’ultimo e la morale, nel senso che esso, lungi dal prendere corpo entro una morale già costituita, sarebbe, invece, «una delle radici e delle sanzioni “naturali” di ogni morale»41: il luogo a cui ogni vera e autentica esperienza permanentemente torna ad attingere42. E il pudore come atto di nascita, in noi, dell’abito morale va, forse, cercato in quella direzione indicata esemplarmente da un aforisma di Nietzsche, ossia visto come sinergia fra due movimenti di direzione opposta: il gesto oblativo ed espansivo del dono, da un lato, e quello che, “amando nascondersi”, si dà come riserbo, rinuncia e ritenzione, dall’altro43.

Pudore di colui che dona. È così ingeneroso far sempre la parte di colui che dà e che dona, e mostrare in tutto questo il proprio viso! Bisogna dare, invece, e donare, senza rivelare il proprio nome e il proprio beneficio. Oppure non averlo, un nome, come fa la natura, in cui appunto quel che massimamente ci rallegra è non incontrarvi finalmente più nessuno che dona e che dà44.


Note con rimando automatico al testo

1 Ricordiamo che in inglese e in tedesco – come, del resto, in latino, in greco e in ebraico – un medesimo lemma indica sia il pudore, sia la vergogna.

2 Ch. Darwin, Lespressione delle emozioni nelluomo e negli animali (1872), a cura di G. A. Ferrari, Boringhieri, Torino 1982, p. 384.

3 J.-P. Sartre, Lessere e il nulla (1943), tr. it. di G. del Bo, F. Fergnani e M. Lazzari, il Saggiatore, Milano 1965, pp. 265-6. Chi, in merito al tema in questione, ha proseguito lungo la via indicata da Sartre è stato Lacan, per il quale «nella struttura dell’essere guardato si ordina tutta la fenomenologia della vergogna». Cfr. C. Dewambrechies-La Sagna, La vergogna da Omero a Lacan, in «La Psicoanalisi. Rivista del campo freudiano», 2009, n. 46, pp. 112-22: p. 115. Su Sartre come autore in cui Lacan trova «un compagno di strada capace di offrirgli una nuova ispirazione per provare a sganciare ancora più rigorosamente la nozione di soggetto da quella di Io», cfr. M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Cortina, Milano 2012, p. 2.

4 J.-P. Sartre, Lessere e il nulla, cit., p. 336. Sul «doppio piano prospettico» che, in Sartre, racchiuderebbe in sé l’idea di vergogna, cfr. G. Farina, Lalterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, Bulzoni, Roma 1998, la quale afferma che, in lui, essa è “riconoscimento” anche nel senso che, per il suo tramite, investo l’altro della «libertà di conferirmi un essere che io sento come mio» (p. 77).

5 Su questo punto, H. P. Duerr, Nudità e vergogna. Il mito del processo di civilizzazione, tr. it. di G. Benedetti, Marsilio, Venezia 1991, scrive che «nudità e pudore sono legati così strettamente che molti fatti attestano la veridicità del mito biblico secondo cui il pudore nei confronti del denudamento dei genitali non è una casualità storica ma appartiene all’essenza dell’uomo» (p. 203).

6 Cfr. M. Lewis, Il Sé a nudo. Alle origini della vergogna, tr. it. di G. Noferi, Giunti, Firenze 1995, p. 57.

7 Ivi, p. 120. Sulla genesi della vergogna nel bambino, cfr. il cap. VI di L. Anolli, La vergogna, il Mulino, Bologna 2000, pp. 82-95.

8 M. Lewis, Il Sé a nudo, cit., p. 112.

9 G. Turnaturi, Vergogna. Metamorfosi di unemozione, Feltrinelli, Milano 2012, p. 93.

10 M. C. Nussbaum, Nascondere lumanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, tr. it. di C. Corradi, Carocci, Roma 2005, p. 208.

11 Ivi, p. 218.

12 Ivi, p. 222. Proprio come nel racconto di Adamo ed Eva, dove la mela «rivela [ad essi] la loro mortalità e vulnerabilità, delle quali la loro sessualità non è che un aspetto» (ivi, p. 432, n. 43).

13 Scrive la Nussbaum in La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, ed. it. a cura di G. Zanetti, il Mulino, Bologna 1996: «il mito di Aristofane mette in scena […] il fatto che l’amore ci rende vulnerabili alla contingenza. Il bisogno da cui scaturisce la ricerca erotica è una mancanza innaturale e contingente – o almeno così lo vedono le ambizioni della ragione. […] Il corpo è una fonte di limitazioni e di preoccupazioni. Esse [le creature tagliate a metà] non sono in armonia con il loro corpo e desiderano averne un altro o, forse, nessuno» (p. 344).

14 M. C. Nussbaum, Nascondere lumanità, cit., p. 219.

15 M. C. Nussbaum, Lintelligenza delle emozioni, ed. it. a cura di G. Giorgini, tr. it. di R. Scognamiglio, il Mulino, Bologna 2001, pp. 244-5.

16 M. C. Nussbaum, Nascondere lumanità, cit., p. 219.

17 M. C. Nussbaum, Lintelligenza delle emozioni, cit., p. 245.

18 M. C. Nussbaum, Nascondere lumanità, cit., pp. 220 e 245. Al riguardo, scrive A.Tagliapietra, La forza del pudore. Per una filosofia dellinconfessabile, Rizzoli, Milano 2006, che, mentre «la vergogna coinvolge l’intera percezione della propria identità, sembrando in questo una specie di immagine inversa dell’orgoglio», la colpa esprime, invece, «un giudizio negativo solo su di una specifica azione, ovvero su un comportamento circoscritto, lasciando intatta, almeno nella maggior parte dei casi, la valutazione di sé e, quindi, la propria autostima» (p. 37).

19 M. C. Nussbaum, Nascondere lumanità, cit., p. 246.

20 Ivi, p. 236.

21 Ivi, p. 258.

22 M. C. Nussbaum, Lintelligenza delle emozioni, cit., pp. 246-7.

23 M. C. Nussbaum, Nascondere lumanità, cit., pp. 251-2.

24 Sul nesso fra giustizia e pudore, in Platone, cfr. anche Leggi, L. XII, 943e, dove la prima è detta “figlia” del secondo, nonché Lettera VI, dove entrambe vengono viste rinsaldare legami di amicizia e di familiarità fra gli uomini (323b-c). Analizzando il passo del Protagora in questione ne La fragilità del bene, cit., la Nussbaum nota che, «non appena i doni di Zeus vengono distribuiti, anche il fine apparentemente prestabilito della sopravvivenza viene caratterizzato in un modo indissolubile dalla città. […] Quello che ci sembrava un fine esterno comincia ad apparire un fine interno, come se le arti di Zeus avessero trasformato la natura dell’essere umano» (p. 217).

25 B. Williams, Vergogna e necessità, tr. it. di M. Serra, il Mulino, Bologna 2007, p. 105. A proposito di quest’ultimo punto, leggiamo che «la vergogna e le sue motivazioni implicano sempre in un modo o nell’altro l’idea di uno sguardo estraneo», fosse anche lo «sguardo immaginario di un osservatore immaginario». Ma, naturalmente, essa «non dipende solo dall’essere visto», ma anche «dall’essere visto da qualcuno che ha una certa opinione» (p. 99).

26 Ivi, p. 105.

27 Al riguardo, va detto che le cose stanno esattamente all’opposto per E. Lévinas, Dellevasione (1982), tr. it. di D. Ceccon e G. Franck, Cronopio, Napoli 2008, secondo il quale è propriamente la vergogna ciò che, inchiodandoci a noi stessi, ci interdice ogni possibilità di fuggire verso un altrove. «Ciò che appare nella vergogna è precisamente il fatto di essere incatenati a sé, l’impossibilità radicale di fuggire da se stesso per nascondersi a sé, l’irremissibile presenza dell’io a se stesso» (pp. 32-3).

28 B. Williams, Vergogna e necessità, cit., p. 109. In virtù di questo riferimento privilegiato della vergogna al sé, Williams parla anche di essa come di «un’emozione che, per sua stessa natura, è più narcisistica della colpa» (p. 201).

29 Ivi, p. 106.

30 Ivi, p. 107.

31 Ivi, pp. 110-1.

32 Ivi, p. 109.

33 In merito al nesso che, nella civiltà greca, si dà fra vergogna e reputazione pubblica, ricordiamo che Aristotele configurava il pudore come «una specie di paura del disonore» (Etica Nicomachea, L. IV, 9, 1128b, 11-12).

34 B. Williams, Vergogna e necessità, cit., p. 118.

35 M. C. Nussbaum, Nascondere lumanità, cit., p. 218.

36 B. Williams, Vergogna e necessità, cit., p. 96. Naturalmente, Williams precisa che la vergogna non si trova tanto nella nudità in quanto tale, quanto «in qualcosa di cui essa è, nella maggior parte delle culture […], una potente espressione» (p. 200).

37 Cfr. S. Žižek, Politica della vergogna, a cura di E. Acotto, tr. it. di E. Acotto e M. Agostini, Nottetempo, Roma 2009, p. 59.

38 M. Scheler, Pudore e sentimento del pudore (1933), a cura di A. Lambertino, Guida, Napoli 1979, p. 21. «Lo spirito consiste nel pudore, ovvero il pudore è sentirsi spirito», scrive, al riguardo, S. Kierkegaard, Diario [1834-1855], a cura di C. Fabro, 12 voll., Morcelliana, Brescia 1980-19833; vol. VIII, p. 112 (n. 3184).

39M. Heidegger, Aletheia (Eraclito, frammento 16), in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 180. Per una ricognizione del concetto di aidos nella civiltà omerica, cfr. G. Guidorizzi – L. Conti, Omero e la cultura del pre-pudore, in «Spazio filosofico», 2012, n. 05 (www.spaziofilosofico.it). Qui, leggiamo che la nozione in questione «costituisce il principale elemento regolatore dell’equilibrio sociale, nonché il motore della psicologia eroica».

40 S. Kierkegaard, Il concetto dellangoscia, in Id., Il concetto dellangoscia / La malattia mortale, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1953, pp. 83-4.

41 M. Scheler, Pudore e sentimento del pudore, cit., p. 109. Una tale tesi la troviamo affermata anche da P. Martinetti, Lamore, a cura di A. Di Chiara, il melangolo, Genova 1998, il quale distingue fra il pudore, da un lato, e le forme o manifestazioni sociali di esso, dall’altro: mentre queste ultime possono avere il carattere di «formazioni convenzionali», il primo, invece, in quanto è indice di «un valore morale», ha la sua radice in «un sentimento fondamentale che non è artificioso» (pp. 98-9).

42 Sul fatto che il pudore starebbe a dimostrare l’esistenza di «un luogo interno del soggetto, requisito della libertà»: il «luogo proprio a se stessi […] dell’intimità», cfr. M. Selz, Il pudore. Un luogo di libertà, tr. it. di S. Pico, Einaudi, Torino 2005, pp. 10 e 44-5.

43 Cfr. A.Tagliapietra, La forza del pudore, cit., pp. 216-7.

44 F. Nietzsche, Aurora, L.V, in Id., Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964, pp. 226-7 (n. 464).