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Mario Costa, Ontologia dei media


Mario Costa
Ontologia dei media


postmedia books, Milano 2012, 85 pp. 
ISBN 978-88-7490-086-2, € 12,60
 








Per “entrare” nell'ultimo saggio di Mario Costa sui media, è utile partire dalle due immagini di copertina.La prima di esse è quella dell'attrice Milla Jovovich in una scena dell'episodio Extinction della serie cinematografica Resident Evil – ispirata al videogioco omonimo. L'attrice “tocca” dei pannelli di vetro luminosi, come se toccasse un touch-screen. Lo sguardo è assorto e sottilmente preoccupato. La sua mano sfiora per “entrare”, per “aprire”, per “fare”, con tocco sottile. In Resident Evil il mondo è popolato da zombi prodotti dalla mutazione dei corpi umani per effetto di virus informatici. Il “mondo” appare completamente “digitalizzato” e in balia di una imprevedibilità dovuta alla proliferazione di eventi bio-virali con cui la protagonista deve fare i conti.

La “quarta di copertina” accoglie, invece, un'immagine fotografica della performance Dialtones dell'artista Golan Levin, presentata all'Ars Electronica Festival di Linz nel 2001, consistente in un concerto per suonerie di telefoni cellulari realizzato con il pubblico. A queste due immagini di copertina sembra fare da pendant la fotografia dell'autore, comodamente seduto a suo agio nell'interieur del suo studio pieno di libri. Da un lato troviamo la rappresentazione di un mondo popolato di “cose” sempre più sensibili ed intelligenti, mondo nel quale le soggettività umane sembrano essersi ridotte a semplici servo-meccanismi psichici della strumentazione tecnologica, dall'altro troviamo ancora il mondo rassicurante dei libri e della scrittura “alfabetica”. È da questo secondo mondo che l'autore ci parla del primo, con il distacco dell'entomologo, distacco venato a volte da una sottile indifferenza cinica. Lo fa adoperando, innanzitutto, una precisa modalità di scrittura.

La scrittura che Mario Costa adotta in questo suo saggio sembra il calco (chiaramente “ironico”) di ciò che egli stesso chiama la “scrittura di Internet”: si passa da montaggi di citazioni di sapore neo-dada – come quando, discutendo delle trasformazioni del senso del “tatto”, quasi senza soluzione di continuità, cita una canzone dei Village People sul “sesso telefonico” e poi degli stralci di un'intervista ad una telefonista di una linea erotica (p. 22-23) – ad elenchi di frasi da leggere come facendo scrolling all'interno di un terminale video – come nel caso delle tre pagine di “definizioni” delle tipologie di scrittura nei manoscritti medievali (pp. 53-56) – all'apertura di una sorta di “finestre web”– come quando introduce il discorso sulla psicologia del navigatore nel web (“Le sventure dell'identità”, capitolo terzo), attraverso un lungo e imprevisto excursus sui processi alle streghe nel 1500 e sui “suicidi religiosi” (pp. 30-38).

Nel verso del frontespizio, l'autore inserisce alcune frasi che fungono da esergo e da introduzione al saggio. Nell'ultima scrive “a volte l'ironia mi ha preso un po' la mano, ma sempre con la massima serietà”.

Credo che la chiave dell'ironia e della parodia serva ad evidenziare il punto centrale intorno al quale gli otto capitoli del libro ruotano. Questo è quello della crisi, se non proprio del “crollo”, dell'universo simbolico, quindi del “mondo”, a partire dalla comparsa di Internet. Nella “rete” due sono, a parere di Costa, le tendenze “disgreganti”. La prima è la modalità di comunicazione a “flusso”, cioè quella di una comunicazione in cui un'informazione segue ad un'altra senza alcuna relazione di contenuto e senza alcuna organizzazione logica – si tratta, in effetti, di una modalità di comunicazione a “palinsesto continuo” già sperimentata all'interno dei mass-media “radio” e “televisione”, ma che in Internet acquista una radicalità prima sconosciuta. La seconda tendenza disgregante è l'eccessività delle informazioni che circolano in rete, un'eccessività che secondo Costa deve essere interpretata come “eccesso di simbolico”. Ecco che Internet, egli scrive, «mostrando l'oceano di simbolico prodotto dall'uomo nel corso della storia, ridimensiona il nostro, qualunque esso sia; il nostro simbolico è soltanto uno degli infiniti altri simbolici non solo già stati ma anche ancora possibili; tutti sono ugualmente legittimi e dunque il nostro perde ogni centralità e viene a mancare di quella credibilità che noi gli attribuivamo» (p. 45).

Di fronte a tale profonda, ma inavvertita, “apocalisse culturale” – per usare una famosa espressione di Ernesto De Martino – sono possibili, secondo Costa, solo due atteggiamenti. O il fondamentalismo “reattivo” delle “piccole patrie” e delle “piccole comunità” oppure l'indifferenza “cinica”, che egli chiama “liquidazione del simbolico” e alla quale sembrano andare le sue simpatie.

 

In questo patch-work che è Internet è conservata, quindi, tutta la produzione simbolica che le culture umane sono state in grado di accumulare, ma senza alcun ordine, senza alcuna gerarchia, senza alcuna storicizzazione. La scrittura di Internet non è, quindi, la scrittura in Internet, precisa con decisione Costa, in quello che forse è il capitolo più polemico del libro, vale a dire il capitolo quarto, intitolato “Lo scriba elettronico”. In esso fa i conti con l'ontologia della scrittura proposta recentemente da Maurizio Ferraris (Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza 2010) e, indirettamente, con il pensiero “grammatologico” di Jacques Derrida. Senza entrare in un'analisi puntuale delle obiezioni che Costa rivolge a Ferraris, il senso ultimo del suo disaccordo consiste, a mio avviso, nel rifiuto della tesi “ontologica” secondo la quale lo spirito (nel senso del Geist hegeliano) trova la sua “condizione di possibilità” nella lettera e nelle tecniche di registrazione delle “tracce”. Ad avviso di Costa questa tesi così radicale rischia di ridurre la differenza tra l'evento e la sua “registrazione” (la sua “traccia”). Dietro questa obiezione c'è una differente valutazione che Costa ha sempre mantenuto tra le “tecnologie della registrazione” (come ad esempio il magnetofono), da un lato, e le “tecnologie della comunicazione a distanza” (dal telefono a tutte le tecnologie di telecomunicazione informatiche) dall'altro, sostenendo da sempre, e con forza, la priorità o comunque il prevalere di queste seconde sulle prime. Sin dai suoi libri degli anni Ottanta sull'estetica della (tele)-comunicazione, egli ha sempre sostenuto la prevalenza della comunicazione evenemenziale sulla registrazione delle (sue) tracce. Tuttavia, anche le sue tesi rischiano, nella loro estremizzazione, per evitare di ridurre l'evento alla sua registrazione, di pensarne la (presunta) purezza come una sorta di azione senza traccia, quasi una sorta di delitto perfetto, senza cadavere, senza resto e senza testimonianza.

Che tale tesi sia estrema e forse ascrivibile, nella sua radicalità, alla vis polemica di alcuni dei capitoli del libro, mi sembra che l'autore stesso sia consapevole, soprattutto in quelle pagine del suo libro in cui alla vis destruens sostituisce una vis costruens che gli fa riprendere argomenti e tesi già in parte svolte in alcuni suoi libri precedenti (come, ad esempio, Dimenticare l'Arte. Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Franco Angeli 2005). Uno di questi è la teoria degli iper-media o meglio di ciò che potrebbe essere definito come la “condizione iper-mediale” alla quale tendono tutte le attuali tecnologie informatiche della comunicazione. Ogni nuovo strumento info-elettronico, ad esempio l'i-phone o l'i-pad, tende ad inglobare, come un computer, tutte le funzioni mediali possibili, fino a configurarsi come iper-media e ad agire, afferma convincentemente Costa, come una parte di un unico “blocco comunicante” che tende a mantenere la sua funzione comunicante al di là delle intenzioni dei soggetti.

Un altro argomento che risulta qui sviluppato in modo più ampio da Costa rispetto ai suoi saggi precedenti è quello della fenomenologia della “presenza soggettiva” in rete. Sostenendo un estremo fenomenismo delle “immagini” che proliferano nell'universo iper-mediale, e acquisendo un punto di vista che gli permette di attraversare e sostanzialmente di evitare la questione della “indexicalità” delle immagini e della loro relazione con il “reale” extra-mediale, nel primo capitolo del libro Costa delinea, anche se solo per spunti illuminanti, una sorta di fenomenologia delle “famiglie di immagini” che si moltiplicano o si rarefanno, sopravvivono oppure progressivamente scompaiono dall'apparenza mediale. E ci invita a pensare che questa sarà la condizione attraverso la quale intendere il nuovo senso “mediale” della morte e dell'immortalità delle stesse singolarità umane. Mortalità e immortalità sicuramente paradossali. Da un lato, infatti, avremmo un'immortalità “mediale” che si realizza attraverso una proliferazione delle apparenze che riduce al niente il riferimento a quelle singolarità. Dall'altro, avremmo una mortalità “mediale” forse capace di mantenere il “segreto” di quelle che, un tempo viventi, avranno così raggiunto quel silenzio che le rispetti.