Jean-Luc Nancy, Cascare dal sonno

  • Stampa

Cascare dal sonno

 

Jean-Luc Nancy

 

Cascare dal sonno

 

Traduzione italiana e postfazione di Rosella Prezzo

Raffaello Cortina, Milano 2009, 
ISBN 9788860302977, € 10,50

 

 

 

 


Casco dal sonno. Casco nel sonno e vi casco per effetto del sonno. Come casco di stanchezza, di noia. Come cado nella disperazione. Come cado, in genere” (p. 11). Questo l’incipit dell’ultimo libro di Jean-Luc Nancy, Cascare dal sonno. L’edizione italiana si è avvalsa della competenza di Rosella Prezzo, che ne ha curato la traduzione e che è autrice della densa postfazione, intitolata “Nottetempo”.

Nove brevi capitoli per un libro sorprendente, che fin dalle prime battute promette un’incursione originale – filosofica e insieme poetica – nelle distese del sonno e del sogno: il tentativo arrischiato di lambire con discrezione, con tatto, l’esperienza inconscia del dormiente, di sfiorare il suo corpo “spirituale” deposto, le palpebre spalancate verso l’interno, verso il “punto cieco del sonno”.

Ancora una volta Nancy azzarda un’incursione in territori-limite, dove l’equipaggiamento epistemico della filosofia è messo a repentaglio nel confronto con dimensioni che sfuggono alla presa del concetto, che obbligano il logos razionale ad inclinare il sussiego conoscitivo verso le possibilità mai predeterminate del “fare esperienza”.

Pagina dopo pagina, le parole di Nancy rotolano lungo il piano inclinato in cui il sonno consiste, quel “venir meno improvviso” dell’io che è sprofondamento, rinuncia, abbandono, de-tensione prossima all’“intimità con la pura inerzia”: “Sentiamo la sospensione del sentire. Ci sentiamo cadere, sentiamo la caduta” (p. 13). Il sonno ci rapisce e ci vince, facendoci scivolare verso la vacuità di noi stessi, verso il cuore vuoto del sé dove svaniscono le distinzioni tra proprio e improprio, tra interno ed esterno, e “tutto si riassorbe in me senza che io possa più distinguermi da qualcosa d’altro” (p. 21).

In questa capitolazione a cascata, in cui “io casco in me e me cade in sé” (p. 27), in cui – con una delle espressioni più poetiche del libro – io “divento per me stesso l’abisso e il tuffo”, Nancy ci invita a prestare orecchio all’eco di un mormorio, al sospiro che “sfugge da labbra dischiuse appena”: ego sum, esile vibrazione sonora che proviene dall’“interstizio infimo e intimo tra sé e sé, laddove sé è sé” (p. 30): non la consistenza chiara ed evidente di una presenza stabile, ma il brontolio dell’inconscio: “Una emissione preverbale che deposita sul cuscino una traccia appena visibile, come se un po’ di saliva fosse filtrata dalla bocca addormentata” (p. 30).

L’attestazione di esistenza del soggetto che precipita nel sonno è tutt’uno con l’esalazione ritmica del respiro e con l’effusione degli umori corporei, un brusio vocalico che risuona nel vuoto dell’io che si ritira, nel dissolvimento della domanda, dell’inquietudine, del dubbio. Ma proprio il sé del dormiente – un sé che si trattiene nell’assenza di sé, nell’apparenza della propria sparizione – coincide per Nancy con la kantiana cosa in sé: “La cosa, isolata da ogni manifestazione, da ogni fenomenalità, la cosa addormentata, in riposo, al riparo dai saperi, dalle tecniche e da ogni tipo di arte, esente da pregiudizi o prospettive. La cosa non misurata, non misurabile, la cosa concentrata nella sua cosità indeterminata e inapparente” (p. 31).

Dove scivola il dormiente, in quale abisso si tuffa colui che casca nel sonno? C’è per Nancy “uno spazio indistinto in cui dormiamo tutti, gli uni come gli altri” (p. 28), un “mondo uguale” in cui “tutto è riportato all’equivalenza generale (…). Il dormiente non conosce che l’uguaglianza, la misura comune a tutti e che non ammette punti di scarto né di disparità. Tutti i dormienti cadono nello stesso, identico e uniforme sonno” (p. 35). Lo spazio spalancato dal sonno riporta ciascuno allo stadio precedente di un’indistinzione, alla zona neutra e indifferenziata dell’essere dove impera l’oscurità, il silenzio, l’apatia, che sta al di qua della successione temporale dei giorni, un Aperto che occupa contemporaneamente il centro della terra e gli spazi extra-planetari, che abbraccia e circonda tutto l’essere e verso cui – simili a galassie – “andiamo alla deriva, come in un’espansione infinita” (p. 38).

Il sonno si fa allora realtà di una trascendenza simultanea verso la dimensione ctonia e infinita, verso quel “mondo precedente, il magma, il caos, la khora” che la luce del giorno e il terrore del vuoto hanno obliato e che il sonno ci consente di riscattare (re-ex-captare, il movimento del tornare a prendere qualcosa che è stato negato, come ci ricorda opportunamente Rosella Prezzo in un suo lavoro dedicato a María Zambrano (1)).

Sarà per contrastare questa trascendenza notturna che il mondo contemporaneo ha colonizzato la Notte, rischiarandola con milioni di megawatt e agitandola con occupazioni, attività e produzioni a ciclo ininterrotto? Se – come scrive Nancy – “il sonno è il riconoscimento della notte”, abbandono e affidamento a questa dimensione passiva che “depone le posizioni, disarma i sistemi di attivazione, scioglie i nodi delle reti” (pp. 41-42), allora l’occupazione della notte fino a farne un’indistinta prosecuzione del giorno è il sintomo di un’umanità “senza sonno né veglia”, deprivata della alternanza ritmica tra luce e buio, attività e passività, un’umanità incapace di vuoto, di trascendenza. E allora, si chiede Nancy: “Come dormire in un mondo senza ninnananna, senza un quieto ritornello, senza capacità d’oblio, senza inconscio (…)? Come dormire in un mondo ipnotizzato dalla visione della sua propria assenza di visione del mondo?”.

Il sonno, la notte, la caduta dell’io sono il necessario rito di passaggio dal delirio di onnipotenza dell’uomo occidentale – un delirio accecato da troppa luce, imbevuto di ossessioni, incubi, manie – al quieto ritorno in sé e alla sospensione, all’inoperosità della notte in cui ogni identità si abbandona al “cuore perfettamente oscuro dell’eclisse dell’essere” (p. 47). Qui l’agitazione diurna può fare spazio al sogno, che si diffonde pigramente sul rovescio interno delle palpebre come la “tela nera tesa sul fondo del sonno” (pp. 48-49). Nelle pagine dedicate al rapporto tra sonno e sogno Nancy affresca con pennellate di parole il dipinto primitivo, “puntinista o iperrealista” del sogno, che trasfigura in caleidoscopio incessante di immagini che appaiono e repentinamente sbiadiscono, nell’imprendibilità di cui sono fatti i sogni.

Ma è nel capitolo centrale dedicato al dondolio inoperoso della ninnananna che Nancy ci offre parole di alta intensità poetica ed evocativa, annunciate da alcuni versi di Bonnefoy. Chi cade nel sonno non si addormenta (secondo una logica riflessiva e autoreferenziale), bensì è stato addormentato, poiché “nessuno si addormenta da sé: il sonno viene da altrove. (…) Ciò che conduce al sonno ha la forma del ritmo, della regolarità e della ripetizione” (p. 55). È un ritmo insieme biologico e cosmico quello che ci conduce al vuoto del sonno, in cui “il corpo si culla al ritmo del cuore e dei polmoni”, colloquiando con il movimento universale che governa “i cristalli, le maree, le stagioni, i cicli dei pianeti e dei loro satelliti” (pp. 56-57).

Per Nancy il sonno, nella sua essenza, non consiste in “uno stato stabile e immobile”, bensì in un dondolio, un’oscillazione che ripete il “battito iniziale tra qualcosa e niente, tra il mondo e il vuoto, che vuol dire anche tra il mondo e se stesso” (p. 57). Nel sonno siamo affidati, abbandonati alla pulsazione iniziale dell’essere, a quella dimensione ontologica in cui l’essere non è pienezza sferica ma apertura, tremito e fremito, separazione che consente il movimento, il “tra-due senza il quale niente di reale prende posto”, poiché “niente di reale è reale senza rapporto a qualche altro reale da cui lo separa l’intervallo che, distinguendoli, li rapporta l’uno all’altro secondo la pulsazione stessa della loro comune non origine” (pp. 57-58).

Origine non è se non questa crepa dell’essere, questo “nihil tra le cose, gli esseri, le sostanze o i soggetti, le posizioni, i luoghi, i tempi” (p. 58), questo vuoto che consente l’essere come pluralità e relazionalità originaria, l’essere come ferita e feritoia, bocca che tiene insieme le labbra, accomunandole nel distanziamento: il dondolio del sonno ci riporta a questa immagine che precede ogni immagine. “Dondolio prima del mondo, oscillazione dell’essere sul niente, del niente su niente, bilancia pari tra niente ed essere, tra niente ed essere qualcosa” (p. 58). Cadendo nel sonno, siamo tutti prossimi allo stadio iniziale dell’essere, alla “comune inoperosità di fare mondo, di non fare niente”, al gioco di dadi del “bambino divino”, alla prima notte del mondo.

È nel moto di questo dondolio ontologico che vanno compresi gli ultimi pensieri di Nancy, dove il corpo deposto del dormiente è paragonato a “un corpo pesante, posato, gettato, lasciato per terra”; è nel ritmo di questa ininterrotta oscillazione iniziale dell’essere che va colta la frase – insistente, ripetuta – che paragona il sonno alla morte: “Come la morte, il sonno, e come il sonno, la morte”, e che giustifica il titolo che il libro ha nell’edizione francese del 2007: Tombe de sommeil, tomba di sonno, a indicare i cimiteri “dove i sepolcri non hanno altro fine che offrire la garanzia di un sonno di pietra e di piombo…” (p. 74) (2).

L’associazione insistente tra sonno e morte ha spinto Rosella Prezzo, nella ricca postfazione, a proporre un confronto simmetrico tra il pensiero di Nancy e quello di un’altra pensatrice contemporanea, María Zambrano, che non alla morte “grande livellatrice” paragona la dimensione del sonno, bensì all’esperienza della nascita, o meglio allo stadio prenatale della vita allo stato nascente. Contro l’ossessione della morte di molta filosofia occidentale, da Platone a Heidegger, la filosofa andalusa accosta allo stato del dormiente “l’immagine di chi nasce e addirittura di colui che deve ancora nascere" (3), la creatura che vive una condizione originaria di passività attiva, di patimento per la propria trascendenza. Il sonno sarebbe per Zambrano assimilabile all’irrequietezza di chi sta per nascere, non già all’abbandono di una “morte temporanea”, come sostiene Nancy.

Tuttavia, fra le righe del testo di Nancy è possibile scorgere l’eco di qualcosa che va oltre questa opposizione netta tra sonno-nascita/sonno-morte, qualcosa che anticipa questa opposizione, che la precede e la eccede. Infatti, se le categorie di nascita e morte si stagliano sul tessuto connettivo di una temporalità che fa da sfondo ad entrambi, il sonno di Nancy sembra configurarsi come una caduta fuori dal tempo, come un cunicolo o un ombelico cosmico che comunica con la dimensione dell’eternità, “il rovescio, l’inversione e l’annullamento del tempo” (p. 72). L’eternità supera il tempo, lo trascende verso l’interno, e chi dorme si ritira – temporaneamente – dal tempo iscrivendosi nell’eternità che è propria della Sostanza, Dio o Natura. Cadere nel sonno è come scivolare dal piano della temporalità verso un vortice intemporale, come trascendere verso il “giorno senza giorno della nostra santa eternità” (p. 76).

Così, la tombe de sommeil di Nancy non è desiderio o fascino della morte, bensì un’assenza generativa, un non (“Non, dice il dormiente come il morto: non ci sono”) che fa coincidere la cavità, l’incavo, il vuoto della fossa con un’elevazione, un sollevamento, una anástasis che, come in Noli me tangere, è “una tenuta dinanzi alla morte”, un “tenersi-all’impiedi dinanzi alla morte”: una “insurrezione”, ovvero “il sollevamento, il levarsi e il levare in quanto verticalità perpendicolare all’orizzontalità del sepolcro" (4). Il sonno è insurrezione all’operosità della vita diurna, trascendenza verso un piano inesauribile che allarga i confini della presenza, che disfa i limiti angusti dell’esperienza soggettiva per approssimarci all’eternità di una morte temporanea.

Come la morte il sonno, certo, ma non tanto o non solo un sonno-morte antitetico al sonno-nascita, bensì un cascare nel sonno che destina il dormiente ad una morte inaugurale e inaugurante, la morte dell’io e l’inaugurazione della cosa in sé, il disfacimento del soggetto e la sua trans-ascendenza a quella dimensione ineffabile, a quella matrice ontologica che da sempre lo eccede e lo conserva in vita.

Salvatore Piromalli

 

Note con rimando automatico al testo

1 R. Prezzo, Pensare in un’altra luce. L’opera aperta di Maria Zambrano, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 55.

2 Il termine francese tombe gioca allusivamente sia con “tomba” sia con il verbo “tomber”, cadere, cascare, precipitare: je tombe, io casco.

3 M. Zambrano, I sogni e il tempo, Pendragon, Bologna 2004, p. 51.

4 J.-L. Nancy, Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2005, pp. 30-31.