Stefano Scrima, Esistere forte

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Stefano Scrima

Esistere forte

Ha senso esistere? Camus, Gide e Sartre dicono che...


 

Il Giardino dei Pensieri, Bologna 2014
pp. 131, € 14
ISBN-13: 978-8898227303

 

 








Il volume di Scrima è interessante per la sua natura ibrida (o meglio, per la sua posizione editoriale intermedia) fra testo didattico o divulgativo e opera di interpretazione filosofica personale, prospettiva raggiunta già a partire dal montaggio delle sue sezioni. La parte centrale del lavoro, in termini quantitativi, è dedicata rispettivamente a Sartre, Camus e Gide, attraverso un attento esame delle loro opere narrative e del pensiero filosofico ad esse sottostante; ciò che sta a cuore a Scrima è l’esplorazione del nichilismo compiuta da questi autori (nelle rispettive e articolate varianti della nausea, dell’assurdo, della gratuità) e delle varie modalità con cui hanno provato ad attribuire un senso a tale condizione storica e culturale, compensando e contrastando «il sentimento di vuoto che mina l’esistenza» (p. 15) del soggetto otto-novecentesco in chiave di engagement, di rivolta, di creazione “autentica” di sé. L’aspetto didattico o divulgativo, tutt’altro che banale, è dato non solo dalla chiarezza dell’esposizione, dalle note esplicative, dalle schede dedicate agli autori con le loro biografie e la trama delle opere; ma è affidato anche ad una sintetica contestualizzazione filosofica e storico-culturale iniziale, ai numerosi excursus interni e ad un dizionario concettuale finale.

Gli autori risultano, peraltro, presentati da Scrima nell’ordine retroverso che abbiamo detto: scelta che in parte suggerisce l’intenzione di un risalimento genealogico, in parte svela una peculiare dialettica, eventualmente inconsapevole, che vedrebbe Gide in una posizione “più avanzata” perché cronologicamente più vicino a Nietzsche. In quest’ottica, in qualche modo confermata dal sotto-capitolo Maestro Nietzsche posto circa a quattro quinti del libro, acquistano luce e ulteriore significato i tratti nietzscheani via via evidenziati nei tre autori o meglio, data la scarsa presenza di Nietzsche in Sartre, evidenziati soprattutto in Camus e Gide. Nel primo è centrale il tema della fedeltà alla terra, che si risolve appunto nella ricerca, insieme letteraria e filosofica, di «un modo autenticamente umano di abitare la terra» (p. 57); tentativo che mette capo ad una vera e propria “invenzione” del Mediterraneo, «inteso come la ricerca della misura, il fecondo equilibrio tra ragione e natura» (ibid.). In Gide è invece prioritario il nietzscheano “divieni ciò che sei”, nell’intento «di recuperare una serenità perduta, fino ad allora mai conosciuta se non nella propria immaginazione, di lasciar al corpo la propria espressione naturale» (p. 79), dando libero sfogo a quell’istintualità che da molto tempo aveva bisogno di infrangere le censure della morale, in vista della creazione di «un uomo finalmente padrone di se stesso, consapevole delle sue radici terrene, della sua “nobile miseria”» (p. 80).

Di fronte ai problemi così sollevati dal nichilismo otto-novecentesco, la soluzione filosofica ormai consolidata è abbastanza chiara: «Vivere è sì assurdo, ma solo se non prendiamo in mano la nostra vita, se la lasciamo in balia dei venti e dei mari che non siamo noi. La libertà che segue al non-senso dell’esistere è, invero, il dono più prezioso che il caso (o chi per lui) potesse farci. Scopriamo così di non essere obbligati o destinati, bensì i creatori, gli artefici del nostro mondo» (p. 16). Occorre quindi, in termini nietzscheani, essere all’altezza di questa situazione, saper gestire la responsabilità di un tale privilegio, giocare sino in fondo l’unica chance di esistere che ci è data. Nel capitolo conclusivo, questo tema va incontro a una condivisione molto “esistenziale”, con un avvertibile rialzo espressionista dello stile di scrittura. Ciò accade in particolare nelle pagine dedicate, oltre che alla ripresa dei nichilismi letterari già esaminati, ad Albert Caraco, per il quale il simbolo principale del nichilismo è costituito dalla morte della madre, ultima immagine di una tradizione ormai irresistibilmente contagiata dalla morte di Dio. «Muore la madre e con lei la tradizione; cade l’ultimo baluardo, invincibile per noi, ma non per le stagioni. Il mondo si stinge, si sfuoca il contorno e le Apocalissi fan visita ai pensieri, ma solo per apparir ancor più inutili – dazio troppo amaro da pagare» (p. 106); si inaugura così una prospettiva che impone di attendere semplicemente la propria fine,imparando pian piano a morire. In Caraco come in Camus, la morte della madreè simbolo del nichilismo che regna fuori e dentro i due scrittori, traccia di una contemporaneità senza più padri né figli.

La chiusa del volume ripropone la duplicità tra didattica/divulgazione e interpretazione personale di cui già abbiamo detto. L’attenzione si focalizza sul romanzo Hanno tutti ragione di Paolo Sorrentino (2010), anch’esso un po’ “imprigionato” nella forma editoriale adottata nell’insieme, con finale scheda biografica e riassunto; e tuttavia queste pagine sono segnate da un’evidente, partecipata ed efficace nostalgia per un momento davvero “forte” della cultura europea a cavallo tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento. È la nostalgia propria di un’epoca, la nostra, in cui «i bollori dell’entusiasmo cedono alle lusinghe della stanchezza» (p. 113); in cui, con un’osservazione nella quale l’aspetto storico si intreccia con quello personale (o generazionale), «le cose dentro di noi cambiano, spesso senza che nemmeno ci sia il tempo per accorgersene. I tempi cambiano, le epoche si susseguono, e con loro significati, esigenze e convinzioni» (p. 116). Un tempo, la Nausea era la morte di Dio, «il lampo di coscienza che squarcia la nostra illusa quotidianità intrisa fino all’unghia di morale tradizionale, quel mostro decadente “inventato” da Socrate e Platone e poi riadattato dal Cristianesimo, il fautore del regno della repressione»; era «l’apice del nichilismo, il momento in cui l’uomo scorge la possibilità, se non il dovere, di scacciare i falsi demoni a favore d’una trasvalutazione di tutti i valori; valori ascendenti, per la vita, il sangue, la carne, il corpo in tutte le sue manifestazioni, per la terra, la potenza, ma anche per il male, il dolore e le tenebre» (pp. 103-104). Con un’eco della Charogne baudelairiana, la Nausea imponeva a Mathieu, il protagonista dei Cammini della libertà di Sartre, «di riconsiderare la sua vita, morderla, come l’odore del cadavere putrefatto di Dio dà allo spirito libero la possibilità di riappropriarsi della sua esistenza, all’inseguimento di nuovi valori terreni» (p. 105); la Nausea segnava una prospettiva umana in cui «gratuito è vivere e ogni gesto regalato al vento. Il nichilismo, l’abbraccio del nulla come destino, inonda i nostri campi rendendoli incoltivabili» (p. 107).

Oggi invece, all’inizio del nuovo millennio, la Nausea non fa più paura, è un’esperienza ormai digerita, integralmente consumata; viene vissuta come routine, come la condizione banale e normale di «una coscienza abituata ad una vita assurda che si barcamena tra effimeri significati come la famiglia e la carriera» (p. 116). L’assurdo è quotidiano nel senso più usuale del termine, è un feeling che si mescola all’inutilità dei giorni, in una condizione pacificata in cui la ragione è di tutti e di nessuno; e il significato (a suo modo esemplare) dell’esistenza del protagonista di Sorrentino, e non solo di lui, si risolve nel puro e semplice scivolare verso la vecchiaia.