Gernot Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena.

  • Stampa

Gernot Böhme

Atmosfere, estasi, messe in scena.
L’estetica come teoria generale della percezione



traduzione e cura di Tonino Griffero

Christian Marinotti Edizioni, Milano 2010,

pp. 283, ISBN 978-88-8273-117-5, Euro 26,50

 

 

Una cupa sera di novembre, una lieta giornata primaverile, una sala in cui regna un’atmosfera solenne: sono solo alcuni esempi delle atmosfere di cui fondamentalmente si occupa, anche se all’interno di una proposta più generale di “nuova estetica”, il presente testo di Gernot Böhme. Volume che non è affatto un’isolata proposta teorica ma che si inserisce in un vero e proprio cambiamento di paradigma estetologico prospettato da vari studiosi (Schmitz, Hauskeller, Hasse, lo stesso Griffero in Italia). Che cosa sono le atmosfere? Che tipo di oggetti sono? Queste le prime domande cui Böhme cerca di rispondere. Le atmosfere non sono “cose”, anche se possono essere prodotte da cose. L’ atmosfera è l’oggetto percettivo primario (p. 81); è ciò che “si sente” prima di avvertire oggetti fisicamente definiti; è ciò che ci coinvolge sensorialmente ed emotivamente e che dà il tono al nostro percepire oggetti e ambienti. Le atmosfere, insomma, sono “spazi emozionali”, “sentimenti estesi nello spazio”: avvertiamo, ad esempio la serenità di una limpida giornata primaverile e questo indipendentemente dal nostro stato d’animo, indipendentemente dalla nostra interiorità psichica. Böhme tiene a caratterizzare le atmosfere come spazi emozionali “oggettivi” (o quasi-oggettivi) in cui si entra o si esce, e critica, con buoni argomenti, la tradizionale teoria “proiettiva”, da cui neanche i teorici dell’empatia si sono emancipati, in base alla quale i sentimenti spaziali venivano interpretati come proiezioni psichiche, travaso della psiche individuale nello spazio naturale e/o sociale esterno. In verità le atmosfere sono ancorate in determinate qualità ambientali e sono relativamente indipendenti dalla vita interiore dei soggetti. Prova ne sia che, anche quando si è tristi, si è in grado di percepire la serenità di una giornata primaverile, oppure, anche se si è allegri è possibile sentire, ad esempio, l’inquietudine che regna in un folto bosco.

Le atmosfere, quindi, sono fenomeni intermedi, “interstiziali” tra soggetto e oggetto, situati tra interiorità psichica ed esteriorità ambientale (ambiente “naturale”, “sociale”, “comunicativo”). L’estetica atmosferica, quindi, si differenzia nettamente dall’estetica tradizionale, sia da quella di derivazione kantiana, che limita la sua indagine al sentimento del bello e a quello del sublime, sia da quella di derivazione hegeliana che la àncora all’opera d’arte. La nuova estetica delle atmosfere, infatti, non concentra la sua attenzione sulla “forma” della cosa (come accade nella kantiana estetica del bello), perché piuttosto ne rivaluta la “materia”, intesa come l’insieme delle sue “estasi qualitative”, produttive di tonalizzazione atmosferica. Dell’opera d’arte essa non si interessa né dell’essenza, né del significato culturale, né dei significanti che veicolano quel significato, ma si occupa unicamente della sua capacità di “apparire”, della sua capacità di presenza attuale, “estatica”: «bisogna definire le estasi come espressione della presenza di una cosa, – scrive Böhme – vale a dire come qualcosa che spetta alla cosa solo nella misura in cui questa anche esiste» (p. 195). Böhme, quindi, sembra rifiutare la premessa stessa dell’estetica kantiana dell’immagine (forma) – immagine separata metodologicamente e, oserei dire, ontologicamente dalla sua presenza attuale – sostenendo che è proprio di questa presenza attuale ed esistente che l’estetica si deve occupare. Non ci si occupa così della cosa/opera in quanto “separata” dall’atmosfera emotiva (il sentimento spaziale) che produce, ma si esalta proprio la sphaera activitatis della cosa/opera, appunto la sua presenza “effettuale”.

Non bisogna credere, tuttavia, che l’estetica delle atmosfere abbia solo un intento descrittivo e teoretico. L’aspetto forse più interessante di questa nuova estetica è la sua esplicita applicabilità ai tre campi dell’estetica della natura, dell’estetica del design e di quella dell’arte.

Se l’estetica (atmosferica) della natura si pone l’obiettivo di contribuire a rendere l’ambiente “naturale” uno spazio sentimentalmente adatto all’esistenza umana, e se l’estetica (atmosferica) dell’arte si occupa di come un’opera possa comunicare la sua “presenza” nello spazio ambientale della sua fruizione o di come sia possibile produrre opere d’arte la cui esplicita finalità non sia quella di “significare” ma quella della creazione di determinate situazioni atmosferiche, è nell’estetica del design che la proposta estetologica di Böhme (e degli altri studiosi e teorici delle atmosfere) trova il suo essenziale campo d’applicazione: sia perché è nella nozione di design atmosferico che convergono sia l’estetica della natura che quella dell’arte, sia perché il design è chiamato a far fronte alla questione dell’estetizzazione del reale e alla connessa economia estetica, prodotti dall’incrocio tra lo sviluppo neo-capitalistico e la pervasività dei nuovi media di telecomunicazione.

L’economia estetica, scrive Böhme, è «uno stadio di sviluppo del capitalismo in cui al valore d’uso e al valore di scambio se ne aggiunge un terzo, che ho chiamato valore di messa-in-scena» (p. 51). Si pensi, ad esempio, al settore merceologico degli status symbol, cioè a quelle merci «il cui valore d’uso consiste nel loro contribuire alla messa-in-scena di un certo stile di vita» (p. 52).

Ebbene, è proprio in riferimento al “valore di messa in scena”, evidente valore “atmosferico”, che, come egli scrive, il «lavoro estetico si professionalizza» (p. 91) proprio in quanto attività di «creazione di atmosfere» (p. 90). E qui la sua proposta trova il punto di massima chiarificazione operativa, ma trova forse anche quello di maggiore problematicità critica. Infatti, il “lavoro estetico” è esplicitamente pensato come perfettamente inserito nell’economia estetica del “valore di-messa-in-scena”. Scrive sinteticamente Böhme: «ecco alcuni esempi di queste professioni: la scenografia, la cosmesi, l’architettura d’interni, il design e molte professioni ausiliarie nel campo dei media (film, televisione, radio); anche la pubblicità può essere considerata in gran parte come lavoro estetico» (p. 91). Per cui «si dovrebbe definire come lavoro estetico quell’attività che dà forma a cose, spazi e composizioni tenendo conto del coinvolgimento affettivo che per loro tramite deve provare un osservatore, un destinatario, un consumatore» (sic, ibidem).

Tuttavia, se il lavoro estetico diviene quasi il presupposto stesso dell’economia estetica, come non ritenere quanto meno ingenuo il continuare a considerarlo uno strumento critico e quasi demistificante nei confronti dell’estetizzazione del reale? Scrive, infatti Böhme: «la sfida sta nel fornire i concetti e sviluppare le competenze per potersi occupare concretamente dell’estetizzazione del reale, in modo da non subirne il potere e la seduzione» (p. 54, corsivo nostro). I designer estetici non opererebbero solo per connotare in senso emozionale gli ambienti di vita, ma avrebbero una funzione essenziale nella ricezione del prodotto commerciale e nella fidelizzazione dei consumatori ad esso. L’estetica delle atmosfere si presenta così, nello stesso tempo, come una bio-estetica volta al “controllo emozionale” degli ambienti di vita e come una estetica della ricezione emozionale delle merci.

Nonostante ciò, tralasciando queste evidenti difficoltà che derivano dall’aver rotto definitivamente i ponti con una teoria “critica” dell’arte (come ad esempio quella di Adorno), credo che l’interesse estetologico della nuova estetica atmosferica risieda in due altri aspetti: il primo relativo alla comprensione di certi settori dell’arte contemporanea; il secondo relativo alla definizione di un’estetica non-soggettivistica.

L’estetica dell’atmosfera, infatti, è utile per comprendere molte operazioni artistiche contemporanee, inconcepibili all’interno della tradizionale estetica dell’opera. Si pensi, seguendo le stesse indicazioni di Böhme, alle famose immagini monocrome di Yves Klein, oppure alle proposte coloristiche di Joseph Albers (che, in quanto teorico della pittura, distingue tra factual fact e actual fact, cioè tra “realtà fisica” e “realtà effettuale”, “estatica” nel senso chiarito da Böhme), oppure agli spazi emozionalmente tonalizzati di James Turrel; ma dovremmo pensare anche a tutta, o a gran parte, dell’arte materica novecentesca, fino alle proposte di Kounellis.

Tuttavia, quello che a mio avviso è l’aspetto più interessante non solo della proposta di Böhme, ma di tutta l’estetica delle atmosfere, è che essa sembra iscriversi in una tendenza più ampia ma ancora largamente implicita e inindagata dell’estetica attuale, tendenza che, lasciando i vertici e le secche dell’estetica dell’opera, spinge verso un’estetica de-soggettivata e de-soggettivante la cui preoccupazione non è più il “significato umano” dell’arte ma altre dimensioni fenomeniche, come in questo caso il tono emozionale degli “ambienti di vita”. Si sta aprendo un campo di ricerca estetica all’interno del quale, tra l’altro, sarebbero da approfondire le possibili connessioni tematiche con le estetiche orientali, indiane – si pensi all’antico trattato poetico Dhvanyaloka di Anandavardhana –, cinesi e giapponesi.

Ma la domanda filosofica fondamentale è capire quali siano le ragioni epocali di questa, a nostro parere inesorabile, affermazione di estetiche non-simboliche e de-soggettivate, sebbene per trovare ad essa una qualche risposta plausibile bisognerà saper intraprendere una strada interpretativa che sia nello stesso tempo interna ed esterna alla problematica strettamente estetologica.