Dal maggio 2022 su questa rivista non sono più accessibili molte immagini d'arte coperte dal copyright dei proprietari, ovvero generalmente musei e collezioni. Nella gran parte dei casi, l'immagine risulta vuota ma è leggibile la sua didascalia, per cui resta possibile la sua visualizzazione nei legittimi contesti.

Redazione e contatti

Cerca nel sito

Salvatore Prinzi, Sul buon uso dell’impazienza





Salvatore Prinzi

 
Sul buon uso dell’impazienza



Liguori 2012
Euro 17,09, ISBN 9788820758998 
ebook 8,99







Vorrei subito dire che recensire il libro di Salvatore Prinzi, Sul buon uso dell’impazienza (Liguori 2013, 16,99 €) è stata operazione assai interessante data la ricchezza di contenuti e la chiarezza con la quale l’autore ha esposto, pagina dopo pagina, le sue riflessioni intorno ad argomenti dibattuti quali “crisi, movimenti, organizzazione”. Per poter fornire qualche risposta a questioni scomode come queste, Prinzi ha scritto un libro che (finalmente, verrebbe da dire) “prende sul serio l’impazienza” (p. 5) intesa non solo come categoria filosofica bensì come un vero e proprio modo di essere affetti politicamente.

La genesi storico-sociale di questo “sentimento” non poteva che riportarci al Maggio parigino, ovvero a quel momento nel quale esso ha fatto la propria comparsa e dove nello stesso tempo ha cominciato ad essere catturato nel flusso dei sistemi di potere mediatico e istituzionale. E tuttavia, l’importanza per ogni pensiero militante di fare continuamente e da capo i conti con il ’68, viene giocata da Prinzi non già come stucchevole lamentela su ciò che poteva essere e non è stato, al “sogno spezzato” dei veltroniani di turno, bensì come necessità per il presente di ritornare “sui banchi” (p. 15) in modo da elaborare una “metodica dell’impazienza” che non eluda la mediazione, il momento di sofferenza né la sospensione creativa (p. 11).

Ora, se da un lato l’elaborazione di una “metodica dell’impazienza” si presenta come una chiara rimodulazione leninista della lotta di classe, è pur vero dall’altro che essa trova la sua verità nell’ineludibilità del momento “politico”. Di volta in volta, “frutto del dialogo, del conflitto, della forza, dell’incontro, di una strategia”, tale momento “non può che essere preso dentro le forme di produzione dei beni e delle conoscenze, delle relazioni sociali, dello spazio reale e virtuale che queste creano” (p. 7). Intesa in questo modo e sebbene sempre esposta al fallimento, l’impazienza si sottrae perciò ad essere “figura del cattivo infinito” (p. 7), articolazione di un identico che si ripete e si annulla “nella ciclicità sempre ricominciata di qualche nuova illusione” (p. 9).

Al contrario, rovesciare il proprio tempo, ribellarsi ad esso e provare ad uscire dalla “casa in fiamme” della modernità (Brecht) non può darsi che attraversando il campo minato di contraddizioni del “mediale”, ovvero di ciò che per Prinzi rappresenta la modalità fenomenologica essenziale del capitalismo contemporaneo e che Debord ha chiamato “società dello spettacolo”.

L’esplosione dell’impazienza durante il decennio ’60-’70 è dunque avvenuta all’interno di questo dispositivo di potere che ne ha pian piano modificato la direzione, fino a consumarne le forze. Da allora, il consumo, notoriamente categoria del profitto, è diventato un attributo degli stessi movimenti antagonisti in cui per altro vediamo all’opera ancora oggi “figure che […] non fanno che stornare l’impazienza, non fanno che imbonirla” (p. 11). Così, dal dopoguerra in poi abbiamo imparato che non soltanto la ricchezza si consuma, bensì anche la rivoluzione.

Sorprendentemente, pur essendo questo, a mio parere, uno degli snodi problematici più interessanti del libro, l’autore non lo indaga da un punto di vista “di classe”, preferendo rimanere con Debord su un piano di descrizione fenomenologica in cui il “mediale” appare come una forza capitalistica attiva in sé che il cattivo (e immediato) uso dell’impazienza di una generazione non è riuscita a sopprimere. In questo modo, il permanere di questa dialettica a due e il rifiuto della mediazione caratteristico sin da allora di tutti i movimenti antagonisti, non vengono letti come un effetto della composizione di classe di tali movimenti i quali, pur tuttavia, appartenendo alla sfera della riproduzione sociale e non essendo classe operaia immediata, sono continuamente chiamati a giocare una partita in cui vi è necessità di mediare tra diverse istanze, ruoli, culture filosofiche e politiche.

Consapevole di questa necessità ed espressione di questo pluriverso antagonista, è in primo luogo Prinzi stesso come “figura sociale” di studioso avente una forte matrice fenomenologica, la quale però viene continuamente “corretta” con altri strumenti concettuali, provenienti soprattutto dalla tradizione marxista. Egli infatti, attingendo a piene mani a due autori come Debord e Gramsci, affida loro il compito di indagare le sovrastrutture spirituali che producono nel capitalismo le soggettività presenti, “per leggere dietro questo mondo teletrasmesso la contraddizione che lo anima e i conflitti di classe che la rappresentano, per capire come, dalle lacerazioni, istituire il comune” (p. 13).

 

1.

Il primo capitolo è dunque un lungo excursus sulle trasformazioni delle lotte degli ultimi cinquant’anni, dall’esplosione sessantottina passando attraverso l’estetizzazione degli anni ’80 fino ai movimenti di contestazione globali più recenti. Differenze radicali e punti di contatto tra queste diverse esperienze di protesta vengono messe a confronto in maniera critica, alla luce dei rispettivi contenuti, strategie e modalità di dissenso. Ancora una volta il ’68 appare nel suo duplice significato di evento di rottura e di progressivo arretramento dalle posizioni appena conquistate. Prinzi, infatti, individua nel “non voglio fare la fine di mio padre” l’espressività politica e la tonalità emotiva di una generazione giovane che si sarebbe mantenuta pura e che grazie a una rottura senza ritorno avrebbe nello stesso tempo salvato se stessa e redento lo spirito dei padri (p. 22).

Questo riscatto nasceva dalla consapevolezza di un grigiore a cui la stessa classe operaia, dopo la fine della guerra e la divisione in blocchi, non si era saputa sottrarre ma che anzi aveva contribuito a consolidare accettando la democrazia borghese e la gerarchia di fabbrica, e facendosi infine adescare dalle sirene della piena occupazione e del welfare “per tutti”. A ciò si poteva rispondere soltanto con un rinnovato estremismo caratterizzato dal rifiuto di qualsiasi mediazione di natura rappresentativa nel partito, in famiglia o in fabbrica: così, coscienti che “l’unico modo di non capitolare è non cedere mai” (p. 23), “i ragazzi di Nanterre avrebbero salvato l’operaio” stesso, il cui corpo veniva quotidianamente risucchiato negli ingranaggi della pax keynesiana tra capitale e lavoro.

Pochi anni dopo, già all’inizio degli anni Settanta, tutto questo non era che un pallido ricordo. Il ritiro su una temporalità immediata coincise infatti con la fine delle grandi narrazioni (p. 24 in nota): operai e studenti avrebbero ancora marciato e lottato assieme senza però stabilire un legame con la Rivoluzione negata o la Resistenza tradita. La storia dell’emancipazione cedette il passo all’estetica dell’evento. Solo per pochi istanti, giusto il tempo dello scontro, le istanze del passato confluivano ancora nel presente, mentre nel frattempo, la vera rottura storica avvenne nel campo avverso con la fine del keynesismo e degli accordi di Bretton Woods. Iniziò allora, avendo ceduto un poco alla volta, soprattutto durante gli anni ’80, il corso neoliberale del capitalismo contemporaneo, permanentemente in crisi al punto di non crollare mai.

Nuove contraddizioni si sarebbero verificate soltanto all’alba del secondo millennio: Prinzi, però, molto opportunamente sottolinea la distanza tra la “grande narrazione” dei movimenti sociali del ’68 (p. 25) e il “nuovo poema” scaturito dalla visione alteromondista. Se nei primi infatti “era stata dominante la tensione alla palingenesi e alla rottura [nel secondo] predominava un certo realismo, l’accortezza o l’interiorizzazione di una colpa, che spingevano ad allargare la partecipazione, anche a prezzo di stemperare i contenuti o moderare le proprie rivendicazioni” (p. 27). La negazione della storia come processo (non esiste domani, né prima né dopo) e la centralità assunta dall’evento nel quale ci si trova immersi, rappresenta l’elemento comune e il legame di filiazione tra le moltitudini “no e new global” e quel che fu la proposta post-operaista dell’autonomia portata avanti da Toni Negri tra la metà e la fine degli anni Settanta.

Vi è tuttavia, secondo Prinzi, una duplice differenza tra queste due esperienze di pensiero e d’azione: se da un lato, infatti il rapporto tra Impero e Moltitudini viene giocato da Negri attraverso un “affievolimento” del programma operaista degli anni precedenti dove a dominare era il “dentro e contro”, mentre adesso le moltitudini si posizionano “dentro e qui”, dall’altro, tale rapporto viene elaborato non più soltanto sulla base di una critica interna all’oggettività marxista, bensì sulla falsariga di un’indebita appropriazione della lettura di Deleuze e dalla ripresa in chiave rivoluzionaria del pensiero di Spinoza.

Questi due aspetti sono inscindibili e ben osservabili se si tiene presente il fatto che le moltitudini, alimentate dall’impazienza dell’evento, non rappresentano né il fuori dell’Impero né il suo futuro rivoluzionario (p. 28). Da semplice espediente di rottura durante il ’68 e ancora per tutti gli anni Settanta, il rifiuto della mediazione rappresenta per le moltitudini non più un fattore strategico, bensì un atto costituente della loro stessa (infinita) potenza. In questo contesto, la mediazione con l’altro non esiste affatto per le moltitudini che sempre non fanno che riflettere con se stesse anche laddove si trattasse di dover mediare con le classi subalterne, con la polizia o gli organi di governo (p. 29). In linea di principio, perciò, mediare lo si può fare con tutti dal momento che l’altro non esiste “in sé” in quanto mai attraversato dal “lavoro” del negativo.

Questo atteggiamento politico, indice secondo Prinzi di un cattivo uso dell’impazienza, risulta essere in definitiva espressione di un desiderio che si è “disincarnato” dai luoghi di lavoro, dallo studio come dalla produzione e dalla distribuzione, per scorrere fluido e indeterminato nella “società dello spettacolo”, dove ciò che conta è rivendicare l’accesso immediato al consumo come modalità fondamentale per poterci essere e contare (pp. 32 e ss.). Imprigionato nelle proprie “disavventure” che investono tutto il campo sociale, il desiderio da gesto disobbediente si trasforma così in “rito, l’azione si fa contemplazione narcisistica, la propria eccedenza un appello all’integrazione” (p. 34). In questo orizzonte non vi è dunque alcuna rottura reale possibile poiché il desiderio, agito nella sua politicità senza più alcun limite e senza più alcuna mancanza, ha finito per confermare, anziché rompere, lo schema dominante a causa del quale, durante tutto il primo decennio del nuovo millennio, si è continuato a capitolare molto, anche se “sorridendo” (p. 32).

Ora, se da un lato Prinzi, seguendo Castoriadis, riconosce che la sconfitta del desiderio sia già implicita nella concettualizzazione deleuziana in quanto espressione di un’equivalenza tra il consumo e la pulsione di morte che sotto il regime di capitale trasforma ogni rapporto sociale in un divertimento generale e narcisistico (p. 37), egli dall’altro non per questo rinnega la possibilità di rifondare una “politica del desiderio” in cui i soggetti possano ricominciare a “desiderare correttamente” (p. 39). Colpisce che in questo tentativo non vi sia alcun recupero critico del concetto marxiano di “sensibilità”, quanto piuttosto innanzitutto una consapevole adesione alla prospettiva fenomenologica in cui, pur a ragione, non si dà alcun desiderio puro che non sia già stato catturato all’interno di una mediazione ed in questa “incarnato” (p. 39). Ecco allora che è su questo versante fenomenologico di una dialettica della mediazione del desiderio con le sue forme politiche, più che sulla scia di una convinta adesione al materialismo storico marxiano, che lo studioso napoletano si rivolge al pensiero di Antonio Gramsci per poter così dare “forma e figura politica a quello che si presenta immediatamente – scomposto e fragile – sul piano sociale”, ovvero ciò che si presenta come “irrappresentabile”: il proletariato (p. 46).

Sebbene la realtà sociale sia di per sé attraversata da una processualità dialettica (cosa presente chiaramente anche in Gramsci), l’emancipazione umana è tuttavia qualcosa da conquistare in primo luogo attraverso il consolidamento di una forma politica (“l’ipotesi comunista”) del proletariato che possa sempre nuovamente presentarsi sul fronte della Storia per correggerne la direzione e, al momento opportuno, estirparne la radice alienata. Fare “egemonia” è in ultima analisi un faticoso, instancabile lavoro di costruzione di relazioni umane e strategie efficaci, “una guerra d’assedio – suggerisce Prinzi citando Gramsci –, compressa, difficile, in cui si domandano qualità eccezionali di pazienza e di spirito inventivo» (p. 47). Né “evento” (come pensano le moltitudini) né “tempo dell’omogeneità consequenziale” (come vuole il revisionismo storicista marxiano), la Rivoluzione non è dunque un “presente estatico” troppo “comodo al capitale”, sottratto al passato sconfitto dei padri e al sacrificio per il futuro dei figli, che evocavano i cattivi impazienti del ’68 e i loro eredi del duemila”, bensì “epoca”, “processo dai tempi lunghi” (p. 47) durante il quale, forse, per dirla con Beckett, “falliremo ancora e ancora meglio” (p. 49).

 

2.

Il secondo capitolo del libro si intitola “lo spettacolo del globo” ed è una complessa ed articolata riflessione sull’oggi, in cui l’autore si domanda che ne è stato del rapporto tra “desiderio” e “mondo”. Nell’epoca della espansione planetaria del capitalismo, infatti, è richiesto che un’enorme quantità di desiderio non solo venga continuamente creata ed alimentata, bensì che possa essere spesa ai fini dell’accrescimento dello spettacolo medesimo. Il capitalismo, come già intuito da Debord nel secolo scorso, sembra riuscito cioè a penetrare fino in fondo all’economia del desiderio di noi tutti in modo tale che nelle società contemporanee “l’insoddisfazione stessa è diventata una merce” (p. 52). Rafforzato nelle sue strutture linguistiche e comunicative ideologicamente orientate al mantenimento di una “pace perpetua”, lo “spettacolo del globo” ha sostituito così il monito kantiano del “ragionate quanto volete, ma ubbidite” con quello postmoderno del “desiderate quanto volete, tanto alla fine sempre finirete per ubbidire”.

È dunque possibile spezzare questa ingiunzione tra il desiderio e l’obbedienza e ripristinare uno scarto tra il qui e il non ancora?

A questa domanda Prinzi risponde in modo convinto e affermativo, sottolineando però che dapprima è necessario lottare per ri-creare, tenendolo costantemente aperto, lo spazio della domanda e, solo in un secondo momento, procedere ai tentativi di soluzione. Desiderare non basta, egli sembra suggerirci, poiché bisogna fare epoché dal desiderio stesso e dai “modi” attraverso i quali esso si presenta quotidianamente nella forma sociale di capitale diffuso. Nella società capitalistica, infatti, dominata dalla cattiva impazienza (ovvero dalla continua crescita di tempo di lavoro supplementare), viene abolita quella necessaria distanza che permette al desiderio di “pensarsi” e di consolidarsi e, per questa via, di costituire una tensione affettiva tra le persone e di dare vita, infine, ad un’attesa tra e per le cose. Dal punto di vista dell’azione politica bisogna “riprendersi il tempo” di studiare il nostro presente, procedendo con lentezza senza lasciarsi affascinare dalle narrazioni postmoderne che troppo sbrigativamente insistono sulla scomparsa delle forme classiche di mediazione (famiglia, territori, stato) e dell’immensa “materia” sociale costretta tuttora alla forma del salario.

Pertanto, se queste formazioni disciplinari sono ben funzionanti e operano accanto ed in sinergia con le nuove forme di lavoro immateriale e migrante che abbiamo visto espandersi nel mondo globalizzato, come ri-cominciare, allora? In accordo con Zizek, Prinzi chiarisce che, in mancanza di una teoria alternativa, è necessario “sapere aspettare” e “non fare niente”, ritenendo entrambi questi momenti veri e propri gesti rivoluzionari in cui può rimanere inalterata la tensione di una molla pronta a scattare e così conservato il senso di un’attesa tutt’altro che rilassata, ma che “fortemente vuole” (p. 55). In altre parole, si tratta di “resistere alle tentazioni di impegnarsi immediatamente”, spendendo piuttosto il proprio tempo ad “imparare, imparare, imparare” (p. 54).

Scopo di questo duro lavoro di formazione (dialettica?) è pertanto la costruzione di “una paziente analisi critica” (p. 54) che metta in discussione quelle “rappresentazioni di comodo” (pp. 58 e ss.) che sia nell’ideologia del capitale sia in alcuni ambienti antagonisti presentano il tessuto della realtà come separato in sé. Il soggetto contemporaneo che vive convinto di una separazione tra economia e finanza, oppure tra società e politica, è appunto un soggetto dissociato che non riconosce più il fatto che l’origine continuamente ripetuta del proprio trauma non è fuori di lui, bensì egli stesso ne è il protagonista assoluto e unico (p. 62).

Ora, lungi dall’avere un significato psicologico soggettivo, questa frattura epistemica rappresenta piuttosto il fondamento storico complessivo che contraddistingue tutta l’epoca moderna. Infatti, prima che nell’uomo e tra gli uomini (Marx), tale dissociazione si è consumata, a partire dal XVII secolo, nell’espulsione dell’uomo all’interno del suo mondo-ambiente (Heidegger). Per Prinzi, è dunque la rimozione del mondo, o meglio del suo trauma, del suo “nocciolo duro” e, in termini marxiani, del valore d’uso del lavoro, a generare e riprodurre costantemente la psicosi del moderno (p. 71). Ci si abbandona all’immediatezza dell’emozione e al divertissement degli spot culturali…perché la “pappa del cuore” (p. 161 in nota) possa poi funzionare innanzitutto negli ambienti formativi (soprattutto la scuola e l’università) dove tutto deve essere leggero, astratto e scambiabile (p. 70). In altre parole, si tratta di un’assimilazione per trauma “dolce” e che avviene con il “mondo alle spalle”: si narrano cioè storie non per capire “chi o cosa c’è dietro le quinte”, bensì per potervi aderire senza se e senza ma e dove il contenuto viene non più mediato bensì introiettato dallo spettatore/studente il quale non ha più il tempo per potervi riflettere su, se non in maniera superficiale e senza sondarne il fondo.

Al contrario, per lo studioso napoletano, lo smascheramento del trauma e non la sua rimozione rappresenta il compito urgente della critica del tempo nel quale viviamo. Più precisamente, “nominare il trauma” significa interrogarlo nella sua radice storica, sottolineando come la partita sia truccata sin dall’inizio, da quando cioè la casa della modernità ha cominciato a “bruciare” e i suoi tavoli di legno hanno cominciato la loro “danza”. Di conseguenza, restituendo al nostro presente la sua dimensione storica, si apre la possibilità per noi di “fare buon uso” dell’impazienza del desiderio, la quale, come tale, vive soltanto nella contingenza di un prima e di un dopo differenti, nell’irridubicibilità di uno scarto tra il desiderante e il desiderato che non può darsi affatto nell’immediatezza del just in time postfordista o del continuum dell’istantaneo proprio della “società dello spettacolo” (p. 89). Lo spettacolo è appunto questo, un “fatto allucinatorio sociale” (p. 96) che in primo luogo costituisce una modalità di produzione di oggetti linguistici e materiali in cui si ridefinisce la nostra costituzione umana ed in cui vengono a identificarsi, e dunque a cadere, le classiche distinzioni tra natura e storia, tra reale e virtuale.

Tuttavia, l’identificazione tra i mass media e lo “spettacolo” fa perdere di vista il fatto che quest’ultimo è in realtà la forma di produzione e di riproduzione della “società” (p. 87), dove peraltro possono benissimo darsi modalità di vita che, pur nascendo fuori dai mass media, riproducono però la stessa logica dello spettacolare, ovvero l’illusione di farsi protagonista del proprio “palinsesto” di vita. In particolare, la comunità tecnologica creata dai social media, proprio per la loro diffusione su grande scala, sembra fare da freno all’esistenza apatica del singolo individuo, mettendola in comunicazione con quella di tutti gli altri, fornendo così un nuovo spazio linguistico e percettivo di creazione del sé. Tuttavia, tale messa “in comune” esperienziale avviene unicamente sulla base di una reciproca chiusura al mondo della vita riproducendo, come sostiene Debord, una “classe pseudo-contadina tecnologica” caratterizzata appunto da chiusura ed apatia (p. 99).

A questo proposito, Prinzi suggerisce l’adozione di un nuovo termine, l’ “immediale”, per spiegare meglio la “messa in comune dell’apparenza” (p. 95) che avviene all’interno degli attuali circuiti tecnologici in cui lo spettatore si percepisce (e di fatto lo è) come parte attiva del processo di continuo aggiornamento e potenziamento dello spettacolo medesimo. E allora, se “lo spettacolo non si può addomesticare, ma solo abolire – egli si chiede –, quali possono essere le forze in grado di portare a termine questo compito?” (p. 98). In altre parole, a partire da quali luoghi (ce ne sono ancora?) riprendere fiato e tentare di riorganizzare una comunità antagonista in cui il terreno sociale e il mondo storico non siano stati già completamente fagocitati dal non-luogo dell’immediale?

Le ipotesi di lavoro fornite da filosofi come Giorgio Agamben oppure dal collettivo francese “Tiqqun” nel corso degli anni ’90, pur riflettendo a fondo sulla necessità di realizzare una nuova comunità separata dalla logica dello spettacolare, appaiono al giovane studioso napoletano mancanti, in modo certamente diverso, di quel legame che unisce a doppio filo la sfera della produzione e riproduzione sociale (nelle sue forme materiali e linguistiche), al tema dell’organizzazione dell’azione politica necessaria alla trasformazione rivoluzionaria di entrambe. In tal senso, se la proposta agambeniana di una “comunità che viene” si fonda su una “singolarità qualunque” che non fa dipendere la propria liberazione dalla soppressione dei rapporti sociali esistenti né si adopera ad organizzare una nuova politica antagonista (pp. 99 e ss.), quella del collettivo “Tiqqun”, pur approfondendo quest’ultimo aspetto, di fatto lo elimina completamente dal suo “programma” sovversivo (p. 102), facendo proprie soprattutto esperienze “immediate” di autorganizzazione del comune, di sciopero umano, di rifiuto del lavoro, di acquisizione in proprio dei saperi (p. 103), esperienze queste che si presuppone avvengano in una “porzione di globo” in cui territori e luoghi del “mondo” non siano stati ancora travolti e alterati dalla potenza dell’immediale (p. 104). “Ciò che Tiqqun trascura – prosegue Prinzi – è che quell’ambito mediale in cui siamo catturati non è l’esercizio di un potere che aderisce in ogni punto al movimento del bios, ma è la forma che prende oggi la mediazione, è un terreno di scontro fra diverse egemonie e resistenze, è l’aspetto immediato assunto da un modo di produzione che, per quanto possa apparire istantaneo, invasivo e dominante, resta un processo, uno svolgimento, minato di differenze e contraddizioni” (p. 104).

“Ri-organizzarsi” vuol dire allora in primo luogo l’individuazione dei luoghi di lotta possibili, costruire una storia delle possibili alleanze e resistenze, incrociare esperimenti sociali di aperta rottura sul piano politico con altri che insistono su una mediazione ottenuta non a ribasso. Questi “non-luoghi” sono innanzitutto le periferie metropolitane e i territori in cui la matrice classista dello sfruttamento e il trauma della storia (e del mondo) si mostrano ancora ben evidenti, nonostante le luci dello spettacolo tendano costantemente a coprirli.

Ora, rendere visibili queste realtà, farle cortocircuitare con altre del “centro” magari molto eterogenee, implica certamente un lavoro di mediazioni molto duro e continuo che, tuttavia, appare a Prinzi l’unico punto a partire dal quale proporre una nuova narrazione materialista e antagonista. Bisogna non far sì che un’azione possa finire nell’immediato, nell’estemporaneo dell’evento, bensì, egli afferma, “costruire un sito”, stabilire una trincea, “stabilizzare il flusso immediale in una concrezione che avviti piano locale e piano globale” (p. 109). Insomma, riconquistare un avamposto, che può essere al caso un luogo fisico da cui condurre e organizzare la lotta e un nuovo stile di vita (si pensi al sito di Venaus del movimento NO TAV), oppure soltanto virtuale (punti di intersezione nelle reti telematiche, banche dati di stoccaggio e trasmissione delle informazioni etc.). Entrambi infatti sono “terreni mediali” (p. 109) dove “si riproducono i processi, le contraddizioni, le tensioni che attraversano tutto il corpo sociale messo al lavoro dal capitale” (p. 111) e dove avvengono fenomeni antagonisti di “secessione” comunicativa che posseggono una chiara impronta di classe.

Presenti soprattutto, come si diceva, nelle aree metropolitane, questi fenomeni di rivolta sono sempre esposti al rischio di un’ostilità spontanea (p. 103) senza possedere però alcun progetto politico, oppure al rischio di arrestarsi di fronte alla richiesta di una generica difesa dei territori senza per questo riuscire a situarne la strategia dentro la contraddizione tra capitale e lavoro.

A questo proposito, Prinzi insiste sulla necessità di pensare e stare dentro il conflitto sociale facendo riemergere la nozione di classe come collante di tutte le lotte in atto. Egli sostiene che la secessione anche numerosa di segmenti mediali fatta attraverso una tenace attività di controinformazione sul territorio e oltre i suoi confini, ad esempio, possa non essere sufficiente a creare le “condizioni spirituali” di un’alternativa politica. Se l’estensione della lotta, il radicamento del suo consenso, passa in primo luogo attraverso la capacità di aggregare più soggetti, allora è soltanto attorno alla nozione di classe intesa come “condizione materiale” che potrà raggiungersi una compiuta ed universale convergenza degli interessi di tutti (p. 115).

Pertanto, è soltanto da questo punto di vista “di classe” che risulta poi possibile introdurre il tema gramsciano dell’egemonia, tema questo pressoché dimenticato dai teorici delle moltitudini e lasciato troppo spesso ad un’interpretazione riduttiva e quantitativa portata avanti da famigerati politologi di regime. A differenza di questi ultimi, Prinzi ritiene che il significato dell’egemonia politica non si fondi su un generico accordo o su un compromesso tra diversi soggetti politici, bensì risieda in una strategia che va praticata e fondata su molteplici piani, da quello politico, fino a quello quotidiano, assicurando cioè una penetrazione ideologica in tutta la sfera mondana dell’uomo, trasformando i suoi desideri e i suoi costumi.

“Lotta di classe” ed “egemonia” sono quindi concetti da utilizzare per uno scopo preciso, quello cioè non solo di “individuare i punti più alti dello sviluppo capitalistico” e interrompere la riproduzione del capitale, bensì di favorire la comunicazione tra i lavoratori, sottraendola alla vanificazione dello scambio linguistico proprio della “società dello spettacolo” e riconsegnandola, in quanto capacità mediale (si pensi all’uso leninista del quotidiano), al suo valore d’uso rivoluzionario che è poi quello di ricomporre, attorno alla classe, tutto il proletariato contemporaneo disperso nella fluidità del campo sociale (p. 121).

 

3.

Decisamente meno densa e corposa anche se non meno importante, l’ultima parte del lavoro di Prinzi è dedicata al tema della crisi e alla sua duplice interpretazione in chiave storico-filosofica in quanto evento che caratterizza più di altri l’epoca moderna come epoca del capitalismo.

Per i teorici dell’Illuminismo, essa infatti viene esperita come un accadimento positivo, ovvero una rottura storica rispetto al passato che restituisce, nel presente, forza e creatività al giudizio della ragione universale. Il pensiero liberale, soprattutto durante il corso dell’Ottocento, si è invece mostrato incline a relativizzarne la portata radicale trattandola come qualcosa di transitorio e di inevitabile nonché come uno strumento ideologico molto efficace di consolidamento dei nazionalismi europei (pp. 133 e ss.). Prinzi dunque, individua la deviazione storicistica del concetto di crisi avvenuta nel secolo XIX e segnala come tale stortura sia all’origine di quel meccanismo securitario che, nato dalla paura e impadronendosi dell’ideale nazionale, ha dato luogo durante il XX secolo all’emergere del paradigma immunitario e pregiudizievole del “noi” e del “loro” sul quale si reggono le democrazie contemporanee.

Qui, il compito di spezzare quest’incantesimo terribile appare davvero arduo, poiché bisogna intervenire in modo coordinato almeno su un duplice livello interpretativo facendo ricorso, ancora una volta, non solo alla tradizione marxista, ma anche ad alcuni concetti provenienti dalla psicoanalisi e dalla fenomenologia utilizzandoli come strumenti di lotta. In particolare, si tratta di procedere ad una critica radicale di quel senso comune e del pregiudizio che non è mai soltanto soggettivo, bensì si annida e cresce in una visione del mondo distorta e dominata dal sapere/potere in atto nella società. Il trauma della crisi, da fenomeno oggettivo del mondo ridotto a globo e a spettacolo, viene così interiorizzato nella coscienza dei singoli e nuovamente rimbalzato sul palcoscenico della “società dello spettacolo” per essere comunicato, diffuso come elemento di raccordo di paure collettive.

E tuttavia, Prinzi, seguendo Gramsci, ci tiene a ricordare, contro la fretta interpretativa di cui pure i movimenti antagonisti sono stati talvolta vittime, che proprio il senso comune si trasforma costantemente, non rappresentando un dato irrigidito (pp. 138 e ss.). In quanto sovrastruttura prodotta dalle contraddizioni materiali della società, esso non è affatto qualcosa di univoco, bensì vi sono tanti sensi comuni che, operando nella società, sono in lotta tra di loro e sui quali si potrebbe intervenire con un progetto politico che ostacoli il riordino “tecnico” degli spazi dell’agire pubblico (pp. 142 e ss.).

Nonostante (ma verrebbe da dire poiché) in tempi di crisi la politicizzazione tra individui e classi viene spinta al massimo e sembra essere sul punto di esplodere in conflitto sociale dichiarato, le istituzioni di controllo (governi più o meno legittimi o tecnici, istituzioni di garanzia nazionali e sovranazionali, sindacati confederali, lobby industriali ed economiche etc.) mirano a raffreddare ulteriormente la rabbia di quel pubblico che si mostra già di per sé refrattario a prendere posizione, ma che talvolta può però assumerne una non prevista, provocando fratture all’interno del corpo sociale (pp. 145 e ss.). Tutto quel programma di “governo del sé e degli altri” avente come scopo una “educazione alla moderazione” dei cittadini (pp. 150 e ss.) viene così sottoposto al rischio di poter essere messo in scacco, inceppando la duplice messa in forma, da parte dei poteri neoliberali, di una cittadinanza-proprietaria che mentre viene reclutata ed incitata ad emergere e a partecipare, subito vede ridotta la propria intemperanza sovversiva attraverso una stratificazione mobile di controlli di sicurezza che vanno dalla presa sul corpo, a quella del proprio tempo, dei propri atti linguistici e, insomma, di tutta l’espressività libera di cui è capace il bios.

È analizzando questi dispositivi biopolitici, ed in particolare quello riguardante le politiche sull’immigrazione messe in atto a partire degli anni Novanta, che Prinzi riesce a cogliere uno spostamento epistemico interessante di cui la crisi capitalistica si serve per formulare i propri discorsi morali per prima frenare l’avvenimento imprevisto, e poi chiudere il processo di estraneità appena iniziato.

Si tratta di un passaggio concettuale fondamentale che dal regime del libero “giudizio” si solidifica in quello restrittivo della “sentenza” dove ad essere in gioco sono innanzitutto quelle procedure di formazione e certificazione della verità che pretendono di marcare ogni volta una distinzione sempre più profonda tra “noi” da “loro” (p. 148). Chiamati a rispettare le “nostre leggi” in cambio di essere “accolti”, i migranti, ad esempio, sono i soggetti maggiormente catturati da questi dispositivi di verità “sentenziali” fondati sul sentito dire e che proprio perché non necessariamente “veri” possono essere eretti a norme di condotta sociale generalizzata (p. 155). Costrutti linguistici che si fondano su una divisione tra migranti “regolari” e “clandestini” (ovvero “senza documenti”), così come orrende similitudini ideologiche tra la sfera pubblica e quella del proprio ambiente privato (“loro vengono a casa nostra” e perciò sono obbligati a…”), sono tra i principali operatori semantici della creazione di un razzismo di stato e del consolidamento della “tautologia della paura”, cioè a dire quello spazio discorsivo creato ad hoc in cui ciò che tutti pensano diventa vero perché si assume che sia pensato da tutti (p. 156).

In particolare, è soprattutto attraverso il flusso delle immagini videografiche che lo spettatore partecipa alla costruzione e alla realizzazione di un messaggio razzista generalizzato e formalizzato dai media (p. 158) in cui si è disposti tutt’al più a tollerare solo il migrante vicino al proprio mondo e che lavora per la propria “casa” (il “mio” Stato). Poco importa se poi tale tolleranza non prevede neanche la restituzione di un’eguaglianza formale che, in termini di diritti, è posta perfino a fondamento dello scambio tra lavoro e capitale. Il migrante che resta distante da me e che non abbandona il “flusso” (p. 157) delle identità contrastanti, mi getta in angoscia perché annulla la divaricazione tra “mondo” e “globo”, tra “noi” e “loro” raccontata dalla “società dello spettacolo”.

Sebbene infatti le norme morali e giuridiche (le “sentenze”) continuino a conformare sul piano universale e a bloccare o a filtrare corpi e discorsi, è la stessa crisi capitalistica a non smettere di creare esternità (p. 160), ovvero ad essere la principale responsabile di quel flusso migratorio che essa stessa vorrebbe impedire (o quanto meno controllare) e che invece inevitabilmente riproduce.

Lo stesso può dirsi di tutte quelle contraddizioni e sacche di resistenza sui luoghi di lavoro, nei territori, nel tempo speso con gli altri, che aprono al recupero di nuovi e diversi “giudizi” che, rifuggendo e rovesciando il paradigma “sentenziale”, possono legare “differenti durate, e soprattutto quelle eccedenti o di scarto rispetto all’unica temporalità annichilente del mercato globale” (p. 160).

In tal senso, sulla scia dell’illuminismo kantiano, la facoltà del “giudizio” viene intesa da Prinzi come attività di sintesi tra istanze diverse, come capacità di istituire legami eterogenei e, più ancora, come un’estetica dell’immaginazione che sola può fondare un agire morale “critico” in cui è sempre possibile mettersi al posto degli altri perché non vi è alcuna “casa” “dentro” al “globo”, bensì tutti siamo “ospiti” del “mondo” e, soltanto per questo, suoi “cittadini” (p. 160).

Porre interrogativi, evitando la ripetizione dell’identico del passato (p. 163), è sicuramente più faticoso della fretta con la quale la macchina capitalistica mette in atto le sue sentenze sul mondo. Perciò, “mettere giudizio” può essere forse meno affascinante di una rivolta furiosa, ma chi governa “teme proprio un’elaborazione strategica, un tipo di sedimentazione organizzata e cosciente, dove convergono la pazienza dei tempi lunghi e l’ostinazione del tutto e subito” (p. 162).

Un timore questo che è tanto più forte quanto più un movimento plurale ma organizzato fosse in grado di approfittare della crisi capitalistica attuale, moltiplicando le zone di resistenza in ogni punto in cui essa morde con più ferocia e avanzando richieste di welfare chiare ed eterogenee, dalla rivendicazione di un reddito di esistenza per tutti, alla riappropriazione degli spazi e dei beni comuni fino alla riduzione dell’orario di lavoro. In tutti questi casi si tratterebbe di riappropriarsi del (proprio) tempo, sottratto alla crisi (del capitale), per potersi nuovamente riappropriare di un mondo a sua volta sottratto alla mistificazione dello spettacolo globale, per poter tirare il fiato e “apprendere la lentezza dell’impazienza” (p. 15) che il ’68 ha mancato e che per Prinzi rappresenta invece un esercizio filosofico vitale per poter costruire nuove alleanze affettive e aprirsi ad un nuovo progetto rivoluzionario.

Ad oggi, per realizzarlo, non mancano le forze, né gli strumenti, né “un” soggetto né “i” soggetti, poiché la consapevolezza che lo sfruttamento capitalistico sia oramai dappertutto è stata fatta propria dal 99% di tutti “noi”. Manca la visibilità di un’alternativa riuscita che dia inizio ad una nuova Storia. Manca un nuovo Ottobre.