Gianvito Brindisi, Il potere come problema

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Gianvito Brindisi

Il potere come problema
Un percorso teorico
 



La scuola di Pitagora editrice,
Napoli 2012, Euro 15
ISBN 978-88-6542-178-9

 


Perché obbediamo a chi è al potere? Quali sono i dispositivi di potere che hanno prodotto e producono le forme dell’obbedienza, alle spalle delle nostre scelte consapevoli? Se questo è, in ultima istanza, il problema generale al quale Gianvito Brindisi cerca di dare un contributo di analisi e di argomentazioni, il suo libro, attraverso la polivocità delle voci teoriche che mette in campo, appare strutturato e pensato, a mio avviso, intorno a tre questioni principali: quella della “definizione” del concetto di potere; quella della relazione tra potere e diritto; quella dei rapporti tra il potere politico e le pratichegovernamentali. Isolare questi tre nuclei problematici non solo può dare orientamento al lettore nell’articolata argomentazione storico-teorica dell’autore, ma consente anche di mettere meglio in luce le aporie del potere (e dell’obbedienza).

La prima questione affrontata da Brindisi, in particolare nell’introduzione, è quella della definibilità del concetto di potere. Egli sostiene che non ci sia un concetto di potere ma che a partire dall’antica Grecia – ma forse dovremmo dire dal Paleolitico – le comunità umane si siano dovute confrontare con il problema del potere. Inteso nel senso di Foucault, il “problema” è ciò che in un dato momento storico induce gli uomini e le donne concreti ad uno sforzo di elaborazione teorica; è il «campo in cui prendono corpo le preoccupazioni umane (morali, politiche, economiche, giuridiche) e le forme di esperienza» (p. 27). Tuttavia, qui sorge una difficoltà: “un” problema c’è quando può essere in qualche modo “identificato” in quanto tale; in questo caso in quanto problema del “potere”. È lo stesso Foucault che ci indurrebbe a questa conclusione: se si danno differenti e plurali “dispositivi di potere” allora il “problema” del potere è ciò che li attraversa; se così non fosse ci troveremmo nell’impossibilità di confrontare i diversi dispositivi di potere, per comprendere la loro stessa differenza. La necessità teorica di una messa a confronto tra le differenti tipologie e i differenti dispositivi di “potere” fonda, inoltre, anche la stessa possibilità delle interpretazioni “genealogiche”, come, sulla scorta di quella nicciana, sono quelle foucaultiane. Se lo studio del passato, in questo caso delle “forme (passate) del potere”, non è pura e semplice (e inutile) erudizione, se esso è importante per comprendere il presente, allora o c’è una costante antropologica – il problema del potere oppure, se essa non può essere concettualmente identificata, allora ogni interpretazione del passato risulterebbe radicalmente “inventata”. Se questo fosse vero, allora anche la genealogia risulterebbe essere solo una finzione che parla unicamente al presente (e dal presente), nonostante si manifesti come una ricostruzione delle tappe e dei processi di formazione del presente. Io penso che Foucault (e lo stesso Nietzsche) abbiano sempre pensato che genealogizzare non significasse “inventare”, come in una sorta di fiction poetica, ma “ricostruire”, interpretando certo, ma in modo da rendere meglio intellegibile il presente rendendo meglio intellegibile il passato. E ciò è possibile solo a partire dalla individuazione di una qualche “costante” antropologica. Di questa necessità – vale a dire del fatto che la determinabilità del campo del potere implichi almeno un’ipotesi guida sul potere – Brindisi è perfettamente consapevole. E una definizione potrebbe essere quella più volte evocata nel testo: il potere è la capacità di un agente di indurre altri a fare o non fare. Con l’accortezza di ampliare la nozione di agente in modo da includervi anche i dispositivi “impersonali” di potere, come quelli studiati da Foucault.

Le seconda questione affrontata dal libro, in maniera trasversale, riguarda la relazione fra potere e diritto. Il potere, inteso qui come “forza”, fonda il diritto o è quest’ultimo che fonda il potere? La tesi di Brindisi, del tutto condivisibile, è che non solo sia il potere – inteso come forza, sia essa violenza bruta, sia essa forza militare, sia essa forza economica, sia essa forza rivoluzionaria – a fondare il diritto, ma anche che il diritto, come ha mostrato Pierre Bourdieu, sia una specifica forma di potere che, in quanto “violenza simbolica”, risulta in grado di autorizzare o negare l’esistenza sociale agli individui (p. 115). È tuttavia Bertrand de Jouvenel che sostiene in modo radicale l’origine violenta del potere politico e dello stato di diritto. Ogni società complessa, ogni grande aggregato, egli sostiene, ha origine nella pura violenza priva di legittimità. Tuttavia la storia ci insegna che poi queste azioni di conquista hanno avuto bisogno di stabilizzare quella violenza, creando una rete utilitaristica di consenso. Il potere, secondo de Jouvenel, riesce così a socializzarsi vincolando a sé i vinti fino a farli prosperare (p. 100 e ss.). Ma la totale socializzazione del potere è un’illusione ideologica; un’illusione che si è ripetuta spesso nella storia. Il potere, che a sua volta stabilizza il comando e la forza attraverso la sua “socializzazione”, non può dissolversi integralmente in essa – come vorrebbero oggi i teorici dei “beni comuni”. Ogni volta che questa socializzazione integrale è stata storicamente tentata è risultata poi sempre lo strumento (a volte involontario) della sostituzione di un comando con un altro.

L’origine violenta del potere ricompare sempre, anche quando essa è de-negata. Bourdieu, a tal proposito, sostiene che la forza del diritto, in quanto campo simbolico, è anche quella di far dimenticare la sua origine violenta. Anche qui emerge, tuttavia, un’aporia. Se è vero che l’origine dello stato di diritto resta celata, è pur vero che l’origine è la violenza; ma allora è da preferirsi l’origine (violenta) al diritto? Oppure in quest’ultimo si è verificata una trasformazione, quasi un’inversione? Anche se occulta l’origine, lo stato di diritto, specie a partire dalla Rivoluzione francese, risulta fondato sull’universalità della legge. E tra l’universalità della norma, valida “per tutti”, e l’effettività contingente del comando di “alcuni”, si produce un continuo e strutturale dissidio. Mentre la violenza dell’origine è sempre di parte, è sempre partigiana, il diritto che tende a stabilizzarla è necessariamente portato a contraddirla, o meglio ad entrare in dissidio con quella. Il diritto così serve anche a chi, nello Stato, si oppone al potere statuale, serve anche, ovviamente fino ad un certo punto e solo in determinate condizioni storiche, ad opporsi a quella parte che ha il comando. Insomma, il diritto è un’arma politica a doppio taglio; anzi, forse potremmo affermare che – finché i conflitti non diventano così radicali e profondi, tali da non poter essere articolati all’interno dello stato di diritto – il diritto moderno sia stato storicamente percorso da un suo specifico dissidio strutturale: quello tra il diritto che “esclude” (dallo stato di diritto) e il diritto che “include” (nello stato di diritto), come è avvenuto e avviene a proposito dei “diritti civili” che, espressione della lotta politica di minoranze, una volta acquisiti valgono anche per coloro che si opponevano a che divenissero diritti (per tutti).

A mio avviso, questa “aporia” del diritto trova una sua radicalizzazione se spostata su di un piano, per così dire, onto-politico. Mi riferisco alle relazioni tra potere e potenza, così come sono state discusse nella filosofia europea a partire dalla interpretazione deleuzeana della nozione spinoziana e nicciana di “potenza”. Brindisi, attento studioso di questa problematica, vi dedica una serie di interessanti argomentazioni nel suo libro.

Il nucleo storico della problematica è nella opposizione teorica tra Hobbes e Spinoza relativamente alla questione dello ius naturale. Per Hobbes, come è noto, gli individui, decidendo di diventare sudditi di uno Stato, accettano di rinunciare allo ius naturale e, quindi, alla libera espressione della loro potenza naturale. Per Spinoza, invece, nello stato civile ogni individuo mantiene e deve poter mantenere i propri diritti naturali, vale a dire la propria potenza. Per lui è possibile che la libera espressione della potenza di ciascuno non porti a conflitti, e quindi a una qualche “violenza” di una potenza su di un’altra. Il potere politico per Spinoza (e Deleuze) non deve “separare” un corpo dalla sua potenza. L’unico potere accettabile è il potere come espressione della potenza d’essere, quindi il potere di un corpo, quindi i poteri delle moltitudini dei corpi. Il potere che si separa dalla potenza e che separa i corpi dalla loro potenza è un potere inaccettabile e contro natura. Tuttavia, qui l’aporia della relazione del potere con la sua origine si ripropone e, a mio avviso, si raddoppia: innanzitutto, chi assicura che la libera espressione della potenza di ciascuno sia “armonizzabile” con la libera espressione di quella di ogni altro? Chi ci assicura che l’espressione della potenza non faccia violenza ad altre forme di espressione di potenza? Forse alla base di tale visione (cripto)armonicistica di Spinoza c’è quell’ontologia della “sostanza unica” che Deleuze non ha potuto né voluto acquisire nella sua interpretazione (nicciana) di Spinoza – ma anche l’interpretazione di Nietzsche che ci ha consegnato Deleuze ha dovuto essere reticente sul punto incandescente e indigeribile del nesso tra potenza e dominio nel filosofo tedesco. D’altro canto, e qui ci troviamo di fronte all’altro lato dell’aporia, come non pensare, questa volta sulla scorta di Foucault, che il “potere” politico, che recide i “sudditi” dalla loro “potenza”, sia a sua volta “produttivo” e, quindi, abbia a sua volta una “potenza” (anonima e impersonale) da esprimere?

La Rivoluzione Francese ha segnato una frattura nella storia europea, frattura che ha prodotto il crollo di tutte quelle “forme etico-politiche” intermedie – esaltate ancora da un autore come Montesquieu – che ponevano dei limiti effettivi al potere statuale. Dopo la Rivoluzione, troviamo (semplificando) solo lo Stato e gli individui. È la condizione delle moderne democrazie, precocemente analizzate e criticate da Tocqueville. Moderne democrazie nelle quali il potere “governamentale” si intreccia a quello sovrano degli stati, ma progressivamente tende ad autonomizzarsi. Siamo così arrivati a discutere – ma dopo aver tralasciato molti passaggi intermedi su cui Brindisi si sofferma – della condizione contemporanea del potere. Ovviamente è Foucault l’autore al quale Brindisi si riferisce e su cui si appoggia in tale ambito. Foucault ha infatti analizzato l’emergere delle pratiche governamentali all’interno degli Stati moderni, dapprima come declinazione moderna dell’antico “potere pastorale” (che in Occidente si è imposto a partire dal pastorato cristiano) poi, perdendo sempre più i caratteri “patriarcali”, trasformatosi nel potere governamentale liberale contemporaneo, potere che trova la sua condizione di possibilità nel governo delle “libertà”. Questo avviene quando le pratiche governamentali di “controllo” delle popolazioni e degli individui si intrecciano con gli sviluppi consumistico-liberali del capitalismo. È l’attuale condizione di vita e di esistenza delle popolazioni umane.

Nei capitoli conclusivi del suo libro, Brindisi descrive criticamente questa condizione attuale e, relativamente al problema del potere, analizza l’emergere di due diversi e specifici dissidi. Il primo riguarda l’opposizione tra il neo-costituzionalismo e le pratiche di governance. Il secondo, invece, riguarda le relazioni tra democrazia liberale e angoscia politica.

Per quel che riguarda la prima questione, l’autore mostra come, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale – si pensi alle Costituzioni italiana e tedesca – si sia imposto un neo-costituzionalismo caratterizzato dalla “costituzionalizzazione” (rigida) dei diritti, posizione teorico-politica che ha coltivato (e coltiva ancora) l’utopia di un dominio del diritto sul potere. D’altro canto, questa posizione neo-costituzionale sembra essere stata sottoposta ad un lento ma inesorabile processo di sgretolamento per l’affermarsi di una tendenza alla progressiva “de-costituzionalizzazione” del potere politico e una sua trasformazione in attività “tecno-amministrative” svolte, secondo una logica efficientistica, da un crescente numero di “agenzie” trans-nazionali autonome. Si tratta dell’emergere di ciò che, negli ultimi decenni, viene chiamato la governance, che è una forma di governo diffuso senza un centro di imputazione e, quindi, senza la possibilità del controllo democratico secondo le modalità delle democrazie rappresentative statuali medio-novecentesche. Il dissidio è così quello che si produce di continuo tra la tendenza ad una sempre più rigida costituzionalizzazione dei “diritti” e la tendenza ad una sempre più ampia de-costituzionalizzazione del potere politico, de-gerarchizzato e parcellizzato in una molteplicità eterogenea di agenzie tecnico-amministrative, come sta avvenendo nell’Unione Europea.

Passando alla seconda problematica, quella delle relazioni tra il liberalismo e l’angoscia politica, la tesi di Brindisi – che riprende e rielabora (opportunamente attualizzandoli) alcuni studi di Franz Neumann – è che l’angoscia sia un affetto politico tipicamente moderno. La ragione di fondo è che le soggettività moderne e, ancora di più, quelle contemporanee si sentono continuamente minacciate dal pericolo. In uno stato di crisi permanente, in una situazione in cui niente appare più stabile, l’angoscia reale appare sempre più non solo mescolata all’angoscia nevrotica – come aveva già notato Freud – ma appare fattore di potenziamento delle angosce nevrotiche. I soggetti stessi finiscono così per percepirsi come fattori di pericolo: «l’economia di potere propria del liberalismo, nel suo continuo porre o evocare pericoli (economici, medici, biologici, morali, politici, etc.), fa sì che i soggetti siano perennemente mossi da un vissuto psichico paragonabile all’angoscia, perennemente presi dal sentimento di una potenziale perdita» (p. 202).

Le soluzioni populiste, come quella berlusconiana in Italia, sono apparse allora, anche a giudizio dell’autore, in grado di canalizzare e sostenere l’angoscia, in parte trasformandola in “paura”, o meglio “paure” verso determinati “oggetti” (o, meglio, soggetti “oggettivati”).

Ma la soluzione all’angoscia non può essere il populismo, sostiene in conclusione Brindisi. La soluzione, sempre “provvisoria” e parziale, non può che essere la stessa libertà. La libertà, infatti – ed è questo il centro pulsante dell’aporia in cui ci troviamo a vivere – è la condizione dell’angoscia così come è la condizione della governamentalità liberale, ma, al contempo, è l’unica strada di resistenza a quest’ultima e la via attraverso la quale è possibile fare i conti con le nostre angosce. Ma per fare questi conti dobbiamo continuare a costruirci come “soggettività democratiche”, sottolinea Brindisi, consapevoli che questa necessaria costruzione non è data una volta per tutte e resta sempre esposta alle regressioni reattive.