Dal maggio 2022 su questa rivista non sono più accessibili molte immagini d'arte coperte dal copyright dei proprietari, ovvero generalmente musei e collezioni. Nella gran parte dei casi, l'immagine risulta vuota ma è leggibile la sua didascalia, per cui resta possibile la sua visualizzazione nei legittimi contesti.

Redazione e contatti

Cerca nel sito

Carlo Baldi e Pietro Citarella, Tecnofuturo

 

Carlo Baldi e
Pietro Citarella (a cura di)

Tecnofuturo.

L’alba di un nuovo medium,
l’alba di una nuova umanità.


Post-fazione di Giuseppe Tortora

 

Liguori, Napoli 2010, pp. 152, Euro 15,90,
ISBN: 978-88-207-5101-2

(anche versione e/book)

 

 

 

«Sicché se – per ipotesi – si potesse fermare, con un atto d’imperio, il progresso informatico, allora, al punto in cui si è giunti, si finirebbe col rallentare in misura consistente il ritmo attuale di sviluppo dell’individuo e delle società». Così scrive Giuseppe Tortora ad un certo punto della sua ampia, chiara e documentata post-fazione al volume Tecnofuturo, curato da Carlo Baldi e Pietro Citarella. In effetti, per quanto i testi si caratterizzino un po’ tutti (compresa la post-fazione) come tentativi di descrizione delle trasformazioni culturali e sociali indotte dallo sviluppo delle tecnologie informatiche che ne mettano in rilievo sia le conseguenze rischiose sia le opportunità positive, è evidente la scelta di campo degli autori a favore di tale sviluppo.

I saggi, che si muovono tra la sociologia e la psicologia della comunicazione telematica, forniscono una buona introduzione alle questioni centrali relative all’oggetto dell’indagine. Senza ripercorrere in modo analitico le argomentazioni svolte, ritengo che i testi si dispongano attorno a quattro centri problematici, che potrei così elencare: 1) la questione dei diritti; 2) la questione del sapere; 3) la questione delle relazioni personali; 4) la questione delle trasformazioni del corpo.

Dalla lettura del quarto capitolo del libro, scritto da Vittoria Russo, Giuliano De Luca e Pietro Citarella, che ripercorre, con ampiezza di esempi, la questione della trasformazione del “diritto di proprietà” intellettuale, del “copyright”, all’interno della rete, la conclusione alla quale è possibile giungere è che, a fronte dell’evidente e inarrestabile indebolimento della “proprietà intellettuale” – almeno per quel che riguarda la sua “monetizzazione”, permessa dalle leggi che regolano l’editoria “tipografica” –, la rete consente un altrettanto inarrestabile ampliamento dei diritti di espressione intellettuale. È certamente possibile vendere prodotti intellettuali in rete – si pensi al settore delle riviste specialistiche – ma queste possibilità, per quanti tentativi si facciano, sono ridotte e relative a prodotti specialistici e di nicchia. Il motivo è che è davvero complicato – e in fondo antieconomico – vendere prodotti digitali in rete. Per quante regole e protezioni si applichino alla circolazione dei “prodotti intellettuali” in rete, sarà sempre possibile aggirarle e per produrre copie di tali prodotti da scambiare gratuitamente. I ripetuti tentativi dei governi di sottomettere alle leggi del copyright i prodotti intellettuali digitali, si sono scontrati e si scontreranno in futuro con l’impossibilità di mettere fuori gioco le tecnologie di registrazione e, quindi, di “copia” di quegli stessi prodotti. Il rispetto della “proprietà intellettuale” in rete è diventato solo una questione “morale”, una questione di netiquette, come il dovere della citazione della fonte intellettuale ogni qual volta si utilizza – a qualsiasi fine – una produzione intellettuale di altri (mi riferisco alla cosiddetta pratica del copyleft). Questo è un fatto, così come è un fatto che i diritti di espressione intellettuale tendano inarrestabilmente ad ampliarsi con lo sviluppo del web e a scontrarsi con i sempre rinnovati tentativi della loro limitazione e/o regolamentazione.

 

La questione del sapere e del tipo di sapere che circola nella rete è affrontata, tra l’altro, nel saggio Media e democrazia, scritto da Stefano Martello e Pietro Citarella, che compare come terzo capitolo del volume. Anche in questo ambito ci troviamo di fronte ad una sorta di “regola” della rete: le sempre più ampie possibilità di interazione e di cooperazione permesse dal web (si pensi alle piattaforme wiki), moltiplicando, democratizzando e disperdendo l’autorialità riducono progressivamente le garanzie di correttezza dell’informazione e le garanzie di veridicità del sapere. Questo non significa che in rete non possano circolare contributi scientifici anche eccellenti e specialistici. Niente affatto. Le possibilità che la rete offre alla ricerca non sono e non possono essere messe in discussione. Tuttavia, è del tutto evidente, per la “regola” che prima enunciavo, che in rete c’è di tutto e che la qualità del sapere che vi circola e che ci si scambia è meno garantito nella sua veridicità e correttezza rispetto alle modalità e alle forme del tradizionale “sapere tipografico”, tendenzialmente verticistico, gerarchico e a bassa democraticità (se si esclude la ristretta comunità scientifica). Anche questo mi sembra una condizione “oggettiva” di cui prendere coscienza senza nostalgie ma anche senza illusioni utopistiche.

Per quel che riguarda le trasformazioni delle relazioni sociali in conseguenza dello sviluppo del cosiddetto web 2.0, molto è stato scritto. Nel volume se ne occupano i saggi di Carlo Baldi che descrivono criticamente le ambivalenze delle relazioni di amicizia all’interno dei social-network come Facebook. In tali forme di interazione, l’amicizia, la sua richiesta, la sua accettazione, sono in genere concepite come una “esibizione di somiglianza”; gli amici sono amici perché hanno gli stessi gusti, ascoltano la stessa musica, leggono gli stessi libri, magari hanno anche le stesse opinioni politiche. Il legame di amicizia così inteso tende ad esaltare ed assolutizzare i tratti identitari narcisistici insiti da sempre nelle relazioni di amicizia e ne acuisce il tratto di maggiore ambivalenza: se amico, infatti, è chi è simile, ed è simile perché desidera le tue stesse cose, allora, in ogni istante, potrebbe trasformarsi in rivale, o addirittura sostituirsi all’amico. Il mio amico potrebbe sempre trasformarsi in un sosia che produce angoscia, perché potrebbe sostituirmi, prendere in tutto e per tutto il mio posto. Di fronte a tale ambivalenza nascosta nell’assolutizzazione dei tratti di somiglianza dell’amico, potremmo affermare che, paradossalmente, il perfetto amico dovrebbe essere il perfetto straniero, perché solo il perfetto straniero sarebbe capace di sospendere quella relazione narcisistica e mortifera, quella relazione che implica dipendenza e rivalità, e concedere la libertà.

La riduzione dell’amicizia all’affinità elimina la distanza che deriva dalle differenze. Ciò risulta amplificato dalla condizione tecnica in cui avvengono le relazioni, cioè dalla tele-interazione che esclude la com-presenza fisica di coloro che comunicano (pur non escludendo le apparenze sensibili dei corpi), con due ovvie conseguenze: da un lato l’interazione assume la forma del gioco: comunemente gli adolescenti giocano e comunicano nello stesso tempo, interagendo sia negli ambienti virtuali dei “giochi di ruolo” sia all’interno dei social-network; ma la “forma del gioco” è intrinseca alla stessa tele-interazione, specie nelle forme web 2.0: la comunicazione, infatti, è innanzitutto e per lo più concepita come una modalità di intrattenimento. Dall’altro lato, queste forme semplificate e “ludificate” di relazione con gli altri, per quanto permeate in fondo da un certo cinismo emotivo e cognitivo, svolgono anche il ruolo di protezione dagli incontri fisici che possono accadere “fuori linea”, così troppo pieni di “differenze”, così troppo pieni di attese, di silenzi, di assenze, di lontananze, e ciò al di là del fatto che l’interazione web si prolunghi poi in un’interazione “faccia a faccia”. La cosa interessante è che Facebook, in fondo, è nato dall’esigenza di eliminare la lontananza fisica e, soprattutto, temporale dagli amici di un tempo, da coloro che si erano ormai persi di vista e a cui si era restati legati, proprio perché appartenenti al nostro passato, un passato “costruito” e trasfigurato dalla nostra memoria, come accade per ogni passato, ma “passato”. È esperienza comune, invece, che l’amico o l’amica ritrovati non siano affatto quelli che ricordavamo grazie alla distanza temporale, ma sono divenuti altri, e non solo in senso fisico, perché il tempo e le esperienze li hanno trasformati: li cercavamo come amici e li ritroviamo, spesso, perfetti sconosciuti.

Intorno al quarto centro problematico, quello delle trasformazioni nell’esperienza del corpo, si sofferma sia Carlo Baldi nel capitolo quinto del volume, dal titolo “Corpi, menti e mondi virtuali” che Giuseppe Tortora nella già menzionata “post-fazione”.

Ricostruire anche parzialmente il dibattito teorico intorno alle trasformazioni tecniche del corpo e/o alle trasformazioni nell’esperienza del corpo-proprio indotte dalle tecnologie informatiche – ricostruzione di cui la post-fazione di Giuseppe Tortora è un'ottima introduzione – sarebbe qui molto complicato. Tuttavia, ritengo che ancora oggi il dibattito teorico su questa problematica sia spartito tra coloro che, in maniera entusiastica, concepiscono l’apporto della tecnologia come un “potenziamento protesico” del corpo e coloro che, a mio avviso più correttamente e fondatamente, concepiscono tale apporto come una “ibridazione tra dimensioni eterogenee del reale”, quella biologica e quella tecnica. La pervasività delle neo-tecnologie e gli sviluppi che si annunciano in tal senso per i prossimi decenni (domotica, nanotecnologie…), ci devono far capire che uno delle scommesse fondamentali della nostra epoca è forse proprio questa relazione di ibrida con-vivenza co-evolutiva con le tecnologie, relazione che non è affatto armonizzante, perché non c’è armonia possibile tra dimensioni eterogenee, o c’è solo l’armonia della disarmonia per così dire. Deleuze avrebbe parlato di relazione con il “fuori”, con un fuori che fa pensare, che violenta il pensiero. La logica dell’ibridazione non è una logica pacificante, innanzitutto perché forse non è affatto una logica, nel senso della logica della verità che è al centro della nostra tradizione filosofica. Mi rendo conto che qui sto esponendo un’aporia. Con le dovute differenze è la stessa aporia in cui si trova catapultato lo stesso Deleuze quando si propone di promuovere un pensiero senza immagine, nel senso di un pensiero che non soggiaccia alla logica veritativa. Deleuze ha tentato di sostituire all’è (copula) la “e” congiunzione; lo chiamava empirismo (è la tesi dell’esteriorità delle relazioni, ripresa da Hume) e ha sostenuto questo ambizioso programma teoretico soprattutto per essere capace di pensare la relazione ibrida che l’umano ha il compito di realizzare con tutte le dimensioni dell’essere. Questo ambizioso programma deleuzeano forse deve essere oggi verificato rispetto all’esplosiva dimensione delle neo-tecnologie.

Ma è possibile sostituire la “e” congiunzione all’è copula? È possibile questa sostituzione? O il rischio è la perdita della possibilità della parola e dell’esistenza umana, così come le abbiamo conosciute? L’epoca delle relazioni ibride può essere descritta come l’epoca della marginalizzazione del simbolico e della dimensione della parola?

Lascio aperte queste domande. Domande alle quali non necessariamente bisogna dare risposte apocalittiche e pessimistiche.