Avital Ronell, Stupidity

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Stupidity


Avital Ronell


Stupidity

 

Utet, Torino 2009,
ISBN 978-880207928-8, Euro 22,00,
pagine 461

 

 

 

 

La filosofia ...appare prossima al cuore stesso della stupidità (p. 46)

 

Cos’hanno da dire i decostruzionisti americani sulla (nostra e loro) stupidità? ...o meglio, quale labirintico, crudele ed autoscopico percorso può elaborare, sulle insidiose forme di imbecillità intra, infra o postumana, una donna (e sottolineo donna) di origini ebraiche (dunque profondamente europea e piena di sospetti verso ogni traccia di antisemitismo latente), che, nutritasi di Derrida e Paul de Man, dirige il Dipartimento di Germanistica della New York University (dove spaccia, in dosi massicce, l’esoterica “Entità French Theory”, cfr. p.361, volgarmente detta decostruzionismo)?

È quello che scoprirete leggendo questo poderoso libro, che esce in Italia a ben otto anni dalla sua pubblicazione negli Stati Uniti, forse perchè lo stile arduo e la snervante prolissità (tipicamente derridiani) hanno richiesto una grandissima fatica al traduttore e curatore, l’eroico e tutt’altro che sprovveduto – è il caso di dirlo – Massimo Scorsone.

Noterete subito in esso un doppio registro di analisi spettroscopica della galassia ‘stupidità umana’ (infinita già per Einstein), se non la fusione, in un unico volume, di due studi completamente diversi e su due diversi fenomeni: l’uno, a nostro giudizio più interessante e che pertanto sarà l’oggetto principale di questa recensione, di carattere sociologico e politico, oltre che filosofico, fornisce una sorta di fenomenologia moderna e postmoderna, storicamente scomponibile, dell’imbecillità; l’altro studio, molto affascinante e ben scritto ma paradossalmente più tradizionale, e quindi meno utile a comprendere l’attuale emergenza-stupidità, è dedicato alla vertiginosa decostruzione – appunto – di due opere letterarie (splendida quella de L’idiota di Dostoevskij, pp. 193-305; forse meno riuscita quella del poema Il ragazzo idiota di Wordsworth, pp. 309-356); il tutto condito da dotte escursioni in diversi autori che si sono occupati dell’argomento: da Jean Paul Richter a Rousseau, da Friedrich Schlegel a Kierkegaard, da Robert Musil a Paul de Man, passando per Flaubert e Kant, ma soprattutto per Nietzsche e Deleuze.

L’impianto concettuale del libro deve infatti molto, per non dire quasi tutto, al modo in cui questi due filosofi hanno pensato la stupidità. Se Nietzsche, nel fare la genealogia della morale e dunque la storia del ripiegamento della volontà di potenza in volontà di verità, le attribuisce un paradossale ruolo educativo nei confronti dello spirito (cfr. Al di là del bene e del male), una vitale funzione disciplinare, distinguendo tuttavia la sua forma schiettamente sacerdotale (ottusamente cristiana) da quella ascetico-filosofica (idealmente simulata dall’entusiasmo speculativo), è stato Deleuze, sulla scia dello stesso Nietzsche, a portare la stupidità nel cuore stesso della filosofia: evitando sia di combatterla (poichè la guerra alla stupidità è essa stessa stupida) che di cederle del tutto (cosa che fanno piuttosto i poeti quando si abbandonano ‘stupiti’ alla fatticità dell’essere), in Differenza e ripetizione egli mostra piuttosto come sia necessario pensare al limite dell’ebetismo e della catatonia, come cioè, lungi dall’essere ridotta ad un mero errore del ragionamento, la stupidità sia la condizione di possibilità, il trascendentale dell’intelligenza; nella sua indefinibile pervasività, che assedia il filosofo proprio durante la fabbricazione dei concetti ma, proprio come la malattia, lo rimpicciolisce sottraendolo alla cartesiana padronanza del cogito, la stupidità sfugge al controllo del pensiero perchè ne diventa il più intimo oggetto d’indagine, ovvero perchè, nel confondersi pericolosamente con l’intelligenza e nel vampirizzarla (cfr. Introduzione, pp. XVI-XVII), essa in fondo non è altro dal pensiero stesso (cfr. p. VIII).

A partire da questa duplice visione (genealogica e trascendentale) della nostra ottusità, che, a giudizio di chi scrive, si lascia alle spalle l’idea di una temporanea eclissi della ragione, cioè di una inevitabile e persino feconda, hölderliniana debolezza dell’intelletto umano, spesso descritta come passività dinanzi al sacro, cioè come quella forma di stupidità religiosa che si ritrova anche nell’idiozia cristica del principe Myškin (cfr. ad es. p. 248: trattasi di una stupidità tutto sommato ancora ‘colta’ e quindi abbastanza innocua), la Ronell inanella una serie di significative riflessioni sulla portata psico-sociale dell’imbecillità nel mondo contemporaneo. È a questo livello del suo discorso che si apre una problematica connessione tra la necessità, tanto spesso misconosciuta, di una comprensione filosofica della stupidità, e il nostro possibile ingresso nella post-filosofia (cfr. p. VII): si tratta di un’ipotesi che, al pari del postmoderno e dello stesso decostruzionismo così come viene praticato dall’autrice, traghetterebbe la civiltà occidentale verso nuove, inattese e insolite (dunque kainotiche) forme di pensiero.

In quanto ha la forma dell’io (cfr. p. XVIII), in quanto cioè insorge come effetto collaterale del processo di soggettivazione, la stupidità è una “indelebile etichetta della modernità, è il nostro sintomo” (ibidem); invece di essere, come sosteneva Flaubert quando non si lasciava prendere dalla nausea per la borghesia parigina, un granitico, eterno “oggetto naturale”, l’idiozia è dunque un oggetto socio-storico: prodotta dal pastorato cristiano come gregge obbediente ed ignorante (“Il cristianesimo rivela un rapporto di dipendenza da un genere particolare di stoltezza, dall’avversione nei confornti del dominio della sapienza secolare e del modello del pensiero scientifico: oltre tutto, si tratta di una stoltezza che la fede prescrive addirittura”, p. 15), nel moderno essa abita una massa di individui mediocri, (inter)dipendenti e acculturati, incapaci di pensare in modo autonomo ma abbastanza scaltri da esercitare il potere e infierire sull’intelligenza in esilio (cfr. pp. XXVII-XXIX, con riferimento all’Elogio della stupidità di Jean Paul). Il paradosso dialettico, già denunciato da Horkheimer e Adorno, consiste allora in ciò: se l’illuminismo progettuale, al culmine del moderno, ha lanciato la sfida etico-politica dell’eliminazione della stupidità come conquista dell’autonomia e dell’età adulta (cfr. pp. XXXII e sg.), il cretinismo infantil-senile della modernità dispiegata (tra Otto e Novecento) tende a contaminare sia la politica che la cultura. Il piacere (narcisistico) di rimanere, o di diventare stupidi, non risparmia la stessa filosofia, che, lungi dal saper preservare “intatti i valori della ragione” (p. XXXIX), si trova invece per la prima volta eticamente esposta all’imbecillità – come ha dimostrato, in un certo senso, lo scivolone di Heidegger nel 1933.

L’umiliazione di sentirsi (tacciare di) stupidi non riguarda insomma una piccola fetta di deficienti all’interno di una popolazione sana e razionale, ma l’intera società moderna, proprio in quanto questa appare ossessionata dalla ricerca tassonomica e dalla denuncia ‘razzista’ della stupidità come inferiorità (stupidità delle donne, degli ebrei, dei negri, dei bambini, ecc.): “Il compito di individuare l’esatto spazio della stupidità è divenuto parte di un repertorio comprensivo di qualunque tipo di pratica intelligente – o, al limite, stupida – intesa a rinvenire per se stessa presupposti fondanti e a territorializzare le sue scoperte” (p. 1). Invece di analizzare la “correlazione tra intelligenza e stupidità” (ibidem), cioè il carattere comparativo dell’una e dell’altra, la cultura filosofica, nella sua supposta superiorità, rimane vittima della demenza proprio nella misura in cui tende a fuggirla (cfr. p. 3). La stupidità dev’essere allora decostruita come insulto, stigma e “invenzione” politica del moderno (cfr. pp. 6 e sg.), che s’innesta sull’idiozia greca originariamente intesa come rozzezza e, appunto, incapacità di partecipare all’attività politica, esclusione totale dalla comunità. Nella società moderna, al contrario, l’idiota è l’altro, o, per dirla con Flaubert, “chiunque non la pensi come noi” (cfr. il Dizionario dei luoghi comuni); rivelando il suo indice storico, la bêtise come oggetto di svalutazione non riguarda il semplice, il povero di spirito che anzi come tale si salva perchè accetta l’inconoscibilità di Dio (secondo il modello ancora medievale della docta ignorantia di Cusano), ma, ad esempio in Marx (cfr. p. 32), l’individuo abbrutito dal lavoro alienato, oppure il nemico interno, il parassita che dev’essere discriminato e distrutto proprio perchè intelligente – l’ebreo. Quando la politica s’impossessa della stupidità e viceversa (si pensi al nazismo e alla lettura che ne dà Robert Musil, peraltro ampiamente criticato dalla Ronell per la sua subdola misoginia sessista: cfr. su ciò il secondo capitolo del libro), diventa in altre parole percepibile la “storicità” del gregge (cfr. pp. 27 e sg.). Essa scavalca l’idea di una stupidità infantile, quasi selvaggia della massa, che come una sorta di “dispositivo di sicurezza” (p. 29) proteggerebbe gli individui dalla sofferenza, e illumina piuttosto l’animalità specifica del moderno, il carattere oppiaceo della sua politica, quell’istupidimento del popolo (Volksverdummung) che già preoccupava Rosa Luxembourg (cfr. p. 30): “Precipitato della stupidità, il cretinismo rappresenta a tutti gli effetti il prodotto del prepotente apparato statale, una moneta di valore fisso coniata dal capitalismo. Se qualcosa è stato mai prodotto dal capitalismo e dalle sue atroci alienazioni è appunto questa specie di congelamento, concernente una intera tipologia di sottosviluppo deliberato” (p. 34).

Il postmoderno, in tale prospettiva, non è altro che l’esito macroscopico, la sindrome conclamata di un processo di capillare penetrazione e proliferazione sociale della stupidità come “trauma intrusivo, capace di trasformarci in replicanti dei suoi protocolli. Le aree seduttive della cultura popolare – lo sport, la musica, i media – necessitano di essere considerati attentamente quando si compiono ricognizioni in zone potenzialmente contaminate in termini di ansietà nei confronti dei rischi eventuali di essere contagiati, stupefatti o ridotti a tecno-estatici dell’altrui stupidità” (p. 31), perchè si tratta ormai della nostra idiozia: già Gramsci ci aveva messo in guardia “sul particolare tipo di stupidità intellettuale prodotto dal capitalismo, una varietà d’idiozia in cui l’‘intelligenza’ fungerebbe di fatto da copertura di una sostanziale stupidità del soggetto” (p. 35).

Se, in sè, la stupidità non esiste (come del resto l’intelligenza), se non è teorizzabile come quid o sostanza (cfr. p. 46, 51, 53, 71) ma viene fabbricata artificialmente nella storia da coloro che, grazie a tale operazione selettiva, si pretendono intelligenti (cfr. pp. 36 e sg.), se insomma “il problema della stupidità è sempre una questione socio-politica, anche quando riguarda l’individuo” (p. 46), e se d’altra parte lo stupido non sa di esser tale, ma pensa di essere il culmine del pensiero – allora la nostra epoca presenta una nuova, particolare configurazione di indecidibilità: noi non possiamo più discriminare e/o distinguere tra furbo e sciocco, nemmeno attraverso l’escamotage teatrale del finto tonto; non abbiamo più, per averle utilizzate, valorizzate o squalificate en masse, “icone consacrate” della stupidità sub specie pulchritudinis (come ad es. la donna: cfr. pp. 53, 79-80 e il residuo femminismo ebraico-newyorchese della Ronell); non siamo neppure più in grado di analizzare la mediocrità esistentiva del Man heideggeriano (cfr. p. 56). Noi semplicemente descriviamo la stupidità dall’interno: dall’interno del nostro corpo individuale (cfr. pp. 207 e sg.) e sociale, dall’interno della nostra pervasiva contaminazione che ormai passa per il ritratto della salute psichica – il che fornisce alla demenza una patente di normalità, ben al di là della tradizionale liceità dell’amore come rimbecillimento estetico (cfr. p. 81 e naturalmente i Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes).

Nel fenomenologizzare con cinica ironia, un po’ à la Woody Allen, la ‘propria’ stupidità, la Ronell tocca dunque il nervo scoperto del postmodernismo filosofico che, pur con tutto il suo senso del ridicolo (cfr. sprt. pp. 362 e sg.), si specchia mortalmente nell’occidente: “Il côtéinconscia di cretinismo sociale. narcortico della stupidità inerte fa parte integrante delle possibilità stesse della tarda psicopatologia tecnologica, in cui i piaceri vengono riflessi e inventati attraverso forme industrializzate di svago serializzato. È proprio necessario rievocare certe deplorevoli consuetudini, dall’assistere a show televisivi penosamente cretini al vegetare senza scopo su studi di assoluta sterilità, all’indulgere a eccessive libertà di linguaggio in qualsiasi situazione, all’agire stupidamente e perpetrare continue e, al limite, assolutamente insensate stupidaggini, per non parlare della stessa ideologia americana del divertimento-a-tutti-i-costi? [...] Perchè, dove c’è piacere, si finisce inevitabilmente per discendere lungo la china freudiana di una pulsione di morte a bassa intensità” (p. 80). Se al filosofo la stupidità fa ancora paura come l’immagine riflessa del proprio volto cadaverico, come “minaccia annidata nel cuore stesso della ragione e delle sue perniciose istituzioni, incluse quelle degli istituti accademici” (p. 85), il “senso di panico provocato dalla [sua] mera percezione” (p. 82) potrebbe non essere lontano dall’estinguersi, lasciando trionfare il sorriso ebete della psicosi, cioè una forma ormai completamente inconscia di cretinismo sociale.

Eleonora de Conciliis  

 

Indice del volume:

Introduzione “Slow Leaner”

Capitolo primo Il Problema della Stupidità

Capitolo secondo La Politica della Stupidità
Musil, “Dasein”, l’Offesa alla Donna e le Mie Fatiche

Capitolo terzo Retorica del Test

Satellite Kierkegaardiano

Capitolo quarto Scomparsa e Ricomparsa dell’Idiota

Satellite Wordsworthiano – Il ragazzo Idiota

Satellite Kantiano – Il Filosofo Ridicolo; o, del Perchè Io Sia Così Popolare

Postfazione del curatore

Note

Indice analitico