Carlo Pastore, Lo stupore che viene dal nulla

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Carlo Pastore


Lo stupore che viene dal nulla

Fenomenologia del delirio
e ricodificazione sensoriale
dei processi noetici
 


Edizioni ETS , Pisa 2012,
pp. 136,
euro 13,00 - ISBN: 9788846732354

 





 

la Fenomenologia è una descrizione astratta e qualche volta rarefatta dell’accadere umano, mentre la Psichiatria alternativa l’afferra e ne fa “pratica”, cioè trasforma la Fenomenologia in Antropologia.
Sergio Piro

 

1. Psichiatra di formazione fenomenologica, in questo breve ma densisissmo scritto sul delirio, Carlo Pastore mette Husserl e la psicopatologia fenomenologica alla prova delle neuroscienze, e viceversa; il suo obiettivo, ambizioso eppure ineludibile per un terapeuta ‘umanista’, è infatti quello di proporre un’ipotesi genetica sulle psicosi capace, da un lato, di tenere conto dello sfondo organico delle forme negative della schizofrenia (ovvero dell’ipo-funzionalità del cervello corticale quasi sempre implicata in tali patologie), ma anche, dall’altro, di non schiacciare sull’etiologia neurologica (che rimanda inevitabilmente a un funzionamento difettivo del cervello), la positiva ‘ricchezza’ del delirio, con tutte le sue implicazioni sociali.

Il presupposto schiettamente fenomenologico che guida Pastore nell’elaborazione della sua proposta esplicativa è il desiderio e insieme la necessità terapeutica di comprendere, oltre al ‘che cosa’ e al ‘perché’, il ‘come’ della mente delirante, la specifica modalità dei suoi atti intenzionali, la peculiarità dei suoi processi noetici a cui appunto il delirio sembra sottrarre la ‘normale’ padronanza soggettiva, facendoli slittare verso una “ricodificazione sensoriale”. Tuttavia la comprensione di tale slittamento cozza contro ostacoli enormi, perché alla tensione comunicativa del terapeuta, alla letterale responsabilità del suo discorso curante, si oppone il ‘muro’ dell’organizzazione delirante, che appare fondata su una certezza assoluta e pertanto assai difficile da scalfire. Il delirio può essere infatti definito come un’esperienza di estrema solitudine radicata in una certezza “inargomentata e indiscutibile”, del tutto simile alla fede religiosa, che si sostituisce all’incertezza insopportabile in cui viene a trovarsi il paziente prima di sprofondarvi: alla spaesante tonalità affettiva definita da Jaspers Wahnstimmung. In questo senso, esso sorge come una sorta di risposta difensiva che la mente elabora per non restare vittima della Wahnstimmung – la quale non è tuttavia riducibile a un pre-delirio, così come il linguaggio delirante non è riducibile a sintomo, ma richiede un ascolto e una decodifica eticamente orientati.

Non a caso, è proprio la frase pronunciata da un paziente, il giovane L., in questa particolare condizione o tonalità emotiva – “provo lo stupore che viene dal nulla” (p. 53) – a dare il titolo al libro: fedele alla lezione de Il linguaggio schizofrenico del suo maestro Sergio Piro, Pastore usa lo stesso linguaggio della psicosi per definire il ‘come’ dell’esperienza psicotica del mondo. Questa frase, simile a una foto scattata sull’orlo di un burrone prima di precipitarvi, comunica in effetti l’incomunicabile, la patica insorgenza della follia che può disorganizzare (o riorganizzare) i processi percettivi quando, in termini heideggeriani, si lacera improvvisamente la rete di rimandi nella quale normalmente esperiamo la realtà e le cose – gli ‘utilizzabili’. Il mondo-ambiente (Umwelt) diviene in tal caso un geroglifico insensato e deserto, un ‘nulla’ nel quale l’individuo resta intrappolato e soprattutto isolato, non riuscendo più ad abbandonarsi all’incertezza anch’essa angosciante, ma sana e a volte persino gioiosa, della relazione affettiva con altri esseri umani. In tale prospettiva, la certezza assoluta del delirio confina con la terribile solitudine della pulsione di morte, mentre la Wahnstimmung rappresenta quel livello di esperienza nel quale viene in primo piano il tema lacaniano della ‘mancanza-ad-essere’: il desȇtre, la condizione di radicale e fragile incompiutezza dell’uomo.

Ma, se l’inconscio è strutturato come un linguaggio ed ha inoltre una consistenza storico-sociale, il terapeuta può trovare la chiave d’accesso per decifrare questa condizione. Il suo desiderio di cura è ‘sano’ in quanto mediato dal linguaggio, mentre la sua esperienza dell’inconscio mira a tradurre in reciprocità e responsività quel luogo chiuso in cui il paziente sembra essere intrappolato e come sospeso, fuori dalla storia e dalla società. Se insomma la psichiatria fenomenologica è il teatro di una ‘calda’ declinazione antropo-linguistica della soggettività trascendentale husserliana (schiettamente metafisica: si pensi alle Meditazioni cartesiane), è il codice e non la struttura, fredda e astorica, a costituire il concetto-ponte che permette a Pastore di passare dalla stessa fenomenologia e dalla linguistica (o meglio dalla semantica e dalla semiotica), che lavorano sull’esperienza del senso (Sinn) a partire dall’analisi del significato (Bedeutung), alla durezza ‘fisica’ delle neuroscienze, che lavorano con il principio di causa-effetto. Ed è in nome di un’esigenza terapeutica socialmente e storicamente (cioè eticamente e politicamente) situata, che lo psichiatra ricostruisce il passaggio, e dunque la sottile differenza tra la codificazione noetica intenzionale del soggetto ‘normale’ (il soggetto alfabetico-sequenziale padrone di se stesso, ma sottoposto al giudizio di realtà) e la ricodificazione sensoriale dello psicotico, che alla geografia verticale del vedere, cioè alla percezione come presa, dominio dall’alto, sovranità dell’occhio sul percetto, sostituisce la fluida e orizzontale corporeità del paesaggio, in cui la sensazione tattile si mescola alla pervasiva esperienza acustica dell’alterità (si veda a tal proposito l’interessantissima Introduzione di Federico Leoni).

Se il codice è una lingua, l’unica cura alla ricodificazione sensoriale del delirio è linguistica, è la parola come con-tatto: con gesto empatico ma sovversivo (cioè, in termini foucaultiani, critico e anti-pastorale), il terapeuta deve entrare nel paesaggio, e così rompere l’inaccessibilità solipsistica della certezza delirante, nella quale il paziente obbedisce solo alla Voce del suo stesso delirio, alla sua esteriorità finta e tirannica. Infatti, riflette Leoni partendo dall’etimologia del termine analizzata da Erwin Straus, ogni obbedienza ad una qualche autorità o divinità è caratterizzata dalla presenza di una voce allucinatoria che viene da dietro, aliena e superiore, sulla quale il soggetto non ha alcun potere o presa percettiva ‘geografica’, come accade invece per l’oggetto che gli sta di fronte. Si potrebbe aggiungere che l’invisibilità della voce che domina, la voce dell’Altro-Dio (“Non ti farai immagine alcuna” è il suo comandamento) equivale all’ambiguità o ambivalenza dell’extimité di Lacan: voce misteriosamente interno/esterna e perciò non umana, voce materna benefica o minacciosa, voce dell’adulto che ‘inferiorizza’ il cucciolo umano. In tal caso la psicosi si annuncia come invasione di, ma anche e al tempo stesso come resistenza a, un potere pastorale non benefico, che dilaga in noi; in essa l’inconscio diventa alla lettera il luogo dell’Altro, più che del suo desiderio, facendo cadere il soggetto a un livello di esperienza “antecedente” (vedi il caso L.), ma anche infantile, inferiore rispetto a quello della percezione geografica, adulta del mondo: la ricodificazione sensoriale dei processi noetici è la psicosi come de-soggettivazione.

 

2. Proviamo ora ad addentrarci nelle pieghe del libro, esplicitando alcune questioni che la sua lettura innesca ma, per così dire, non fa esplodere.

In termini fenomenologici, nella Wahnstimmung l’intenzione di significato (Bedeutung) non riesce a giungere a un compimento, o a un riempimento del significato stesso, ma il soggetto resta bloccato nella modalità di un Sinn (senso) angosciato, vuoto, indeterminato, fluttuante e insieme fermo: è lo stupore a-delirante di L., il paziente la cui terapia costituisce il centro del testo di Pastore. Per L. le cose non hanno più senso soggettivo né significato oggettivo; egli vive in una insopportabile insicurezza, in uno spaesamento che da un lato non dev’essere visto come semplice pre-delirio (come fa invece Jaspers), dall’altro non andrebbe considerato come destinalmente e univocamente patologico: in un certo senso, infatti, siamo tutti esposti alla tonalità affettiva a-delirante; anche per il soggetto ‘normale’, in alcuni momenti dell’esistenza, improvvisamente e inspiegabilmente il mondo delle cose, degli oggetti, può perdere la sua utilizzabilità.

In termini socio-storici, aggiungerei che questo può accadere perché il ‘potere selettivo del nostro sguardo’ (P. Matussek), che dà valore e realtà oggettiva al mondo, è intrinsecamente delirante. La nostra ‘normale’ codificazione percettiva del mondo, in quanto struttura razionale esplicativa che lavora con il principio di causa-effetto, è delirante quanto quella dello psicotico, ma più sottoposta al giudizio di realtà, ovvero è l’assetto psichico più diffuso tra i soggetti di una data società in un dato periodo storico: la normalità psichica è soltanto quantitativa, non qualitativa e, sia detto tra parentesi, è proprio in virtù di questa profonda analogia tra pensiero psicotico e pensiero ‘normale’ che il terapeuta può sfondare il muro della certezza delirante. Nella sua condivisibilità intersoggettiva, il giudizio di realtà è rassicurante, mentre la Wahnstimmung è un vissuto d’incertezza che isola. Da tale punto di vista, la radice del giudizio di realtà, che assicura l’integrazione tra intenzione e compimento di significato, non è la realtà: sono gli altri esseri umani – per parafrasare la nota espressione di Berger e Luckmann che dà il titolo al loro capolavoro sociologico, la realtà è una costruzione sociale. La facilità con cui la realtà intersoggettiva, e solo perciò ‘oggettiva’, crolla per lo psicotico (che se ne costruisce una tutta sua), mostra quanto essa sia fragile e poco legata alla fisicità del reale, e quanto invece dipenda, seppur inconsciamente, dalle relazioni con gli altri – del resto, che costoro costituiscano lo spazio plurale della sanità psichica è confermato dalla percezione sociale della psicosi come difformità rispetto al ‘normale’ giudizio di realtà.

Sempre in termini sociologici, in quanto de-soggettivazione la psicosi equivale a uno sgretolamento, più o meno rapido, dell’habitus (P. Bourdieu) del soggetto: a un disfacimento degli schemi psicofisici inconsci che egli ha incorporato attraverso l’educazione (incorporazione che equivale a un processo di soggettivazione-assoggettamento agli schemi stessi), e che, oltre a un criterio di giudizio sulla realtà, gli forniscono in maniera irriflessa (cioè senz’alcun insight sul loro ‘fungere’ inconscio) la possibilità di orientarsi e di agire in essa.

Se tale de-soggettivazione può ovviamente assumere le forme più diverse, e condurre sia a un impoverimento autistico dell’individuo (al negativismo schizofrenico), sia alla ricchezza del delirio paranoide alla Schreber, ciò che appare costante è il fallimento della comunicazione-contatto con l’altro, interpretato dallo stesso psicotico come fallimento dell’io (L.), che a volte coagula in una fredda e convulsa risata. In tal senso, la ‘clinica del vuoto’ (M. Recalcati), cioè del ‘nulla’, delle “psicosi fredde” fa i conti con l’assenza di relazione e quindi di realtà tipica della società contemporanea, che mette in evidenza, per così dire, il limite della fenomenologia. Questa prende infatti le mosse dalla correlazione intenzionale apriori soggetto-oggetto (noesi) e non dalla relazione soggetto-soggetto, relazione sociale storicamente situata. Astorica e asociologica, la fenomenologia parte dalla semplice presenza dell’oggetto (per es. il bicchiere) e non dalla relazione pre-oggettiva tra i corpi vivi (dall’esperienza erotico-affettiva del corpo dell’altro come Leib), che fa sorgere lo stesso soggetto, nonché l’oggetto e dunque il ‘mondo-ambiente’ (Umwelt) con la sua catena di rimandi e il suo orizzonte di utilizzabilità (solo pochissimi fenomenologi affrontano questo snodo, come ad es. Vincenzo Costa nel suo Fenomenologia dell'intersoggettività, Carocci 2010). L’ente può essere de-mondificato solo perché vi è una radice socio-storica della mondificazione, e quando tale radice viene sepolta o deformata da fattori altrettanto socio-storici.

Non a caso il soggetto fenomenologico, erede del razionalismo moderno (cioè del cogito cartesiano), è una vittima potenziale del delirio della visione eidetica (si pensi all’idealità degli enti geometrici, ma anche all’affermazione del matematico John Nash riportata dallo stesso Pastore, secondo cui le idee deliranti gli s’imponevano alla mente con la stessa forza ed evidenza – cioè con la stessa chiarezza e distinzione – delle idee matematiche1) quando si stacca dal giudizio di realtà fornito dalla relazione affettiva con altri – quando cioè l’internalismo psichico diventa solipsismo autistico, con una sorta di indistinguibilità tra delirio filosofico lucido e delirio patologico. A sua volta il delirio ricco à la Deleuze, caratterizzato da una sintomatologia positiva non causata da lesioni o disfunzioni cerebrali e dunque non spiegabile secondo una riduttiva etiologia organica, deriva comunque e non può prescindere dall’habitus socio-culturale del soggetto (vedi il caso F.): lo psicotico contemporaneo, oltre ai cani, non può che delirare gli altri come robot, attori e soprattutto alieni (cfr. pp. 40 e sg.).

 

3. L’insorgere della psicosi appare dunque legato allo sprofondare dell’evidenza dell’esistenza degli altri – delle persone che circondano il paziente. Come afferma L., le cose sono vive, gli uomini sono meno vivi: le persone diventano cose, e (quindi) le cose diventano persone. Attraverso la negazione della realtà e di conseguenza della vita altrui, nella condizione statica e freddamente a-allucinatoria di L. nessun evento è possibile: egli vive nell’attesa infinita di qualcosa che non accade mai. Ma in che senso (Sinn)? Che significa intenzionare il ‘nulla’?

Anche nel suo stadio aurorale, che può essere esperito da ciascuno di noi, la formazione delirante è tale perché si sottrae alla possibilità di essere messa in discussione dall’esperienza o da qualunque intervento critico (altrui, cfr. p. 39). Il delirio, come la fede, comporta un’incrollabile evidenza veritativa (cfr. ibidem), cioè riduce la verità a oggetto; non a caso, a questo tipo di verità Foucault contrapponeva la verità-evento. E, nota Pastore, nella psicosi non c’è evento, ma “desertificazione emozionale e desiderativa”: una solitudine assoluta che viene percepita come assoluta inaccessibilità. Tuttavia da questa dimensione a-evenemenziale (in cui cioè manca l’evento dell’alterità) non è assente il linguaggio – l’unica facoltà che permette all’uomo di ‘tornare’ dalla follia. Mentre per la psichiatria anglosassone, oggi dominante, il paziente non ha consapevolezza della propria condizione patologica, non vi è insight, per Pastore invece gli psicotici hanno coscienza del proprio disagio, ma ne attribuiscono bizzarramente la causa alle entità che appunto delirano nel linguaggio: non sono dementi (cioè mancanti dell’essere dell’intelletto, della capacità di in-tenzionare), sono pazzi. Nella sua infinita bizzarria semantica, il linguaggio permette dunque al paziente di descrivere con esattezza ciò che gli accade: di comunicare al terapeuta che le parole sono come cose dacché le persone sono come cose, sono macchine senza vita, ed è per questo che “nulla, qui, ha più un volto noto” (p. 28): è quando il volto umano si reifica in non-umano (in tal senso esso è il vero oggetto dell’alienazione mentale come in-tenzionalità del nulla), che il mondo non si ri-conosce più, e si prova stupore dinanzi alla fatticità delle cose.

Nella Wahnstimmung di L. vi è un evidente capovolgimento o distorsione del classico rapporto soggetto-(s)oggetto: se la ricodificazione sensoriale dei processi noetici toglie alle cose e alle persone il loro significato ‘mondano’, il ‘mondo antecedente’ della verità si oppone al ‘mondo conseguente’ e ‘falso’ della cultura, del linguaggio, delle ‘persone’ senza più vita. Ma l’unica chance del paziente consiste nel far lavorare il linguaggio nel mondo antecedente, cioè nel descriverlo al terapeuta, nel comunicarlo per non impazzire: nel parlessere (Lacan) come salvezza; allo stesso modo, secondo Pastore, l’unica possibilità per il terapeuta di riuscire a sfondare l’ostinazione del paziente, e di mettere così in discussione la pura datità indiscutibile dell’idea delirante, sottratta alla riflessione e alla critica, sta nel cercarlo là dove è, senza usarlo per confermare la metapsicologia fondante come ‘struttura’ della psiche (cfr. p. 131).

Capire il codice dello psicotico, accettare e ascoltare il senso del suo discorso, significa aggirare l’ostacolo dell’inaccessibilità dell’esperienza (Erlebnis) delirante. Ma come sfaldare le sue rigide certezze? Da terapeuta, Pastore deve affrontare lo stesso problema dell’etnologo quando cerca di comprendere l’habitus delle altre culture, poiché la necessità dell’immedesimazione-trasposizione (l’Einfühlung di diltheyana memoria) rischia di fargli proiettare su quello del paziente l’ordine del suo discorso psichiatrico. In altri termini, se vuole darle una potenza affettiva, egli non può rimuovere il fatto che quella tra lui il paziente è una relazione di potere tra un superiore e un inferiore. Soltanto così potrà confrontarsi con lo scacco della “prossimità intersoggettiva” (Lévinas) che caratterizza l’esperienza psicotica: se parlare a uno schizofrenico equivale a parlare al muro e se nella cura si sperimenta l’impossibilità dell’incontro con l’altro, del “contatto vitale” con lui/lei (cfr. pp. 40 e sg.), il terapeuta può neutralizzare l’asimmetria del discorso psichiatrico solo partendo dalla propria esperienza di relazione affettiva a un altro (minuscolo) – di cui non è incrollabilmente certo. A differenza del paziente, egli sa infatti che la certezza dell’altro è imperfetta, talvolta dolorosa (perché sempre passibile di rovesciarsi in assenza, conflitto, ecc.), ma sana.

In un certo senso, scambiando la verità per un oggetto e perdendo i contatti con la minuscola verità evenemenziale dell’alterità, lo psicotico rimane vittima della classica concezione filosofica della verità che la oppone all’errore e all’inganno. Nei vissuti allucinatori ad esempio, come abbiamo notato, c’è una particolare forma di (auto)inganno sull’altro: l’Altro maiuscolo prende il suo posto come Voce a cui si deve obbedienza, voce ‘padrona’ che viene dal di fuori (cfr. pp. 45-46). Se le neuroscienze insistono sull’incapacità o difficoltà del cervello schizofrenico nel riconoscere la provenienza interna delle produzioni ideative, che divengono quindi allucinazioni, da fenomenologo Pastore insiste invece sull’ambiguità del temine tedesco Wahrnehmung: percezione, ma anche allucinazione; alla lettera, esso indica la possibilità per l’uomo di prendere per vera una realtà non vera, che però ha il “carattere della corporeità”. Si è resa cioè ‘altra’, esterna rispetto al soggetto che, senza saperlo, l’ha inconsciamente prodotta dall’interno. Ciò può accadere perché, a differenza di quella a-allucinatoria di L., la ricodificazione sensoriale della percezione-esperienza delirante è assolutamente irriflessa (dossica), e dunque a-coscienziale: nella psicosi ‘esplosa’ (vedi il caso T.) non vi è percezione di secondo grado (Husserl), ovvero coscienza del percepire e di se stessi come percipienti – nessuna riflessione sulla voce allucinata, che quindi viene presa-per-vera.

Dunque, per colmo d’ironia, solo la classica concezione del pensiero come identità nel tempo, ovvero come continuità rammemorante – l’agostiniana distensio animi –, può garantire il soggetto contro la dispersione nel “presente impressionale” senza rimemorazione-ritenzione (ossia senza ricordo, come nota Pastore richiamando Bergson) e di conseguenza senza continuità, che caratterizza la dis-identificazione temporale dello psicotico. Dominato dalla sensazione, costui appare incapace di quella pratica altamente soggettivante che consiste nell’isolamento de-sensibilizzante del pensiero di cui parla Hannah Arendt ne La vita della mente, o anche nel pensiero come negazione, sospensione epochizzante dell’azione immediata che permette di osservarla dal di fuori (cfr. p. 97): come capacità di ‘dire no’, come tempo di pausa, intervallo tra stimolo e risposta – per cui si potrebbe a buon diritto parlare di un effetto pavloviano della follia.

Da questo punto di vista il tempo, come affezione o affettività individualizzante e perciò identitaria del mutamento (il patico teorizzato da Aldo Masullo, cui Pastore fa esplicitamente riferimento) non è solo destabilizzazione, bensì anche soggettivazione – ma a sua volta lo è sullo sfondo del contatto con l’altro, dell’evento reale dell’altro (minuscolo), che ci destabilizza e insieme ci rende auto-coscienti. Sembra perciò un’altra crudele ironia, il fatto che lo psicotico rovesci la sua estrema solitudine in illusione di trasparenza, di psichedelia e, soprattutto se paranoico delirante, pensi di poter leggere il pensiero altrui o che gli altri leggano il suo. Insieme alla divinizzazione dell’Altro, tipica del delirio paranoide, ciò può accadere perché la mente diviene corpo, che quindi si può vedere, toccare, ecc.: è questo l’aspetto forse più terrificante di ciò che Pastore definisce “ricodificazione sensoriale dei processi noetici”.

 

4. Non potendo analizzare, per motivi di spazio e di lessico (assai specialistico), il prezioso excursus che il capitolo quarto del libro (In dialogo con le neuroscienze) offre sulle più recenti teorie neuro-cognitiviste circa la genesi e la localizzazione cerebrale dei sintomi psicotici (in particolare dei sintomi negativi, che rinvierebbero a una ipofunzionalità del cervello, senza poter dar conto che forzatamente dell’origine dei sintomi positivi, ossia della ‘ricchezza’ del delirio), vorrei concludere questa recensione richiamando l’attenzione del lettore sulla storicità del funzionamento del cervello, che queste stesse teorie finiscono coll’evidenziare – in particolare quella, molto famosa, di Julian Jaynes sul crollo della mente bicamerale.

Se infatti nell’ipotesi di Jaynes l’allucinazione non è che il retaggio di un’organizzazione arcaica della mente umana, di un’originaria non-integrazione tra i due emisferi che induceva i nostri progenitori ad obbedire a voci interiori interpretate come aliene (un po’ come nell’età degli dèi teorizzata da Vico all’inizio del XVIII secolo), potremmo a nostra volta affermare che la psicosi, come oggetto di scienza (cioè di potere-sapere) debba essere radicalmente storicizzata, e con ciò ricondotta alla sua radice sociale – ovvero situata all’interno dei dispositivi che una certa società, in un determinato periodo storico, innesca per (s)oggettivare i suoi membri.

La codifica nosologica della schizofrenia è avvenuta in un periodo in cui era massima la forza del soggetto razionale borghese (che potremmo simpaticamente e poco scientificamente chiamare ‘mister emisfero sinistro’), tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Oggi invece le forme psicotiche insorgono in una società che ha fortemente indebolito l’assetto psichico di questo soggetto (si pensi all’oralità secondaria e alle teorie di Walter Ong). L’organizzazione psichica, anche complessa, dei nuovi pazienti, riflette le nuove forme dell’esperienza del mondo permesse dalla tecnologia digitale come ‘dispositivo’ e dalla relativa sindrome da overflussing informativo; in altri termini, assistiamo a una nuova incapacità di filtraggio selettivo delle informazioni che ricorda la distrazione schizofrenica e le deformazioni del gating sensoriale, e riguarda soggetti che, pur sembrando perfettamente ‘normali’, hanno in effetti perso la capacità di distinguere tra realtà e finzione, così come quella di ‘sentire’ l’altro, a causa dell’isolamento favorito dagli ambienti virtuali e della iper-stimolazione cui questi sottopongono l’apparato psichico.

Da tale punto di vista, come già accennato, è la struttura sociale della realtà a costituire la radice storica della psicosi, o delle nuove forme di disagio mentale che si stanno diffondendo. La perdita del “contatto vitale con l’altro” (che rinvia all’assenza di emozioni ma anche alla raffinata intelligenza dello psicopatico) non è necessariamente associata ad un’alterazione radicale della ricognizione concettuale (cfr. p. 108), ma può anche dissimularsi nella normalità. Perciò, oltre alla famiglia (cfr. l’anamnesi del caso B., l’ultimo analizzato da Pastore nel suo libro), è la società intera a poter funzionare come dispositivo psicotizzante. Se, come scrive efficacemente Pastore, “l’intuizione del dispositivo familiare ‘libera’ il paziente dal proprio assoggettamento al dispositivo stesso […], assoggettandolo, tuttavia, alle implacabili leggi del delirio” (p. 118), per cui, in termini deleuziano-foucaultiani, l’obbedienza al dispositivo familiar-pastorale trova nel delirio l’unica paradossale linea di fuga, allora la nuova frontiera della psicoterapia potrebbe coincidere con l’esigenza di portare il soggetto dall’“intuizione” (o dalla Wahnstimmung) alla coscienza critica del carattere pastorale e psicogeno dei dispositivi sociali e tecnologici (in particolare di quello digitale) che ne hanno condizionato la stessa soggettivazione, fungendo così da processo di radicale dis-assoggettamento. Un simile compito sembra perfettamente coerente con l’“ostinazione testimoniale”, la “profanazione” (nel senso di Agamben: profanazione di dispositivi inconsciamente divinizzati), il “riguardo” e l’“indulgenza” che secondo Pastore (p. 132) distinguono l’atteggiamento terapeutico caratterizzato dalla forma dell’eversività – cioè la terapia anti-pastorale della psicosi.

 

 

Note al testo

1 Per inciso, il fatto che i soggetti deliranti non dubitino mai delle conclusioni-convinzioni cui sono giunti pur con elementi che a un individuo normale sembrerebbero insufficienti (per cui l’evidenza delirante coincide con una logica indipendente dalla realtà) e siano poco o per nulla inclini a cambiare parere, cioè ad abbandonare una convinzione ormai formulata o maturata (utilizzo acritico di dati psicomnestici per leggere la realtà), ricorda molto da vicino la seconda regola della morale provvisoria di Cartesio.