Il Bacio di Giuda

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Tradizione e tradimento nell'iconica di Giotto

 

 

I. Esposizione

"Credette Cimabue nella pittura
tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido
sì che la fama di colui che è oscuro
"
(Dante, Purg. XI, 94-96)

La tradizione del dialogo tra filosofia e arte dell'immagine fu fino a poco tempo fa piuttosto arida, per non dire inesistente. La prima vedeva in larga misura nella seconda la mera apparenza o l'illusione, la seconda semplicemente considerava che la prima si muove in strati eterei di pensiero con i quali la concretezza dell'immagine non ha nulla a che vedere. Fu questo il motivo per cui per secoli lo studio dell'immagine fu lasciato agli storici dell'arte.

Negli ultimi anni, però, la storia dell'arte stessa è giunta ad un punto critico nel quale deve scegliere fra un tradimento della tradizione e il suo suicidio. È il nesso stesso tra "storia" e "arte" che viene messo in questione da numerosi storici dell'arte. Nel campo dell'arte contemporanea, la non nuova tesi hegeliana della fine della storia rinasce declinandosi in due modi: sia come un necessario passaggio dalla storia dell'arte ad una scienza dell'arte (per altro già proposta da Aby Warburg) sia come fine della storia intesa nel senso di una fine dell'arte (Arthur Danto in una variazione di un'altro tema hegeliano). In questo doppio quadro rientra l'originale proposta del "Projekt Bildwissenschaft". Partendo dal principio che non solo l'arte ha una fine ma anche un inizio, Hans Belting ha ripercorso la "storia dell'immagine prima dell'arte" (1). Il suo collega Gottfried Boehm allarga invece il campo d'indagine della storia dell'arte tradizionale per giungere a tutti i fenomeni iconici. La domanda della sua omonima pubblicazione "Che cos'è l'immagine?" (2) ha dato un impulso decisivo non solo alla storia dell'arte, ma anche alla scienza della comunicazione, alla sociologia, alla psicologia e non da ultimo alla filosofia. In realtà questa domanda, che sembra preparare la re-entry della filosofia sulla scena delle discipline umanistiche, la getta invece in imbarazzo. Forse perché si pensava di aver chiuso da tempo con le domande del tipo ti esti.

Il tentativo che segue non rientra né nella storia dell'arte tradizionale né nella filosofia tradizionale (ammesso che esista). L'obiettivo sarebbe di mantenere la doppia esigenza filosofica di chiarire cos'è l'immagine e di fare d'altronde vedere l'immagine stessa nella sua singolarità. A questo proposito abbiamo scelto un'immagine all'interno di uno dei più grandi capolavori dell'arte occidentale, gli affreschi della Cappella degli Scrovegni di Giotto. L'analisi percorre i diversi stadi della descrizione della storia dell'arte tradizionale (filologia, sociopsicologia, iconografia, iconologia) per così dire in maniera performativa: si cercherà di rendere visibile la tradizione storiografica stessa. Alla fine si giungerà alla proposta di Max Imdahl, il quale, molto prima di Boehm, Belting e consorti, si è posto la domanda 'Che cos'è l'immagine' proprio a partire della Cappella di Giotto.

Il lavoro parte dalla seguente domanda: perché, 700 anni dopo, Giotto ci affascina sempre ancora? Perché la sua pittura sembra esprimere ciò che in tutti questi secoli non si è riuscito ad esprimere meglio? C'è una particolarità dell'arte di Giotto assolutamente ineguagliabile? All'analfabeta trecentesco, gli affreschi della Cappella degli Scrovegni dovevano apparire come il Paradiso in Terra. Ma come mai anche a noi, saturi d'alfabeto e d'imago, le immagini del pittore fiorentino appaiono uniche? C'è un metodo, un linguaggio intrinseco a Giotto?

Per rispondere a queste domande, l'indagine sarà portata su due oggetti: da un lato sull'opera artistica e dall'altro sul problema del metodo. La convinzione che sottende questo secondo problema può essere così sintetizzata: come ogni immagine artistica è una riflessione sull'immagine, così ogni analisi di storia dell'arte è una riflessione sul metodo della storia dell'arte.

Due discorsi s'intrecceranno all'interno dell'analisi: il discorso sull'oggetto che progressivamente verrà ristretto alla scena del Bacio di Giuda come apoteosi drammatica del ciclo; il discorso metodologico, che mostrerà diversi approcci possibili ad un'opera così polivalente da rovesciare i canoni estetici.

Si chiarisce allora il senso del sottotitolo. L'analisi vuole essere una riflessione sul tradimento che Giotto rappresenta rispetto alla tradizione e d'altronde sulle possibilità di tradire il tradizionale schema interpretativo. Da ciò la scelta della scena del tradimento del Cristo, in quanto si tratta di uno dei più drammatici episodi dell'inconscio cristiano.

 

II. Il testo

II.1. La genesi dell'opera d'arte

Prima di passare all'analisi dell'immagine, è necessario chiarire la situazione da un punto di vista filologico. Nonostante la grande importanza storica della Cappella degli Scrovegni, le fonti sono piuttosto ridotte. Si conosce l'atto d'acquisto avvenuto il 6 febbraio 1300 a favore di Enrico Scrovegni (3). La mancanza di testimonianze dirette sulla realizzazione della Cappella ha indotto molte polemiche sulla datazione. Una lapide andata perduta stabilisce la dedicazione dell'edificio al 25 marzo 1305 (4). Si può inoltre dedurre da un documento del 1o marzo 1304 - nel quale il papa Benedetto XI promette l'indulgenza ai fedeli che avessero visitato la chiesa della Beata Maria Vergine della Carità dell'Arena - che in quel momento almeno le mura erano completate. Un'altra fonte dimostra le tensioni politiche che dividevano la Padova trecentesca: i frati agostiniani del vicino monastero degli Eremitani si ergono contro l'apertura al culto pubblico di ciò che doveva rimanere un oratorio privato. Un testo del 9 gennaio 1305 è esplicito:

[...] et quod in Arena debet esse parva ecclesia et non magna cum uno altari in modum quasi cuiusdam Oratorij, et non cum pluribus altaribus, et sine campanis, et campanile [...] ad quam concursus non fieret populi, nec debebat ibi aedificare magnam ecclesiam, et alia multa quae ibi facta sunt potius ad pompam, ed ad vanam gloriam et quaestum quam ad Dei laudem gloriam, et honorem [...]

Si noti il tono polemico contro l'usuraio Enrico Scrovegni, che tenterebbe di far dimenticare il suo quaestum costruendo la magna ecclesia e multa alia, espressione che rimane oscura. L'ultima testimonianza concerne una concessione del Maggior Consiglio di Venezia in data 16 marzo 1305 ad Enrico Scrovegni di "panni" provenienti da San Marco per la consacrazione della cappella (5). Si può assumere che la consacrazione sia avvenuta in occasione della festa dell'Annunciazione del 25 marzo, per la quale fu eseguita una Sacra Rappresentazione di fronte all'edificio. Oltre ai riferimenti filologici, alcuni antifonari della cattedrale di Padova, ormai perduti, completano le conoscenze cronologiche. Le miniature ivi presenti, datate al 1306, si riferiscono a due scene della Cappella, il Compianto del Cristo morto e il Noli me tangere, che si trovano entrambi in basso. Siccome in quell'epoca gli affreschi venivano eseguiti dall'alto in basso, la Cappella non può dunque essere stata completata successivamente al 1306.

L'attribuzione degli affreschi a Giotto, che peraltro difficilmente si può mettere in dubbio, è reperibile nella Compilatio Chronologica (1312-13) di Riccobaldo di Ferrara:

"Joctus pictor eximius florentinus agnoscitur. Qualis in arte fuerit testantur opera facta per eum in ecclesiis minorum Assisii Arimini Padue et in ecclesia Arene Padue".

Inoltre nei Documenti d'amore di Francesco da Barberino del 1313 così risulta:

"[...] unde invidiosus invidia comburitur intus et extra hanc Padue in Arena optime pinxit Giottus".

II.2. L'artista visto dai suoi contemporanei

Di nessun artista trecentesco si hanno così tante tracce nei testi contemporanei come di Giotto. Sembra che il suo successo sia stato istantaneo, come testimoniano le fonti trecentesche (6).

La più famosa testimonianza è certamente quella di Dante nella Divina Commedia, citata all'inizio. Questo passo del Purgatorio fu spesso letto come una lode di Dante a Giotto e si riferirebbe ad un'ipotetica amicizia tra i due maggiori artisti del tempo (7). Una lettura attenta dei tre versi all'interno del testo dantesco rivela invece che il poeta vuol mettere in guardia contro la fama, che è sempre solo momentanea. In effetti, Dante fa di Giotto un candidato del Purgatorio.

Vi è poi un altro contemporaneo, Giovanni Villani, che così descrive Giotto nella sua Cronica:

"il più sovrano maestro che si trovasse al suo tempo, e quegli che più trasse ogni figura e atti dal naturale" (8).

Anche Bocaccio fa apparire il pittore fiorentino all'interno del suo Decamerone (1348-53):

"niuna cosa dà la natura [...] che egli con lo stile e con la penna o il pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si trova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto" (9).

Nell'opera del pittore Cennino Cennini, attivo a Padova alla fine del Trecento, vi è pure il riscontro di un'opinione ormai diffusa:

"Giotto rimutò l'arte del dipingere di greco in latino, e ridusse al moderno" (10).

Nel Cinquecento, Vasari riprenderà i termini di Villani e di Cennini nelle sue famose Vite. Giotto era

"così buon imitatore della natura, che sbandì affatto quella goffa maniera greca e risuscitò la moderna e buona arte della pittura" (11).

L'imitazione della natura, per quanto problematica, come si vedrà, è rimasta una delle caratteristiche fondamentali di Giotto. Due leggende la confermano: la prima racconta che il giovane Giotto di Bondone stesse facendo il pastore e che avrebbe disegnato su una pietra il ritratto perfetto di una pecora. Cimabue, passando di lì, ne avrebbe fatto il suo allievo. La seconda narra di come Giotto avrebbe dipinto una mosca così realisticamente, che la gente avrebbe tentato di cacciarla.

L'altra caratteristica fondamentale che emerge dalle fonti è il carattere rivoluzionario di Giotto, che avrebbe inaugurato la modernità distaccandosi dal modello bizantino, in una rottura con la tradizione.

 

III. Il contesto

Per chiarire il contesto dell'opera, useremo un metodo sociopsicologico. Sia la sociologia che la psicologia dell'arte sono delle discipline giovani, ma interessanti perché aprono l'orizzonte della tradizionale storia dell'arte. Il merito principale delle due discipline è l'aver trasformato la classica relazione duale artista-opera in una relazione triangolare artista-opera-società. Il polo 'società' concerne sia il destinatario dell'opera che il committente. La produzione artistica non è dunque autonoma, ma inclusa nella società.

Nel suo saggio Dio e denaro (12), Richard Fremantle fornisce degli spunti per un'inquadratura storico-socio-psicologica della Cappella degli Scrovegni. Gli anni di Giotto sono, secondo Fremantle, un'"epoca di grande confusione, se non addirittura di crisi" (13). Alla fase di staticità e di povertà tra la caduta dell'Impero romano e la metà dell'XI secolo era seguita una fase di sviluppo in tutti i settori. Con il fiorire del commercio cresce anche il benessere. "Attorno al 1300 il Dio del cristianesimo si andava affievolendo. Il commercio e il denaro, l'amore per il mondo e tutto ciò che la prosperità portava con sé: questo era il nuovo vero dio" (14). Il cristianesimo entra in crisi, dovendo scegliere tra fedeltà agli ideali di povertà ed esaltazione della ricchezza, anche se a scopi religiosi.

Nel complesso si sviluppa una visione più secolare, più vicina all'uomo. Enrico Scrovegni, il figlio del ricco usuraio Reginaldo Scrovegni, è figlio del suo tempo e simbolizza il nuovo protagonista della società: né nobile, né chierico, ma detentore di potere attraverso il denaro. Malgrado gli affari, gli Scrovegni hanno però cattiva fama a Padova. Probabilmente attraverso la mediazione del personaggio rappresentato sulla scena di dedica - il 'consulente teologico', su cui si è discusso a lungo (15) - Scrovegni incontra Giotto, il "pittore più moderno e innovativo d'Europa" (16). Al pittore fiorentino affida l'incarico della decorazione della cappella, che s'eleverà sul terreno dell'antica arena romana.

La costruzione di una cappella permette di raggiungere diversi obiettivi. Come mette in rilievo Claudio Bellinati, Enrico Scrovegni si pone come miles honestus che trasforma i loca plena malis - l'arena pagana delle lotte dei gladiatori - in res honestas (17). Il mutamento del peccato in bontà sembra un motivo centrale. La cappella è il tentativo di salvare l'anima del padre defunto che, in quanto usuraio, altrimenti sarebbe finita all'inferno. Allo stesso tempo, Enrico allontana lo stesso pericolo da sé, nonostante non ci siano testimonianze dirette che confermino la sua attività d'usuraio (18). Questa tesi è largamente confermata dagli affreschi stessi: La scena della dedica alla Vergine - il riscatto dal 'vizio' -, la presenza dei molti usurai nell'inferno, il Giuda impiccato di fronte al Giuda che riceve la borsa dei trenta denari o ancora l'allegoria dell'Invidia. Enrico Scrovegni si ritiene però già salvato in quanto nella scena di dedicazione, anche vestendosi di viola (il colore della penitenza), si fa collocare tra i beati.

Accanto al significato pubblico - che venne criticato dagli Eremitani -, per Enrico la cappella aveva anche un significato privato.
L'edificio doveva servire da cappella funeraria; ciò sembra naturale, essendo la cappella collegata direttamente al palazzo padronale. Come ha inoltre ricordato Giuseppe Basile, la volta stellata richiama in modo univoco le tombe paleocristiane di Ravenna
(19). Nella cappella vennero in effetti sepolti sia Enrico che sua moglie e i nipoti.

Si può dunque parlare di una duplicità del significato privato e pubblico, rispecchiata anche negli affreschi. Per Basile, questa duplicità è reperibile d'altronde nella suddivisione dello spazio cultuale in parte per i fedeli e parte per la famiglia Scrovegni.

La Cappella degli Scrovegni è dunque una testimonianza eccezionale di un'epoca, sia dal punto di vista delle caratteristiche della società che della psicologia dei suoi protagonisti.

 

IV. L'immagine

D'ora in poi, l'analisi si concentrerà su una singola scena del ciclo dell'Arena: il Bacio di Giuda. Procedendo in questo modo, non quantitativo ma bensì qualitativo, si cercherà di mostrare il carattere intrinseco dell'arte di Giotto.

In un primo passo la scena verrà descritta seguendo il metodo di Erwin Panofsky (20). Questi prevede la distinzione in tre livelli: preiconografico, iconografico e iconologico. Si tratterà di esplorare questi livelli - ormai la norma nella storia dell'arte - per dimostrarne i limiti.

IV.1. Il metodo di Panofsky

Per Panofsky, l'analisi dello storico dell'arte deve prendere inizio nel punto in cui la pura forma viene trascesa per trasformarsi in senso. Panofsky dà l'esempio dell'incontro per strada con un conoscente che alza il cappello. L'identificazione dell'oggetto (uomo) e dell'evento (alzare il cappello) sarebbe il senso fattuale che si crea "identificando semplicemente certe forme visive con certi oggetti noti dall'esperienza pratica e identificando il cambiamento nelle loro relazioni con certe azioni o eventi" (21). Ogni oggetto ed evento produce una reazione, positiva, negativa o indifferente. Insomma, si può parlare di 'empatia' o anche di senso espressionale. Sia il senso fattuale che quello espressionale si congiungono nel senso primo o naturale.

Oltre ad identificare le forme pure e le relazioni tra loro, riconosciamo anche l'alzare il cappello come un segno di saluto. Questo riconoscimento presuppone la nostra conoscenza del mondo culturale, delle usanze e delle tradizioni in cui viene svolto il gesto. Al senso primo si aggiunge un secondo senso o senso convenzionale. Contrariamente al primo, che è sensibile, questo è invece intelligibile.

Il gesto fatto dal conoscente rappresenta però più del mero saluto. Esprime la sua personalità, il suo modo di essere, la sua educazione, il suo tempo (22). Quest'ultimo senso viene chiamato da Panofsky senso intrinseco o contenuto. Mentre i due primi sensi sono fenomenici, quest'ultimo è essenziale. Si può definire come "principio che sottostà e spiega sia l'evento visivo che il significato intelligibile" (23).

Panofsky adatta questi livelli all'analisi dell'opera d'arte, introducendo tre livelli: quello preiconografico, quello iconografico e quello iconologico.

IV.1.1. Livello preiconografico

Questo primo livello studia le forme pure. Il mondo delle forme pure in quanto portatrici di senso primo o naturale può essere chiamato mondo dei motivi artistici. I motivi sono però limitati al mondo dell'esperienza, non fanno riferimento ai codici della storia dell'arte. In questo primo passo la scena del Bacio verrà dunque descritta come appare a qualcuno che è del tutto estraneo al linguaggio artistico.

La scena rappresenta una massa di persone armate di lance, clave, caschi, fiaccole, corni e che è divisa in due gruppi. Questi costituiscono un semicerchio attorno a due figure centrali rappresentate di profilo. L'uomo a destra avvolge con il suo mantello giallo l'uomo aureolato a sinistra e si appresta a baciarlo. Davanti al gruppo di destra è chinato un altro uomo dall'espressione impaurita che mostra col braccio destro la figura aureolata centrale. Sul lato sinistro, un personaggio visto da ridosso, vestito di una cappa azzurra, tiene con la sinistra un pezzo di mantello rosa. Accanto a lui, un uomo aureolato stacca con una daga l'orecchio del personaggio che gli sta davanti. Tutte le figure dell'avanscena sono individuali e trasmettono la loro corporeità, le figure in semifondo sono solo accennate.

IV.1.2. Livello iconografico

Questo secondo livello studia la connessione di motivi artistici e la loro combinazione (la composizione) con temi o concetti. I motivi portatori di senso secondario o convenzionale possono essere chiamati immagini e le combinazioni storie o allegorie. Il procedimento dell'iconografia è dunque innanzitutto riconoscitivo, identificatorio.

L'immagine del Bacio mette in scena un episodio centrale della vita del Cristo: il bacio di Giuda e l'arresto del Messia. Per svolgere l'atto identificatorio è necessaria la conoscenza dei testi a cui la scena fa riferimento. In questo caso, si deve presumere che Giotto usi i vangeli di Marco e Luca (24). Entrambi riportano il bacio del discepolo, la massa di accoliti e il compagno del Cristo che taglia l'orecchio ad uno di essi, il servo del Sommo Sacerdote (25). Il personaggio a sinistra col lenzuolo dimostra la lettura del vangelo di Marco (26). Si può anche pensare ad una lettura del vangelo di Giovanni, dove alcuni personaggi sono citati per nome: il seguace che taglia l'orecchio sarebbe Simon Pietro e il servo del Sommo Sacerdote si chiamerebbe Malco (27). Il momento drammatico del bacio - o meglio, un attimo prima del bacio - può essere letto come un riferimento a Luca: "Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell'Uomo?" (28) Il fatto che Giotto abbia scelto l'attimo prima del bacio esprime la sua abilità di drammaturgo. Il messia e il traditore non si toccano (29).

Si potrebbe a questo punto proseguire con un confronto con altre opere che dipingono la stessa scena, si potrebbe ancora approfondire l'analisi dei singoli dettagli. Come dice però Panofsky: "L'iconografia considera solo una parte di tutti questi elementi che entrano nel contenuto intrinseco dell'opera d'arte e bisogna esplicitarli se la percezione di questi contenuti deve diventare articolata e comunicabile" (30). Questo compito tocca all'iconologia.

IV.1.3. Livello iconologico

Il terzo livello vorrebbe stabilire i "principi sottostanti che rivelano l'attitudine di base di una nazione, un periodo, una classe, una convinzione religiosa o filosofica - qualificata da una personalità e condensata in un'opera" (31). La vicinanza col 'valore simbolico' di Ernst Cassirer è palese. L'opera d'arte diventa così testimone di un mondo che la circonda, è "espressione di qualcosa d'altro" (32). Mentre i due primi livelli si limitano ad un'identificazione, quest'ultimo procede ad un'interpretazione. Nonostante Panofsky non esprima direttamente quest'idea, si può presumere che una differenza ulteriore tra il secondo e il terzo livello è che mentre l'iconografia porta alla luce i temi e i motivi voluti dall'artista, l'iconologia studia le idee che sorpassano le intenzioni dell'artista. Però il superamento dell'artista paradossalmente avviene attraverso l'individualità dell'artista stesso. Una dimensione essenziale dell'iconologia è perciò l'orientamento all'empatia, al vivere emotivamente la scena. Si trascende così la mera messa in immagini di codici iconografici per giungere ad un livello più universale.

L'apertura al mondo empirico, dell'esperienza non può trovare una migliore espressione che in Giotto. Infatti, per radicalizzare i pensieri di Panofsky, si potrebbe dire che l'iconologia, nel senso dell'apertura all'empatia dello spettatore, prende inizio effettivamente nel pittore fiorentino. Vari studiosi hanno messo in rilievo la relazione che Giotto istaura tra l'immagine e lo spettatore. Nel famoso saggio di 1927, Panofsky applica alla storia dell'arte le categorie di Ernst Cassirer, filosofo e collega all'Istituto Warburg, ed attribuisce a Giotto la scoperta della prospettiva spaziale, l'accentuazione e sistematizzazione del mondo esterno e l'ampliamento della sfera dell'io (33). Per Max Dvorak, inoltre, Giotto realizza la svolta verso la realtà del mondo e il trattamento artistico del visibile (34). Dagobert Frey, infine, insiste principalmente sulla soggettivizzazione del sentimento religioso che rende possibile l'immedesimazione dello spettatore con i protagonisti dell'azione (35).

Si avrebbe in questo punto un'altra dimostrazione della pertinenza del procedimento: l'interrogazione contemporanea su oggetto e metodo s'impone nel caso dell'arte di Giotto. Per radicalizzare la tesi: La riduzione al livello individuale - apporto fondamentale di Giotto all'arte -, che permette la relazione diretta spettatore-opera, corrisponde all'essenza dell'iconologia di Panofsky. In generale, si può mostrare che il ciclo dell'Arena va al di là dell'immagine, che esprime una dimensione universale che, pur restando letta dall'individualità dell'artista, trascende l'artista stesso. Per dirla nei termini dell'autore che costituirà il punto di riferimento delle riflessioni che seguono: "Il metodo iconologico non si occupa tanto della testimonianza particolare quanto piuttosto dell'universale che è testimoniato" (36).

Diversi studi hanno messo in rilievo che gli affreschi sono espressione dello spirito del loro tempo, della nascente consapevolezza del singolo, dell'accettazione del mondo sensibile ovvero che mettono in immagine lo spirito soteriologico francescano. Daremo solo un esempio di analisi iconologica: nel suo studio originale sul programma mnemotecnico negli affreschi della Cappella (37), Sven Georg Mieth ha messo in evidenza lo stretto legame che esiste tra le diverse scene del ciclo. Egli dimostra per esempio l'analogia tra la Presentazione al Tempio e il Bacio di Giuda, laddove la scena è centrata su due protagonisti (Cristo-Simeone, Cristo-Giuda) (38). Al di là di questo livello formale, per il nostro discorso è invece interessante la breve analisi iconologica su Cristo quod una imago. Mieth presenta la sua lettura della scena del Bacio come una riflessione sulla compassio cristiana. Giotto mostrerebbe il pericolo di una compassione cieca, di una reazione impulsiva alla violenza fatta al Cristo. La falsa compassione, rivolta contro la violenza, ricorre invece essa stessa alla violenza. Formalmente, la daga di Pietro risponde alla clava dei nemici di Gesù. Il Cristo - e dunque la Chiesa - è doppiamente in pericolo.

Senza entrare nel dettaglio, si può rilevare il carattere dell'andare oltre l'immagine che caratterizza l'iconologia. Però ciò che sembra intrinsecamente peculiare all'iconologia la riavvicina all'iconografia. Anche l'iconografia prende inizio da una riflessione sul linguaggio visivo che è il presupposto dell'immagine. In questo senso entrambe, l'iconografia e l'iconologia, vivono dell'oltre dell'immagine.

Il merito del metodo di Panofsky è stato di mostrare l'interconnessione tra l'arte e ciò che la circonda. L'arte non viene più intesa nel senso kantiano di autonomia, ma rinvia sempre ad altro. La conseguenza è stata un'apertura della storia dell'arte ad altri ambiti. Bisogna però chiedersi, se il metodo iconografico-iconologico riesca veramente a cogliere tutte le dimensioni dell'immagine. Essa si esaurisce veramente in una -grafia e in una -logia che in realtà non concernono l'icona, ma ciò che la circonda?

IV.2. Il metodo di Imdahl

Nella sua nota opera Giotto - Arenafresken. Ikonologie, Ikonographie, Ikonik, Max Imdahl sviluppa una nuova concezione che parte dalle categorie di Panofsky ed ha lo scopo di sorpassarle.

Implicitamente, Max Imdahl si distacca da Panofsky in un aspetto principale. Egli non cerca il senso dell'opera d'arte nell'"espressione di qualcosa d'altro" (39), ma vede in essa l'espressione della sua stessa essenza. La verità dell'immagine non viene dunque più cercata nei testi o nelle idee del tempo, ma nell'immagine stessa. Fin dall'inizio del testo, Imdahl è consapevole della problematicità dell'approccio: "La domanda decisiva [è] se e come, nonostante ogni referenza, l'identità dell'immagine può persistere al di là di ogni referenza" (40).

IV.2.1. Iconica

Per arrivare alla sua concezione di iconica (41), Imdahl intraprende una lettura minuziosa sia dell'iconografia che dell'iconologia. Peraltro egli non intende sviluppare una disciplina diversa, ma intende proporre un ampliamento delle precedenti. "Ovviamente iconografia e iconologia da un lato e iconica dall'altro non costituiscono una contraddizione" (42). Dove si situa allora la novità del discorso iconico? (43)

Nonostante riconosca l'apertura realizzata da Panofsky, Imdahl vede sia nell'iconografia che nell'iconologia le espressioni di un'unica modalità di visione: il vedere riconoscitivo. Radicalizzando il concetto di forma del Panofsky, o si vede qualcosa di già conosciuto o non si vede niente; la possibilità di una visione indipendente viene esclusa. Agli antipodi si situa Konrad Fiedler che concepisce l'immagine artistica come un'apparizione tra le altre (44). Egli non si richiama dunque ad un mondo di idee, di contenuti espressi nell'immagine, ma al mondo dell'esperienza. Fiedler critica la concezione di un vedere riconoscitivo che identifica oggetti esterni, propone invece una visione formale, autonoma.

Imdahl mette a confronto queste due posizioni opposte: Panofsky, difensore di un vedere riconoscitivo e Fiedler di un vedere vedente. Queste posizioni sembrano inconciliabili tra loro, invece Imdahl tenterà precisamente di conciliarle, come risulta dal passo seguente, in cui si riflette su

"quando le esperienze di un vedere autonomo, vedente e di un vedere degli oggetti eteronomo e riconoscitivo e i loro corrispettivi livelli di senso sintattico e semantico si intrecciano in un'identità insostituibile, quando il vedere riconoscitivo e il vedere vedente interagiscono fino alle insospettate o persino insospettabili esperienze di un vedere conoscitivo" (45).

Ciò che l'autore esprime in questo passo in modo molto compatto è in verità il cuore dell'iconica. È davvero possibile un vedere conoscitivo? Una visione che "renda esperibile l'inesperibile"? (46)

Invece di rispondere a questa domanda in modo teorico, ci proponiamo di leggere il Bacio di Giuda in chiave iconica. Un vedere formale, vedente si concentrerebbe sulla composizione. Un vedere riconoscitivo si concentrerebbe sull'aspetto scenografico. Per dirla in altri termini, il primo approccio tratta della sintattica, il secondo della semantica. Ma prima ancora di queste distinzioni: come parla l'immagine? E soprattutto, è possibile ricongiungere la frase intera?

Più che analitico, il lavoro dello storico dell'arte deve in questo punto diventare sintetico. Lo sforzo deve essere quello di ricongiungere i diversi livelli che ha scoperto nell'immagine. Bisogna verificare la frase di Imdahl, se "la visione iconica è un esplorare creativo e incompiuto delle potenzialità di strutturazione contenute nell'immagine" (47). Nel caso della scena del Bacio, vi è una diagonale che funge da diagonale, da nesso tra tutti i livelli accennati. La diagonale che prende inizio nella clava, attraversa le teste del Cristo e del traditore per raggiungere il dito del fariseo. Questa diagonale corrisponde sia ad un vedere formale che ad un vedere drammaturgico che mette in scena i personaggi del Vangelo. Essa guida l'occhio, gli permette di immedesimarsi nella scena. In questo senso, l'aspetto dell'empatia messo in rilievo da Panofsky è proprio dovuto ad un aspetto formale.

Inoltre, la diagonale riveste una funzione iconografica. Come avviene che lo sguardo dello spettatore si porta direttamente sul Cristo? Non può essere solo l'effetto dell'aureola, poiché anche San Paolo la porta. Nell'iconografia bizantina, i protagonisti hanno degli attributi immutabili e sono pertanto subito riconoscibili. Giotto invece non rimanda soltanto al sapere iconografico dei suoi spettatori, ma dispone i suoi personaggi in modo tale da rendere obsoleta una parte degli attributi. Tramite la diagonale, il pittore costruisce una iconografia di rapporti di forza. Il Cristo, che sembra il personaggio in più grande pericolo, riacquisisce così la sua forza. Egli è il cardine dell'immagine intera ed è persino più alto di Giuda. Prendendo in considerazione un'altra diagonale che segue il corpo chinato in avanti del Cristo e termina in una delle lance, il Cristo rappresenta il centro di una croce, composta da due diagonali.

Nella sua posizione quasi centrale (48), la figura di Gesù affascina per la sua ambiguità. D'un canto, la minaccia imminente è espressa sia dal cerchio che si rinchiude sul Cristo che dalla diagonale della clava e del dito accusatorio. Il Cristo si trova indubbiamente in posizione di debolezza estrema. D'altro canto, com'è stato mostrato, la composizione gli attribuisce una forza indubbia. In questo punto, l'immagine oltrepassa il testo.

IV.2.2. Il linguaggio dell'immagine

Nel Bacio di Giuda si rappresenta la simultaneità di forza e di debolezza che i Vangeli non possono esprimere. Perciò le possibilità del linguaggio visivo eccedono quelle del linguaggio verbale. Ma queste possibilità non sono date fin da principio. Il visivo non sempre è visibile. L'arte visiva è arte quando riesce a "rappresentare in modo visibile [anschaulich] ciò che normalmente sarebbe invisibile [Unanschauliches]" (49).

Ma in che cosa si distingue il linguaggio dell'immagine, il linguaggio iconico rispetto a quello verbale? Mentre indubbiamente il testo ha piuttosto delle caratteristiche narrative e dunque di successività, abbiamo dimostrato il carattere di simultaneità dell'immagine. La simultaneità si rivela in tanti sensi diversi. Abbiamo innanzitutto una simultaneità di qualità opposte della realtà, come per esempio la compresenza di forza e debolezza; poi una simultaneità delle forme espressive per cui forme contrapposte come diagonale e cerchio non hanno un valore di per sé, ma solo nella compresenza; inoltre una simultaneità di conosciuto e di sconosciuto, di riferimento testuale e di riferimento all'esperienza umana, di vedere riconoscitivo e di vedere formale, vedente; infine una simultaneità della narrazione, per cui un evento così ricco di dettagli, come quello dell'arresto del Cristo, viene dipinto in un'unica scena di una straordinaria chiarezza.

Quest'ultimo elemento mette in rilievo un altro carattere fondamentale dell'immagine: la concentrazione. In un quadro è concentrata una pluralità di forme e di significati. L'immagine permette - e presuppone - un 'panottismo'. Vedendo un elemento dell'immagine vediamo sempre tutta l'immagine. L'immagine non ha un inizio e una fine che ne prefigurano la lettura. Se guardiamo un immagine, guardiamo prima tutta l'immagine. La narrazione si compie all'interno di questo tutto, può condurre ad elementi singoli, ma riporterà poi sempre all'immagine intera. Il concetto di concentrazione come caratteristica dell'immagine è stata rilevata anche da Nelson Goodman, il quale ha sviluppato i diversi livelli di densità (sintattica, semantica) in Languages of Art(50). Anche Henri Bergson parla più volte di "intensification".

Adesso è più chiaro l'obiettivo di Imdahl di voler raggiungere "l'immagine come un tutto". Solo in questo tutto, che è il tutto della simultaneità e della concentrazione, l'immagine rivela la sua natura. L'analisi della storia dell'arte deve sempre partire dall'immagine come un tutto nel quale sono compresenti i diversi livelli preiconografici, iconografici e iconologici fin dall'inizio e non come progressivi stadi gerarchici. O forse deve ammettere persino che non ci siano affatto livelli diversi. Nell'epoca della 'post-arte', non necessariamente questi criteri possono avere ancora un valore. Peraltro tali sviluppi non sono nuovi. Già nella pittura fiamminga e olandese l'apparizione di generi come la natura morta o il paesaggio mettono in crisi il concetto di referente testuale. La pittura astratta mette poi in crisi il concetto di referente in generale.

Ma se l'immagine non ha più referente esterno, mantiene però sempre un referente: se stessa. Ogni immagine parla dell'immagine. Ogni immagine dice qualcosa sulla natura dell'immagine. O detto in altri termini: ogni immagine è iconica.

In questo senso, il padre della storia dell'arte Giorgio Vasari e con lui molti altri misconoscono il carattere dell'arte di Giotto se la limitano ad un'imitazione della natura. Il movimento della mimesis, dalla 'realtà' alla copia, diventa insostenibile quando la realtà si rivela inafferrabile e contraddittoria. Come si è detto all'inizio, nel Protorinascimento trecentesco due mondi opposti, quello spirituale e quello secolare, affermano con lo stesso vigore la loro realtà. Un artista come Giotto non sceglie tra questi due mondi. L'immagine gli permette di esprimerli ambedue.

Bisogna però tenere presente la svolta fondamentale: non c'è più un originale unico (la realtà) che permette una moltitudine mimetica di copie (le immagini). Invece è l'immagine che diventa il fulcro dell'unificazione, della sintesi, dell'unità e che rimanda ad un mondo plurale e molteplice. L'immagine non ha più referente, ma lo crea. L'arte crea la realtà.

 

V. Conclusione

Al di là dei singoli contributi di Giotto allo sviluppo artistico, questo lavoro ha cercato di dimostrare come Giotto apre la questione stessa dell'immagine. Altrimenti come sarebbe possibile concepire il fatto che - se l'arte è intesa come sprone permanente, come sfida irriducibile - l'arte di Giotto mantenga la sua forza irrompente?

L'arte non è mai autonoma, e Giotto ne è forse la migliore dimostrazione. La pittura del fiorentino ci dimostra che l'arte tocca tutti i campi dell'umano. Attraverso i diversi approcci metodologici si è cercato di rendere omaggio a questa pluralità, pur sostituendo la simultaneità del carattere testuale con la successione della lettura interpretativa. Ma questo evidenzia in maniera ancora più decisa il potere dell'immagine. In un'epoca che si definisce attraverso la frantumazione e la dispersione, la Cappella degli Scrovegni sembra la concentrazione d'un mondo in una serie di immagini. Forse per questo motivo manterrà il suo fascino, perché l'arte di Giotto permette interpretazioni infinite. Ciascuno ritrova un pezzo del suo mondo e partendo da esso lo ricostruisce nella sua totalità. Per rendersi poi magari conto alla fine che l'immagine nella sua polisemia infinita renderà sempre impossibile ogni totalizzazione. Confrontati con l'immagine, siamo costretti a ricominciare da capo.

Il Bacio di Giuda si disvela come una metafora dell'arte stessa. L'istante rappresentato, questo scarto minimo è lo scarto tra gli opposti. L'attimo che risponde alla tradizione, che crea la tradizione, ma anche l'attimo del tradimento, questo varco ancora angusto nel quale sorge la novità, quando viene 'tradìto' il 'tràdito', dove la creazione sovverte il presente. La giovane "Bildwissenschaft", la scienza dell'immagine, troverà nelle tracce lasciate dall'iconica di Imdahl, ormai in larga misura seppellite, una guida preziosa per il sentiero da percorrere unterwegs zum Bild, in cammino verso l'immagine.

 

VI. Bibliografia

  • Hans BELTING, Bild und Kult. Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, Monaco 1990

  • Gottfried BOEHM, Was ist ein Bild?, Monaco 1994

  • Giuseppe BASILE, "La Cappella degli Scrovegni e la cultura di Giotto", in ID., Giotto. La Cappella degli Scrovegni, Milano 1992

  • Claudio BELLINATI, Iconografia, iconologia e iconica nell'arte nuova di Giotto alla Cappella Scrovegni dell'Arena di Padova, in: "Padova e il suo territorio", IV (1989), pp. 16-21

  • ID., "L'estetica teologica nel ciclo di affreschi della Cappella di Giotto all'Arena di Padova", in Vittorio Sgarbi (a cura di), Giotto e il suo tempo, Milano 2000, pp. 87-92

  • Richard FREMANTLE, "Dio e denaro. Giotto e la Cappella degli Scrovegni nell'Arena romana", in Vittorio Sgarbi (a cura di), Giotto e il suo tempo, Milano 2000, pp. 58-65

  • Nelson GOODMAN, Languages of Art. An Approach to a Theory of Symbols, Indianapolis/Cambridge 1976

  • Max IMDAHL, Giotto - Arenafresken. Ikonologie, Ikonographie, Ikonik, Monaco 1980

  • ID., "Ikonik. Bilder und ihre Anschauung" in: Gottfried Boehm (a cura di), Was ist ein Bild?, Monaco 1994, p. 300-324

  • Sven Georg MIETH, Giotto. Das mnemotechnische Programm der Arenakapelle in Padua, Tubinga 1991.

  • Erwin PANOFSKY, "Iconology and Iconography. An introduction to the study of Renaissance Art", in Meaning in the visual art, New York 1957, pp. 26-54.

  • Roberto SALVINI, Giotto. Bibliografia, Roma 1970

  • Vittorio SGARBI (a cura di), Giotto e il suo tempo, catalogo della mostra a Padova, Milano 2000

 

Note:

(1) H. Belting, Bild und Kult. Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, Monaco 1990.

(2) G. Boehm (a cura di), Was ist ein Bild?, Monaco 1994.

(3) I riferimenti bibliografici a questa e alle seguenti fonti si trovano in G. Basile, "La Cappella degli Scrovegni e la cultura di Giotto", in Id. (a cura di), Giotto. La Cappella degli Scrovegni, Milano 1992, pp. 18 ss.

(4) L'epigrafe è stata trascritta in un codice dell'Archivio Vescovile padovano:

HIC LOCUS ANTIQUO DE NOMINE DICTUS ARENA / NOBILIS ARA DEO FIT MULTO NUMINE PLENA / SIC AETERNA VICES VARIAT DIVINA POTESTAS / UT LOCA PLENA MALIS IN RES CONVERTAT HONESTAS / ECCE DOMUS GENTIS FUERAT QUAE MAXIMA DIRAE / DIRUTA CONTRUITUR PER MULTOS VENDITA MIRE / QUI LUXUM VITAE PER TEMPORA LAETA SECUTI / DIMISSIS OPIBUS REMANENT SINE NOMINE MUTI / SED DE SCROVEGNIS HENRICUS MILLES HONESTUM / CONSERVANS ANIMUM FACIT HIC VENERABILE FESTUM / NAMQUE DEI MATRI TEMPLUM SOLEMNE DICARI / FECIT UT AETERNA POSSIT MERCEDE BEARI / SUCCESSIT VITIIS VIRTUS DIVINA PROPHANIS CAELICA TERRENIS QUAE PRAESTANT GAUDIA VANIS / CUM LOCUS ISTE DEO SOLEMNI MORE DICATUR / ANNORUM DOMINI TEMPUS NUNC TALE NOTATUR / ANNIS MILLE TRIBUS TERCENTUM MARCIS ALMAE / VIRGINIS IN FESTO CONIUNXERAT ORDINE PALMAE.

Cit. da C. Bellinati, Iconografia, iconologia nell'arte nuova di Giotto alla Cappella Scrovegni dell'Arena di Padova, "Padova e il suo territorio", IV (1989), pp. 16-21, in part. p. 21.

(5) La concessione è riportata in A. Moschetti, La Cappella degli Scrovegni e gli affreschi di Giotto in essa dipinti, Firenze 1904, p. 18.

(6) Le fonti a cui questo capitolo fa riferimento sono tutte contenute in R. Salvini, Giotto. Bibliografia, Roma 1970. Riportiamo qui soltanto le testimonianze più significative.

(7) La tesi dell'amicizia è difficilmente sostenibile, se non altro per le divergenze politiche tra Giotto papista e Dante in lotta contro Bonifacio VIII. Nessuno studio che abbia comparato le due opere ha potuto stabilire influenze reciproche.

(8) G. Villani, Cronica, XI, 12.

(9) Boccaccio, Decamerone, giornata VI, novella 5a.

(10) C. Cennini, Il libro dell'arte, cap. I.

(11) G. Vasari, Vite, I, 372.

(12) R. Fremantle, "Dio e denaro. Giotto e la Cappella degli Scrovegni nell'Arena romana", in V. Sgarbi (a cura di), Giotto e il suo tempo, Milano 2000, pp. 58-65.

(13) Ivi, p. 58.

(14) Ibid.

(15) G. Basile, "La Cappella degli Scrovegni e la cultura di Giotto", in Id. (a cura di), Giotto. La Cappella degli Scrovegni, Milano 1992, p. 20, n. 20.

(16) R. Fremantle, "Dio e denaro", cit., p. 62.

(17) G. Bellinati, "L'estetica teologica nel ciclo di affreschi della Cappella di Giotto all'Arena di Padova", in V. Sgarbi (a cura di), Giotto e il suo tempo, cit., pp. 87-92, in part. p. 87.

(18) Cfr. a questo riguardo G. Basile, "La Cappella degli Scrovegni", cit., n. 14.

(19) Ivi, p. 13.

(20) E. Panofsky, "Iconology and Iconography. An introduction to the study of Renaissance Art", in Id., Meaning in the visual art, New York 1957, p. 26-54.

(21) "[...] by simply identifying certain visible forms with certain objects known to me from practical experience, and by identifying the change in their relations with certain actions or events", ivi, p. 26.

(22) Queste definizioni sono stranamente vicine a quelle date per il secondo livello. Come verrà dimostrato in seguito, queste definizioni non permettono di concepire un'iconologia davvero differente dall'iconografia.

(23) "It may be defined as a unifying principle which underlies and explains both the visible events and ist intelligible significance [...]", E. Panofsky, "Iconology and Iconography", cit., p. 28.

(24) Per tante altre scene si rifà invece ai Vangeli Apocrifi, specialmente per quanto riguarda la storia di Maria.

(25) Marco XIV, 43-52 e Luca XXII, 47-53.

(26) "Vi fu però un giovanetto che lo seguiva, avvolto in un lenzuolo sul corpo nudo, e lo presero. Ma lui, lasciando il lenzuolo, scappò via nudo", Marco XIV, 51-52.

(27) Giovanni XVIII, 10.

(28) Luca XXII, 48.

(29) Si pensa in questo contesto immediatamente alla Cappella Sistina di Michelangelo.

(30) E. Panofsky, "Iconology and Iconography", cit., p. 32.

(31) "those underlying principles which reveal the basis attitude of a nation, a period, a class, a religious or philosophical persuasion - qualified by one personality and condensed into one work", ivi, p. 30.

(32) "the work of art as expression of something else", ivi, p. 31.

(33) E. Panofsky, "Die Perspektive als symbolische Form", in Id., Aufsätze zur Grundfragen der Kunstwissenschaft, a cura di H. Oberer e E. Verheyen, Berlin 1998, pp. 99, 116, 123.

(34) M. Dvorak, Kunstgeschichte als Geistesgeschichte. Studien zur abendländischen Kunstentwicklung, Monaco 1924.

(35) D. Frey, Giotto und die maniera greca. Bildgesetzlichkeit und psychologische Deutung, in Wallraf-Richartz-Jahrbuch, XIV (1952). Si ritornerà sul concetto di immedesimazione che si contrappone a quello di imitazione vasariano.

(36) "Die ikonologische Methode ist weniger mit dem je besonderen Zeugnis als vielmehr mit dem bezeugten Allgemeinen befaßt", M. Imdahl, Giotto - Arenafresken. Ikonologie, Ikonographie, Ikonik, Monaco 1980, p. 87.

(37) S. G. Mieth, Giotto. Das mnemotechnische Programm der Arenakapelle in Padua, Tubinga 1991.

(38) Ivi, pp. 110 s.

(39) "the work of art as expression of something else", M. Imdahl, Giotto - Arenafresken, cit., p. 31.

(40) "entscheidende Frage, ob und wodurch die Identität von Bildlichkeit bei aller Referenz dennoch über alle Referenz hinaus bestehen kann", ivi, p. 10.

(41) L'iconica si riferisce all'eikon come logica a logos o etica a ethos. Ivi, p. 92 e M. Imdahl, "Ikonik. Bilder und ihre Anschauung", in G. Boehm (a cura di), Was ist ein Bild?, cit., p. 308.

(42) "Selbstverständlich bilden Ikonographie und Ikonologie einerseits und Ikonik andererseits keinen Gegensatz", M. Imdahl, Giotto - Arenafresken, p. 97.

(43) Sembra opportuno mettere in guardia contro certe letture strabilianti di Imdahl. Nel suo saggio Iconografia, iconologia e iconica nell'arte nuova di Giotto alla Cappella Scrovegni dell'Arena di Padova, in "Padova e il suo territorio", IV (1989), pp. 16-21, Claudio Bellinati strumentalizza in modo inaccettabile concetti di Imdhal [sic!]. Egli cita da non si sa dove, affermando che l'iconica sarebbe un "vedere 'grazioso' che coglie la poesia dell'opera d'arte" (ivi, p. 18). Certi passi non necessitano spiegazione: "Entriamo in quella iconica o poesia degli affreschi di Giotto, già intuita dal Panofsky" (ivi, p. 19).

(44) K. Fiedler, Schriften über Kunst, a cura di G. Boehm, Monaco 1971. Secondo Fiedler, l'oggetto di ogni arte è la tematizzazione della visione stessa.

(45) "wenn die Erfahrungen eines autonomen, sehenden Sehens und eines heteronomen, wiedererkennenden Gegenstandssehens und die ihnen entsprechenden syntaktischen und semantischen Sinnebenen zu einer durch nichts anderes zu substituierenden Bildidentität ineinander vermitteln, wenn das wiedererkennende Sehen und das sehende Sehen zu den ungeahnten oder gar unvordenklichen Erfahrungen eines erkennenden Sehens zusammenwirken", M. Imdahl, Giotto - Arenafresken, cit., p. 92.

(46) Una "intensiv[e] und reflektierend[e] Bildanschauung" rende possibile "das sonst Nichterfahrbare erfahrbar zu machen", ivi, p. 14.

(47) "die ikonische Anschauung [ist] ein kreatives und selbst unabschließbares Durchspielen des im Bilde gegebenen Strukturierungspotentials", M. Imdahl, "Ikonik. Bilder und ihre Anschauung", cit., p. 318.

(48) In realtà, le due figure del Cristo e di Giuda non sono centrali, ma leggermente spostate verso la sinistra. Rispetto alla staticità delle icone bizantine a schema centrale, gli affreschi di Giotto acquisiscono così la loro dinamica.

(49) "Bilder [...] die es vermögen, ein eigentlich Unanschauliches anschaulich zu repräsentieren", M. Imdahl, "Ikonik. Bilder und ihre Anschauung", cit., p. 313.

(50) N. Goodman, Languages of Art. An Approach to a Theory of Symbols, Indianapolis/Cambridge 1976.