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Enrico Redaelli, L’incanto del dispositivo.

 

Enrico Redaelli

 

L’incanto del dispositivo.

Foucault dalla microfisica alla semiotica del potere

 

 

ETS Edizioni, Pisa 2011, pagine 284,
ISBN 978 884672969 9, euro 18,00

 

 

 

1. Apparentemente scritto a partire da un orizzonte ermeneutico che fu estraneo a Foucault (quello del rapporto tra oralità e scrittura, ma anche della semiotica e della fenomenologia), questo libro offre in realtà al lettore un’interpretazione finemente argomentata, abbastanza inusuale eppure molto fedele allo spirito di Foucault, proprio perché non specialistica. Tale originalità si manifesta già nel sottotitolo – in cui l’arcinota microfisica del potere viene accostata, appunto, alla semiotica – , ma può essere più facilmente illustrata partendo dal genitivo soggettivo espresso dal titolo. L’autore usa infatti il termine ‘dispositivo’ come ciò che dis-pone, sia in Foucault che in Deleuze e, oggi, in Agamben: “principio di ordinamento trascendentale che configura le empiricità e, insieme, ingranaggio di potere. Nel termine dispositivo la sfera del trascendentale e quella del potere vengono a sovrapporsi fino a coincidere completamente […] sotto il segno del dispositivo, il trascendentale e il potere mostrano lo stesso volto e portano lo stesso nome: soggettivazione” (dalla Prefazione, pp. 10-11), nel senso di assoggettamento degli individui empirici a un codice, a un ordine del discorso che al tempo stesso li produce e li incanta (L’incanto del dispositivo: trattasi, come vedremo, del dispositivo alfabetico – della scrittura). La critica al potere condotta da Foucault è stata dunque una critica dei processi di soggettivazione, dei meccanismi antichi e moderni con cui viene costruita la soggettività, concepita come il risultato di operazioni “che accadono costantemente alle sue spalle” (p. 9). A questa premessa si affianca però una domanda con cui l’autore esordisce, e che percorre costantemente tutto il libro: in nome o in vista di che cosa la critica genealogica di Foucault mostra la dipendenza del soggetto trascendentale dal potere del dispositivo? Non è l’esercizio critico esso stesso un dispositivo, che si presenta come emancipazione del soggetto e che però prelude a un suo riassoggettamento? (cfr. p. 12). Secondo Redaelli, solo grazie a tale gesto riflessivo si può leggere Foucault con gli occhi di Foucault, cioè con lo stesso sguardo archeologico, quasi da entomologo, con cui lui ha letto i saperi moderni, sollevando dunque la domanda “e tu, da quale luogo parli?” (quella stessa domanda che Foucault rivolgeva ai saperi moderni) e cercando di sviscerarne le implicazioni etico-politiche (perché chiedere “da quale luogo parli?” è già di per sé una mossa etico-politica).

Questa domanda è sostenuta dalla tesi portante di tutto il volume: la semiotica del potere, cioè la comprensione della sua significatività ed evenemenzialità, del suo essere un dispositivo storico di soggettivazione, assorbe o sovrasta, in Foucault, la microfisica del potere, cioè la sua descrizione come macchina o tecnica governamentale acefala, in cui perciò sono possibili resistenze: le pratiche di resistenza vengono riassorbite dal dispositivo. Com’è noto, nei suoi tardi scritti sull’illuminismo Foucault sosteneva (cfr. ad es. M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997) che la critica genealogica permette di farsi un’altra storia, una storia diversa da quella che si è ereditata come apriori – nei termini della sociologia di Bourdieu, come habitus; ma, per Redaelli, essa tende a trasformarsi in una nuova cattura: Foucault “emancipa il soggetto dai presupposti che lo vincolano ma per subito catturarlo entro i propri stessi presupposti” (p. 221).

Su cosa si basa questa tesi? Sull’analisi, condotta sulla scorta di Carlo Sini, degli effetti soggettivanti della pratica di scrittura, in particolare di quella alfabetica. Non ci soffermeremo qui sulle parti del libro in cui l’autore offre un’ampia e interessantissima indagine sulla nascita della scrittura alfabetica, né sull’introduzione, in cui l’interrogativo di Socrate sul perché si debbano onorare gli dèi (Eutifrone 14-16) spezza l’incanto del dispositivo mitico (la ‘scena’) della civiltà arcaica e dell’oralità (cfr. pp. 21-32). Partiremo piuttosto dalla duplicità strutturale che Redaelli assegna alla pratica della scrittura, la quale da un lato viene vista come dispositivo di oggettivazione istituzionale del potere statale antico e moderno, dunque come tecnica di soggettivazione capace di produrre individui governabili perché operante, in termini foucaultiani, erga omnes et singulatim; dall’altro lato, essa viene considerata come presupposto storico-semiotico dell’esercizio filosofico della critica (potremmo aggiungere: di ogni critica, non solo di quella foucaultiana): in quanto pratica di scrittura, la critica di Foucault è compromessa con, o generata dal medesimo sistema o dispositivo che pretende di criticare e decostruire genealogicamente – lo stesso Foucault è un ‘dispositivo’.

In tale prospettiva, non resta che disinnescare il dispositivo. Per Redaelli, ciò equivale a ‘cambiare scena’, a decentrare ancora di più la domanda socratico-foucaultiana sul senso del dispositivo, volta a disincantare gli individui da esso prodotti, rendendo inutilizzabile anche il ‘fuori campo’ da cui proviene la critica di Foucault e che, secondo Redaelli, egli non problematizza abbastanza; equivale insomma a problematizzare in modo diretto, non più solo indiretto, ironico, il non-luogo da cui parla Foucault sottraendosi ai tentativi teorici di localizzarlo (si pensi alla famosa frase dell’Archeologia del sapere: non sono lì dove mi cercate, ma da dove vi guardo ridendo).

 

2. Il disinnesco di Foucault, tentato da Redaelli in chiave semiotica, non può che muovere dal soggetto – come direbbero Barthes e Benveniste, dalla soggettività di parole che emerge dal codice della langue. Nell’ultima parte della sua ricerca genealogica, Foucault ha ribadito di aver studiato il potere (la sua microfisica) non per abbattere lo Stato, ma per cercare di liberarci dalla individualizzazione (cioè dalla soggettivazione) promossa dallo Stato: per “promuovere nuove forme di soggettività” (cfr. il testo Perché studiare il potere: la questione del Soggetto, in P. Rabinow e H. Dreyfus, a cura di, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie 1989). Redaelli fa eco: “Il ruolo della critica non è quello di svuotare e annullare ogni forma di soggettività, ma quello di formare un altro tipo di soggetti” (p. 176).

Ora, per Foucault ciò non significa innescare altri dispositivi di soggettivazione, come sembra sostenere Redaelli a p. 62, ma fornire gli strumenti per una soggettivazione autonoma, svincolata da dispositivi gestiti da altri soggetti o ricevuti passivamente dalla storia come apriori. Se a Redaelli ciò pare pressochè impossibile, per Foucault è il fine effettuale della pratica archeo-genealogica: è questo il senso dell’estetica dell’esistenza come percorso di soggettivazione libero dall’obbedienza cadaverica ad individui empirici o istanze metafisiche dietro cui tali individui si nascondono (non certo libero dall’ascesi come padronanza di sé o dalla pratica di scrittura: questi sono dispositivi oggettivamente necessari per soggettivarsi). Nella prospettiva dell’ultimo Foucault, l’individuo non sceglie liberamente se stesso in maniera ‘soggettiva’, ma perché ha una forza (o delle qualità morali, o ad esempio la parresìa) sufficiente per piegare le tecniche di soggettivazione, per costruire se stesso senza obbedire a istanze pastorali. Ciò non significa abdicare ad una “irrisolta metafisica del soggetto” (p. 63): il soggetto non è un ‘chi’ che stia prima della forza che si piega (in termini deleuziani) o che parla per soggettivarsi, ma appunto una forza, e le forze, come insegna Nietzsche, sono diseguali. Perciò, come lo stesso Redaelli infine riconosce, è inutile chiedersi quale sia la ‘teoria’ foucaultiana del soggetto qua metafisica; nei suoitesti la tematizzazione del soggetto possiede piuttosto uno statuto pragmatico-performativo.

Per Foucault parlare di sé, del rapporto di sé con sé (si pensi ad esempio il corso al Collège su L’ermeneutica del soggetto), non significa affatto implicare una sostanzialità, un nucleo originario ingenerato o punto zero della soggettività (cfr. p. 80) che funga da base della sua soggettivazione; per Foucault questa base, semplicemente, non esiste, ed è per questo che, da un lato, il dispositivo può fabbricare le anime – la coscienza, l’inconscio (cfr. p. 81) – partendo dai corpi (si pensi a Sorvegliare e punire e a Tecnologie del sé), dall’altro è possibile costruirla costruendo se stessi, praticamente dal nulla. La forza con cui il soggetto si costruisce non gli appartiene come dotazione originaria, né lo fonda come sostanza o quantum spirituale ‘prima’ di essere utilizzata strategicamente nella soggettivazione.

Non vi è quindi nessuna aporia in ciò che Redalli descrive a p. 81: “Da una parte Foucault traccia una genealogia del soggetto che lo esibisce come funzione di pratiche. Dall’altra, quando affronta la relazione potere-soggetto, deve garantire al soggetto un margine di manovra, una via di fuga dai meccanismi coercitivi che precedentemente aveva assimilato …alle pratiche stesse e ai loro apriori storici”. Quella di Foucault è una circolarità virtuosa: il margine di manovra, la via di fuga, non consiste mai in un dis-assoggettamento totale o rivoluzionario (utopico), ma in un riposizionamento strategico della forza, in un se déprendre de soi-même, in uno svincolarsi da sé (ad esempio da quelle costruzioni del sé che ci hanno imposto nell’infanzia, o dalla stessa psicoanalisi come costruzione ermeneutica parassitaria rispetto ad esse) per giungere ad una nuova consapevolezza, ad un illuminismo critico e dunque, in termini kantiani, adulto – il che è reso possibile proprio dal fatto che non vi sono apriori naturali, ma solo apriori storici. È lo stesso Redaelli, ancora una volta, a riconoscerlo: “la parte che de-cide, …che si distacca dal resto, non è un fondo di soggettività immutabile, incontaminato, da sempre e originariamente uguale a sé, ma è anch’esso un che di costituito” (p. 83), una “differenza qualitativa” (p. 91) casuale, infondata e non ascrivibile a un soggetto metafisico ma, semmai, a un corpo. In tal senso, per Foucault non vi è nessuna differenza qualitativa apriori tra potere e resistenza (come se il primo fosse il male e la seconda il bene), ma solo una differenza di forza, di posizione: la qualità del soggetto si fa man mano che la forza si costruisce o si sottrae a un’altra forza – anzi, spesso si costruisce proprio sottraendosi.

L’aristocrazia implicita nell’estetica dell’esistenza consiste allora nel fatto che alcuni riescono a sottrarsi, a costruirsi, ed altri no. In ciò consiste anche la componente nietzscheana, anti-teorica perché anti-metafisica, della critica genealogica di Foucault, ripresa a livello empirico radicale dall’interpretazione deleuziana di Nietzsche e dello stesso Foucault: il corpo vivo (Leib) è una forza differenziale, una potenza non soggettiva che perciò può soggettivarsi o essere soggettivata. Non a caso, qui il potere come ‘testa’ non ha alcun ruolo: non c’è nessun potere superiore alle forze plurali che entrano reciprocamente in gioco, nessuna ‘volontà’ dispotica che organizza il dispositivo, il quale piuttosto sorge storicamente a partire da casuali pratiche di gestione e individualizzazione della vita – come suggerisce anche Redaelli attraverso la splendida retrospettiva sull’alfabeto nato ‘casualmente’ da esigenze economiche (cfr. il secondo capitolo del libro, in particolare pp. 138 e sg., e i fondamentali riferimenti ai testi di Zhok e Bocchi sull’origine del denaro e della scrittura).

 

3. Secondo Redaelli, la pratica di scrittura permette sia la soggettivazione disciplinare (cfr. pp. 123 e sg.) sia la pratica critica – in termini nietzscheani, la volontà di verità. Dunque anche il soggetto critico nasce dal dispositivo alfabetico, ha un indice storico che però Foucault non esibisce; in altri termini, egli viene accusato di non praticare ciò che Pierre Bourdieu chiamava sociologia riflessiva, ossia la decostruzione critica della stessa decostruzione critica (sociologica) dei dispositivi, resa possibile dalla scrittura, o anche l’auto-denuncia, lo smascheramento sociologico dell’universalismo etico come teoria politica dell’emancipazione figlia del privilegio (gr. skolè, lat. otium) economico degli intellettuali nella società moderna (cfr. Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli 1998).

In questo modo, però, ritorna in primo piano il problema politico del potere come sorgente del privilegio dei pochi rispetto ai molti, ma anche come forma soggettivante ‘superiore’ al soggetto – si pensi in particolare al potere esercitato dallo stato moderno. Secondo Redaelli, Foucault non avrebbe riflettuto abbastanza sul fatto che la scrittura è una tecnica indispensabile di controllo e di gestione della popolazione, sul valore biopolitico della scrittura (o meglio dell’alfabetizzazione) come dispositivo di individualizzazione e uniformità (omnes et singulatim), capace di produrre l’habitus del cittadino moderno (Redaelli nota – cfr. p. 135 – che l’unico ad aver sottolineato ed esplicitato in Foucault il nesso tra biopolitica e scrittura usata nel moderno governo del bíos è M. Cammelli: Spettri demo-grafici e biopolitica, in A. Vinale,a cura di, Biopolitica e democrazia, Mimesis 2007). Occupandosi di Foucault, Redaelli insiste sui dispositivi di scrittura moderni, benchè la sua analisi muova a buon diritto dai dispositivi di scrittura nati nell’antichità (1); sono stati questi infatti a far sorgere una sfera pubblica (direbbe Deleuze, la sfera del debito), un codice oggettivo che lega insieme sacerdote (poi funzionario) e stato, nella gestione dei beni e nella sottomissione ‘tecnica’ di individui la cui vita appare priva di valore (‘nuda’ perché eternamente indebitata) e per cui non è ammessa l’ignoranza della legge (prima orale e poi scritta). Potremmo aggiungere che a questo dispositivo oggettivo e impersonale (2), a questa semiotica economica del potere (cfr. pp. 156 e sg.), nella modernità si è affiancato un altro fattore di soggettivazione: con l’avvento della stampa la scrittura privatizza, individualizza, psicologizza, diventa cioè un dispositivo spirituale o medium ‘caldo’ (McLuhan) caratterizzato più dal senso, cioè dalla semantica (Benveniste), che non dal segno o dal calcolo (semiotica). Se la scrittura è, come giustamente osserva Redaelli, un “meccanismo di esclusione inclusiva” (p. 159), ciò significa che grazie ad essa nella modernità si producono nuove differenze di soggettivazione entro il margine di omogeneità imposto dal codice linguistico di comunicazione – ad esempio tra chi sa scrivere e chi no, tra chi sa leggere e chi no, tra chi scrive meglio e chi scrive peggio, ecc. (su ciò cfr. P. Bourdieu, La parola e il potere, Guida 1988).

In quest’ottica, il rimprovero mosso a Foucault per non aver esplicitato il carattere di ‘dispositivo’ della sua stessa pratica critica di scrittura (della sua semiotica e/o microfisica del potere: “lo stesso esercizio della critica è un dispositivo segnico”, p. 177), viene scalzato dalla possibilità che il filosofo abbia esercitato consapevolmente il suo potere distintivo, il suo privilegio socio-economico fondato, appunto, su una implicita, moderna, illuministica pratica di scrittura. Proprio in quanto genealogista critico e detentore di una posizione di superiorità intellettuale, Foucault sapeva che il suo discorso aveva effetti di potere (cfr. p. 180; insegnava pur sempre al Collège de France: è questo, in fondo, il luogo da cui parlava, cfr. p. 179), ma per ciò stesso non lo tematizzava se non in modo sfuggente, laterale, ironico. Redaelli, puntualmente, lo riconosce: “questo… Foucault lo aveva capito benissimo” (p. 173); egli sapeva e confessava di poter pensare il sistema solo grazie a un altro sistema (cfr. p. 184), in una sorta di matrioska meta-critica dei dispositivi. Tuttavia, secondo Redaelli, dopo Le parole e le cose e l’Archeologia del sapere Foucault avrebbe avuto il torto di non cautelarsi più nei confronti di questa spirale ermeneutica attraverso un “positivismo felice” (come Foucault stesso lo definiva nell’Ordine del discorso, trad. it. Einaudi 2004, p. 36), cioè attraverso una descrizione empirica delle positività (simile a quella di Deleuze), passando invece alla microfisica del potere e infine, molto problematicamente, all’estetica dell’esistenza – alla tematizzazione del soggetto. A quel punto, il ‘dispositivo Foucault’ è diventato qualcosa di completamente diverso, che come tale spiazza i suoi lettori più …incantati.

 

4. Non v’è dubbio che Foucault, soprattutto nelle ultime interviste, abbia cercato di fornire ai suoi lettori efficaci antidoti contro il suo stesso dispositivo – contro gli aspetti incantatori del suo discorso. La contromisura di Foucault, che lo differenzia dallo sprofondamento verticale tipico dell’ermemeutica – la quale esibisce continuamente i propri presupposti storici o pregiudizi: si pensi al circolo ermeneutico –, consiste in un continuo spostamento “orizzontale” (cfr. p. 195), in un movimento di dislocazione nietzscheanamente anti-teorico; come sintetizza efficacemente Redaelli: “Mi chiedi da quale luogo parlo? Ti rispondo spostandomi. La mia risposta è il mio spostarmi. È ri-sposta” (p. 197), che consente a Foucault di sottrarsi alla dis-posizione, all’ordine del discorso tessuto dal suo stesso dispositivo archeologico, genealogico, ecc. Detto altrimenti, alla volontà di verità dell’ordine del discorso come procedura di esclusione (cfr. p. 201) non si può sfuggire se non spostandosi, con un gesto di decentramento del discorso stesso, che presuppone in sé, nel gesto medesimo, la consapevolezza del suo potere ordinatore, e così facendo lo disinnesca, lo neutralizza.

Coerentemente, Foucault ha cercato coi suoi libri di produrre effetti polemici (cfr. pp. 204 e sg.), di far accadere un evento, un’interferenza bellica (in senso nietzscheano) tra la realtà e il sapere; se la critica è precisamente questo taglio tra il presente e il passato, l’“ontologia dell’attualità” s’incarica di illuminare lo scarto tra i due tempi: è la famosa “cassetta degli attrezzi” che permette ai soggetti di riaggiustare la loro comprensione di se stessi e di avere dunque un’esperienza “sagittale” del presente. Da tale punto di vista, Foucault finge sapendo di fingere, ciònondimeno finge sul serio, e resta in tal senso un pensatore politico, che usa le sue finzioni per produrre effetti politici sul lettore; un pensatore che porta così alle estreme conseguenze l’uso pubblico della ragione – il kantiano sapere aude! – assumendosi tutti i rischi della pratica, del gesto performativo della scrittura. Anche quello del fraintendimento.

Nel tentare di immergere il lettore nella storicità puzzolente da cui è emersa la sua stessa soggettività, lo scrittore rischia molto e si trasforma. Ma questo è per l’appunto il lato parresiastico della scrittura. Nella misura in cui questo gesto conserva anche un tratto sacerdotale, Foucault può essere criticato, addirittura accusato di narcisismo intellettuale; da tale punto di vista, risulta pienamente condivisibile la storicizzazione senza sconti della genealogia foucaultiana come non-dichiarato dispositivo di potere, operata da Redaelli. Ma da un altro punto di vista, cos’altro poteva fare Foucault, se non usare la scrittura?

Proviamo allora a spostare il problema sulla ricezione di tale scrittura: tu che leggi, da quale luogo leggi, e come? Attraverso la suaccennata retrospettiva sulla storicità delle nostre forme psicofisiche di comunicazione e di conoscenza ‘performativa’ del mondo – la costruzione della cosiddetta realtà –, Redaelli ha il merito di evidenziare, a dispetto dei naturalismi riduzionistici o metafisici di ogni tipo, la straordinaria, contingente e dunque fragile plasticità della mente umana. I processi di soggettivazione storicamente innescati dai dispositivi possono essere storicamente modificati – disinnescati – grazie alla scrittura foucaultiana, solo in quanto questa si trasforma in lettura critica: grazie allo spostamento semantico che produce nel lettore. Ciò significa che chi legge Foucault deve saper far esplodere i suoi libri-bomba, i suoi fuochi d’artificio, le sue parole-molotov: è la forza che mi fa usare la scrittura – quindi la lettura – come dispositivo critico, permettendomi di non solidificarlo in dispositivo di potere. In questo senso, le precauzioni prese da Foucault (cfr. p. 223) sono vanificate da coloro che non hanno forza sufficiente a servirsene nella lettura dei suoi testi, e tendono piuttosto ad edulcorare il pensiero critico in vulgata accademica alla moda (cfr. A. Fontana, Leggere Foucault, oggi, in M. Galzigna, a cura di, Foucault oggi, Feltrinelli 2008, p. 30) – ciò che accade anche e soprattutto nel foucaultismo, il quale, come giustamente nota Redaelli, rappresenta il fallimento semiotico della strategia etico-politica di Foucault.

Si ripresenta così, anche in fase di ricezione della scrittura foucaultiana, il problema delle differenze qualitative di forza – il problema dei diversi poteri esercitati dai soggetti gli uni verso gli altri. In tale ottica, ascrivere interamente l’‘effetto-Foucault’ all’ogettività del dispositivo o alla sua storicità (come fa Redaelli a p. 214, parlando della violenza del “concatenamento storico-semiotico”), significa forse de-responsabilizzare gli attori del gioco strategico che cercano di ridefinire, spostandosi, le loro posizioni nella rete del potere. Benchè tutti più o meno fabbricati dai dispositivi, in particolare da quelli alfabetici della governamentalità moderna, non tutti ne sono agiti in egual misura. Da illuminista, Foucault ha tuttavia ritenuto di dover mostrare a tutti e a ciascuno (omnes et singulatim) una possibilità di trasformazione della propria soggettività; dunque non ha affatto replicato il dispositivo (cfr. pp. 221-222): sono piuttosto coloro che lo leggono come tale, a replicarlo, ri-assoggettandosi a un potere – fosse pure quello di Foucault.

Per coloro che invece sanno “abitare il proprio dispositivo senza rimanerne soggetti” (p. 225), che cioè in termini semiologici sanno soggettivare la langue in parole senza rimanere vittime del codice o di una qualsiasi origine mitologica del linguaggio posta fuori di sé come dispositivo vuoto o come Essere (secondo la pregnante interpretazione antropologica di F. Jesi utilizzata da Redaelli: La festa e la macchina mitologica, Rosenberg & Sellier 1977), ebbene, per costoro Foucault resta efficace: resta un pensatore del disincanto. Questa differenza semantica (ovvero di comprensione del senso) esiste, e non la si può nascondere nascondendosi, o nascondendo Foucault, dietro il potere semiotico del dispositivo che determinerebbe sempre e comunque una ri-soggettivazione; tutto l’ultimo Foucault lo mostra, attraverso i corsi sulla parresìa e la genealogia della soggettivazione greco-romana e proto-cristiana.

Se seguiamo questa pista, l’attenzione si sposta verso la nascita e le metamorfosi del potere pastorale – ma questa è un’altra storia. È una storia nietzscheana, squisitamente politica, in cui la scrittura e la semiotica sono appunto strumenti di un potere esercitato dagli individui sugli individui. Un potere che dunque non esiste come sostanza, ma come rete di relazioni: non esiste al di sopra degli individui che lo (s)oggettivano differenziandosi reciprocamente.

 

5. Il libro di Redaelli, che sconta forse una sopravvalutazione della pratica di scrittura e una sottovalutazione di altre sfere comportamentali, o delle differenze di forza tra gli uomini, si chiude con un gesto sacerdotale e quasi oracolare (mutuato da Agamben: cfr. pp. 268-69), con cui intende sospendere il dispositivo, rompere l’incanto esibendone il funzionamento (cfr. p. 236) ed ‘esponendosi’ così all’impotenza. Si tratta pur sempre di un’impotenza potente, scritturale, e solo per ciò critica: il disinnesco di Foucault si conclude con la rimozione di questo tratto narcisistico. Del resto, Redaelli lo ha capito benissimo quando scrive che la scrittura è “l’apriori storico del potere governamentale e anche, contemporaneamente, condizione di possibilità dell’abito critico” (p. 239), cioè, a sua volta, potere.

Ciò nulla toglie alla qualità auto-distruttiva della fenomenologica intenzione dis-intenzionale: esibire, scrivendola, la finzionalità del dispositivo teorico. In questa prospettiva, il libro resta un prezioso esercizio di disincanto, poiché a giudizio – in parte condivisibile – del suo autore, la filosofia oggi non può avere altro statuto, altra funzione se non quella del disincantamento inteso come disinnesco dei dispositivi di soggettivazione che hanno operato nella modernità – compreso quello filosofico. L’intenzione, cioè, è proseguire sulla strada aperta da Foucault, portandone le istanze, se possibile, a una radicalità ancora maggiore, acuendo ulteriormente la capacità critico-disincantatoria, fino a rivolgerla anche contro se stessi (ciò che Foucault non ha potuto ,o non avrebbe saputo fare fino in fondo). Ciò comporta un risvolto profondamente nietzscheano, poiché tutte le descrizioni e le posizioni teoriche che vi vengono assunte, compresa la propria, sono trattate come ‘finzioni’ prospettiche: meri strumenti finalizzati all’esercizio del disincantamento, e non teorie in cui credere. Nell’ultima parte del libro, Redaelli sostituisce perciò all’atteggiamento sfuggente di Foucault (la dislocazione anti-teorica) una sorta di esibizione ironica dello statuto di finzione assunto dal dispositivo alfabetico e dallo stesso dispositivo critico (foucaultiano) da esso germinato; egli mira cioè a mostrare come il procedere per teorie, come pure per anti-teorie, sia un abito storicamente determinato dalla nostra frequentazione del dispositivo alfabetico; solo così può sperare di disincantare il soggetto/lettore persino dalle teorie e dalle descrizioni che il libro stesso presenta (non ultima, la teoria per cui il dispositivo critico deriverebbe dalla scrittura alfabetica). Quello che conta è – molto foucaultianamente – il contraccolpo che ne subirà il lettore: se avrà messo in questione alcune delle sue credenze e acuito il suo senso critico, se cioè avrà avuto la forza di dis-assoggettarsi, allora il libro avrà il raggiunto il suo scopo.

Si può forse rimproverare al suo autore di non essere andato oltre, di essersi fermato sulla soglia del disinnesco, un disinnesco lasciato come compito al lettore e coincidente infatti con l’ultimo dei quattro paragrafi posti alla fine di ogni capitolo e intitolati Ricapitolazione e rilancio. Ma un simile rimprovero significherebbe un abbandono più decisamente politico della concezione della filosofia come dispositivo di scrittura che si auto-disinnesca performativamente, producendo effetti etico-politici. Se infatti ‘produrre’ è far accadere altre soggettivazioni nella dimensione della storicità, la filosofia deve andare al di là dell’esercizio di disincanto, pena la propria estinzione storica come dispositivo, andare al di là della pratica di scrittura che l’ha resa possibile, perché oggi è proprio la soggettivazione alfabetica ad essere superata, disgregata, mediocrizzata (mentre il lettore di nicchia è ormai abituato ai disicanti filosofici: ne è addirittura saturo), il che potrebbe rendere la filosofia superflua ed obsoleta – nonostante (o a causa di) tutti i festival e l’attuale proliferazione di scrittura filosofica: come sosteneva Baudrillard, è proprio quando qualcosa è morto che se ne parla tanto, e se ne parla in modo sempre più estenuato, incantatorio: divulgativo. Da un lato, i destinatari del suo esercizio potrebbero non essere più in grado di farsi disincantare, di farsi trasformare dalla scrittura filosofica, dall’altro un eccesso di disincanto, un eccesso di critica, un eccesso di decostruzione, hanno reso la filosofia paradossalmente muta per sovrabbondanza di linguaggio (si pensi ad internet come realizzazione telematica della ciarla kierkegaardiana). Questo rischio mortale, corso da molti pensatori postmoderni (è forse per questo che Foucault non voleva essere considerato un postmoderno), è ancora in corso. Sta a noi trovare il modo politico (non più soltanto filosofico) per uscirne.

 

 

Indice del volume

Prefazione

Introduzione – Campo e fuori campo

Capitolo I. Verso una semiotica del potere

Capitolo II. Scrittura, gestione, controllo. Per una genealogia del potere

Parte I. Scrittura e disciplina

Parte II. Scrittura e biopolitica

Capitolo III. Dispositivo Foucault

Capitolo IV. Scrittura, astrazione, decentramento. Per una genealogia della critica.

Bibliografia

 

 

Note al testo

(1) Dei quali però non tutti hanno avuto gli stessi effetti storico-semiotici: di certo la scrittura ebraica coagulata nella Torah non “desacralizza le relazioni tra gli uomini e tra questi e il mondo” (p. 149).

(2) Ci permettiamo di osservare che agli albori della nostra civiltà l’utilizzo economico della scrittura (cfr. pp. 171 e sg.) non è tanto un acefalo dispositivo oggettivo, quanto una forza superiore che determina arbitrariamente l’entità del debito: la fissazione delle quantità di beni che ad esempio il contadino deve al signore non è stabilita dalla scrittura stessa, ma da chi riceve i beni, il quale detiene un potere innegabilmente coercitivo.