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Ritorno a Platone via Patocka

Già vent’anni. Era il 1982. Quell’anno ebbi la rara fortuna d’"incontrare" coloro che considero come i due ultimi grandi filosofi della civiltà occidentale: Jan Patocka e Cornelius Castoriadis. Di Jan Patocka, di cui sentivo il nome per la prima volta, ci aveva parlato Milan Kundera nel suo seminario sul romanzo dell’Europa centrale tenuto a partire dal 1981 presso l’École des Hautes Études in Scienze Sociali. Per Castoriadis fu più semplice: quell’anno iniziai a seguire i corsi che teneva nella stessa istituzione di Kundera. Era l’anno in cui analizzava il pensiero e la letteratura greche in rapporto al sistema democratico. Vent’anni. Lo stupore della scoperta aprì la porta allo studio. Lo studio portò all’ammirazione. Oggi il sentimento che predomina è la nostalgia: non rivedremo più menti di questo spessore.

La fortuna continuava: quell’anno le edizioni Verdier pubblicarono in francese uno dei libri più importanti di Jan Patocka, Saggi eretici sulla filosofia della storia con una prefazione illuminante di Paul Ricœur e un commento conclusivo di Roman Jakobson intitolato "Il Curriculum vitae d’un filosofo ceco". Nei dieci anni che seguirono la prima pubblicazione diversi editori misero a disposizione del pubblico francese circa dodici lavori di Jan Patocka tra cui Platone e l’Europa che - secondo me - è il più rappresentativo della sua vita e della sua opera. È stato pubblicato anche da Verdier un anno dopo l’apparizione dei Saggi eretici.

Patocka è nato nel 1907. Allievo e continuatore di Husserl, ha inaugurato la sua carriera di professore (assai movimentata) nel 1936 con un libro concepito sulla scia della fenomenologia husserliana Il Mondo naturale come problema filosofico(1). Due anni più tardi, nel 1938, nel suo discorso in memoria di Husserl – è attraverso questo testo che Kundera ce l’ha presentato – Patocka coglie l’occasione per esprimere quello che diventerà poi la pietra miliare della sua ricerca filosofica "il diritto dell’uomo alla verità e alla determinazione dell’io" (2). Colui che professava queste idee non piaceva certo al regime nazista e comunista che si sono succeduti in Cecoslovacchia a partire dal ‘39 con una pausa democratica di tre anni. Patocka ha infatti perso la cattedra universitaria nel ‘39 in seguito all’occupazione tedesca e l’ha recuperata in due momenti: dal ‘45 al ‘48, quindi dalla Liberazione sino al colpo di stato comunista e nel ‘68, anno della Primavera di Praga. Nonostante fosse stato interdetto dall’insegnamento ufficiale, Patocka non ha mai interrotto la sua vocazione di pedagogo. Spesso gli amici trasformavano un’abitazione in classe universitaria ove egli continuava a tenere i suoi corsi in modo privato e clandestino.

È proprio uno di questi corsi, quello dell’estate ‘73, che venne pubblicato con il titolo di Platone e l’Europa. I suoi scritti, i suoi interventi, i suoi corsi erano ciclostilati e diffusi clandestinamente grazie agli amici e agli allievi. E spesso accadeva che uno di questi testi, ancora clandestinamente, trovasse la via dell’estero: ciò spiega la celebrità di Patocka, almeno nel circolo ristretto dei fenomenologi negli ambienti degli anni ’70. Sconosciuto nel proprio paese, mal visto dal potere centrale, Patocka non ha mai smesso di riflettere sul proprio secolo, sulle due guerre mondiali devastatrici e suicide che ha conosciuto l’Europa e sul mondo che spuntava all’orizzonte.

Nel 1977, anno della morte, diventa il portavoce dei firmatari della Carta 77. Muore quindici giorni dopo un lungo interrogatorio da parte della polizia. In ospedale, mentre viene curato in vano, trova ancora una volta l’occasione di rivolgersi ai propri compatrioti con propositi che facevano eco al suo discorso del ‘38:

"Occorre qualcosa di fondamentalmente non tecnico, non unicamente strumentale, occorre un’etica evidente a se stessa, non dettata dalle circostanze, una morale incondizionata…La morale non esiste per far funzionare la società, ma semplicemente perché l’uomo sia l’uomo. (Citato da Roman Jakobson)".

Jan Patocka non è stato un dissidente nel senso in cui gli intellettuali occidentali hanno attribuito a questo termine negli anni ’60 e ’80. Egli ha sempre creduto fermamente che il dovere primo dell’uomo non fosse di opporsi al Male, ma di creare, nel senso d’immaginare e di praticare, anche in condizioni difficili, una vita propria per riaprire alla civiltà un nuovo spazio di speranza e di libertà. Se non ha mai abdicato alle proprie responsabilità rispetto all’oppressione quotidiana e ai misfatti delle forze politiche, economiche e geo-strategiche del tempo, non ha comunque mai voluto limitare il proprio pensiero e la propria azione alle opposizioni ideologico-politiche che sembravano dominare la propria epoca e, più tardi, il proprio secolo.

"La questione propria dell’individuo non si pone quindi come una scelta tra il liberalismo e il socialismo, tra la democrazia e il totalitarismo che, nonostante le loro profonde differenze, si ricongiungono in un’indifferenza comune rispetto a tutto ciò che non è oggettivo, a tutto ciò che non è un ruolo. La soluzione del conflitto che li oppone non può portare la soluzione della questione che consiste nel porre l’uomo al proprio posto, la soluzione del proprio errore al di fuori di se stesso e del posto che gli appartiene. (Saggi eretici, pp. 123-124)".

Ora, ponendo la barra della critica così in alto, designandosi come avversario del mondo nel suo insieme, Patocka non rischiava forse l’isolamento totale dai propri simili? Come reagiva di fronte ai problemi reali ed urgenti con i quali si confrontavano, nella sua epoca, sia lui, sia i suoi compatrioti e ancora milioni di persone in tutto il mondo?

Patocka non parla mai in nome delle vittime, degli oppressi e degli sfruttati. Il suo "popolo" è quello di chi ha saputo scuotersi, cioè di quegli uomini e di quelle donne che hanno sentito al loro interno il crollo della propria civiltà e che, coscienti, si impegnano a creare insieme, solidali gli uni gli altri, qui e ora, un mondo diverso, un mondo centrato nuovamente sui valori umani. A questo mondo Patocka ha dato il nome di "città parallela". Non è un’utopia, ma una pratica e un esercizio permanente, il cui ciclo di corsi clandestini e le discussioni filosofiche impregnate di inquietudini per l’avvenire del mondo tecnologico ne sono state la più perfetta illustrazione. La "città parallela" proposta e realizzata da Patocka non è né un movimento di protesta, né un rifugio per i delusi, né una lega di riformatori sociali. Si tratta di un modo di vita che mette tra parentesi le certezze e la logica del mondo della tecnica e della forza scatenante, affinché l’uomo europeo acceda nuovamente al mondo problematico, al mondo che è all’origine della propria civiltà.

Questo mondo problematico comincia, secondo Patocka, a definire le sorti e l’evoluzione dell’Occidente in modo sistematico con Platone. Patocka non è né platonico, né neoplatonico: è fenomenologo. Così la sua prima preoccupazione di pensatore non è di elaborare un nuovo commento della dottrina platonica, ma – ereditata direttamente da Husserl e Heidegger – è quella della crisi della metafisica, crisi latente nell’opera stessa del fondatore, Platone, affiorata di prepotenza nel XVII° secolo per diventare poi ineludibile alla fine del XIX° e nei primi decenni del XX°.

È chiaro che "se il verme è già nel frutto sin dall’inizio" una delle soluzioni, o quella in ogni caso preferita dai nostri sofisti e da altri deconstruzionisti contemporanei, sarebbe di passare oltre, di pensare la filosofia, il mondo e l’Occidente prescindendo da Platone. Al contrario, considerando che il mondo dei problemi ritenuti risolti solo perché ignorati non deve essere il nostro, Patocka ritorna a Platone per dimostrare che la problematizzazione dell’essere è il segno ontologico dell’Europa e che, una volta deteriorato questo segno, l’Europa non avrà più ragione d’essere.

La problematizzazione dell’essere che inizia realmente con Platone è più importante, secondo Patocka, delle contraddizioni insormontabili generate dalla separazione che il padre della filosofia ha instaurato tra l’al-di-là delle Idee e la vita degradata di qui. Per noi, limitarci esclusivamente agli abissi aperti alla mente da questa separazione iniziale ed iniziatica non si rischia solamente di perdersi, ma si rischia soprattutto di perdere di vista il frutto reale di questa dicotomia misteriosa. Ciò che è più importante per noi del pensiero di Platone, ciò che è costitutivo della storia dell’Europa e consustanziale alle nostre vite umane è che, al-di-là degli enigmi logocentrici, ci ha insegnato a problematizzare le nostre esistenze. È la creazione di quest’entità paradossale, di questo terzo stato comunemente chiamato anima che, da Platone in poi, aspira a riempire lo spazio infinito tra la sfera celeste e la vita volgare. È questa nuova dimensione dell’essere umano che affiorando da se stesso tende, da una parte, a strapparlo dalla "quotidianità" del mimetismo che impone la vita in società, dalla sottomissione alla doxa e, dall’altra, dall’"orgiastico", dal pericolo permanente d’essere sedotto dalle barbarie, dal catastrofico, dalla pura bestialità.

Il ritorno all’anima che ci suggerisce Patocka non è solo di ordine teorico. Certo, la problematizzazione dell’essere o, in termini platonici, la preoccupazione per l’anima (épiméleia psychés) può costituire in sé una risposta salutare al vicolo cieco che vive attualmente la filosofia. Sostituendo l’interrogazione sull’essere umano con l’essere umano che s’interroga, con l’uomo che si problematizza, che si preoccupa prima di tutto della propria anima, Patocka ha gettato un ponte al di sopra delle antinomie della metafisica. Ma questo ri-orientamento dell’interesse filosofico ha anche delle conseguenze pratiche:

"Si parla continuamente dell’Europa in senso politico, ma si tralascia la questione di sapere che cosa sia esattamente e da dove sia nata. Sentiamo parlare d’integrazione dell’Europa. Ma l’Europa è dunque qualcosa che possa essere integrata? Si tratta di un concetto geografico o puramente politico? No, e se vogliamo affrontare la questione della nostra situazione presente, dobbiamo innanzitutto comprendere che l’Europa è un concetto che si basa su fondamenti spirituali. (Platone e l’Europa, p. 91)".

D’altra parte sarebbe più giusto dire che l’interesse "teorico" che porta Patocka sulla "preoccupazione per l’anima" e il suo ritorno a Platone sono la conseguenza della sua preoccupazione profonda per l’Europa del proprio tempo.

In questi vent’anni non ho mai smesso di ritornare a Patocka. Dal fondo del suo paese comunista, trent’anni fa, esprimeva le nostre stesse inquietudini, oggi, di fronte all’Europa che si sta creando. E, ben inteso, non ho mai cessato di leggere e rileggere Castoriadis. Curiosamente, non mi sono mai preoccupato di ciò che li separa: da una parte la città parallela, l’anima e Platone; dall’altra la rivoluzione, l’immaginario e Aristotele. A dir il vero non ho alcuna voglia di opporli, mi è sufficiente che entrambi, nei momenti nefasti, ci propongano di ripensare l’eredità greca, mi è sufficiente che entrambi coesistano in me e rinnovino il dialogo iniziato dalla filosofia greca.

D’altronde i segni mi sono favorevoli. A Praga, nel 1997 – qualche mese prima della sua morte – nella città di Patocka, Castoriadis fece il suo ultimo intervento pubblico dal titolo "O una rinascita democratica o la barbarie generalizzata". E recentemente ho trovato in Patocka un commento del frammento di Eraclito che figura in epigrafe sulla tomba di Castoriadis al cimitero di Montparnasse: GRECO ("Le frontiere dell’anima non si possono trovare in ogni cammino, perché la parola, l’espressione che la designa, è troppo profonda", secondo l’interpretazione di Patocka).

 

(traduzione di Laura Toppan)

 

Note
1) Seminario privato del semestre estivo 1973, tradotto dal ceco da Erika Abrams, Lagrasse, Verdier, 1983.
2) Edizione francese tradotta dal ceco da Jeromil Danek e Henri Declève, La Haye, Nijhoff, 1976.