Sottrazioni

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Sottrazioni

Percorso di ricerca
a cura di Gabriella Baptist

 

"Sottrarre è ottenere differenze" (E. Husserl, Logica formale e trascendentale)
"Il senso del senso è di sottrarsi" (J.-L. Nancy, Il pensiero sottratto)

 

All’interno di questo percorso di ricerca si proporranno esercizi di minimalismo filosofico, attento a ciò che è ‘soltanto’ e procede levando, come nella scultura. Si tratterà di esprimere di più dicendo di meno, come nella figura retorica della litote, nello stile di un understatement teorico esigente nel suo rigore e attento al dettaglio.

L’intenzione è quella di scolpire piccoli cammei preziosi che si confrontino con argomenti ‘marginali’, ma che in realtà risultano cruciali per la riflessione contemporanea, quali: il sonno, la mancanza, il silenzio, il qualcosa, la serva, la polvere. Nei numeri precedenti della rivista sono stati già affrontati argomenti che rientrano a pieno titolo nell’ipotesi di una tematizzazione di ciò che sfugge perché si sottrae scavalcandoci, per esempio: l’ombra (n. 1: L’immagine), l’estraneo (n. 2: L’esperienza dell’altro), il non-luogo (n. 3: Il mondo in questione), il resto (n. 4-5: Rifiuti), la fragilità (n. 6: Il post-umano), la fame (n. 7: Fame e sazietà), il nudo (n. 8: Nudità), l’eccedenza della giustizia (n. 9: Sotto giudizio).

La prima ipotesi di approfondimento, sulla quale si lavorerà a partire dall’anno del decennale, è dedicata al tema dell’oblio, sul quale si intende procedere secondo il piano di lavoro riportato più sotto. Le scansioni interne del progetto riproducono – in miniatura – le articolazioni che hanno tradizionalmente strutturato la rivista. Come vale per la rivista, anche il percorso di approfondimento sarà un’opera aperta e in divenire. Chi volesse partecipare scriva a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Successivamente ci si ripropone di lavorare sul tema del sonno.

 

Ipotesi di approfondimento su: L’oblio

 

Mancamenti: Testi dimenticati

 

Johann Eduard Erdmann, Vom Vergessen. Vortrag, gehalten im wissenschatlichen Verein zu Berlin 20. März 1869, Berlin, Hertz, 1869, 35 p.; anche in Id., Ernste Spiele. Vorträge, Berlin, 1890, pp. 283-302

In Google libri il testo è accessibile all'indirizzo:

http://books.google.it/books?id=fVMNAAAAYAAJ&printsec=frontcover&dq=erdmann+vergessen&source=bl&ots=VKvheDS2s7&sig=fc7_XaLSV51aSh4-jpLCuP0mwiE&hl=it&ei=QYFdTMXGE8_uOdTZwb0J&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=1&ved=0CBgQ6AEwAA#v=onepage&q&f=false

 

J. E. Erdmann

Del dimenticare

(Berlino 1869)[*]

 

[…]

Si è riflettuto all’infinito, e ancor più si è scritto, sulla memoria, questa forza meravigliosa, come a ragione la si è chiamata. Quanto sia stata un oggetto amato dai pensatori lo dimostrano già i suoi molti nomi. Vi si trova il ricordo, la rimembranza, la reminiscenza, la memoria; all’interno di quest’ultima si distingue la memoria delle parole, delle cose, dei luoghi e mi è sempre risultato inspiegabile perché non vi si fosse aggiunta anche la memoria degli abiti o della moda o la memoria per le offese. Ma non c’è solo questo; si è dedicata a questa forza spirituale un’intera scienza e l’arte a questa collegata e se anche la mnemonica e la mnemotecnica hanno poco sollecitato il nostro sapere e le nostre capacità, tuttavia vi abbiamo almeno guadagnato due nomi greci dal suono pomposo. Come è andata male al contrario a quel fenomeno che si rapporta alla memoria come la quiete al movimento, la morte alla vita: il dimenticare! Quanto poco ci si sia occupati di questa Cenerentola psicologica, quanto poco si sia pensato di distinguere tra le sue diverse varietà risulta già dalla mancanza di espressioni persino nella nostra lingua, la più ricca di termini rispetto a tutte le altre. Per esprimere il fatto che non riconosciamo una melodia che qualcuno sta suonando o il volto di qualcuno che ci sta davanti diciamo: abbiamo dimenticato, in entrambi i casi. Per quell’incapacità, essenzialmente diversa dall’altra, di rappresentarci un certa qual maniera che non sentiamo o un volto che non vediamo non abbiamo nessun’altra espressione se non: dimenticare, e questa stessa parola è usata per dire che non possiamo collegare a un oggetto individuato la parola che lo indica, oppure anche una parola con un’altra. La ricchezza di espressioni da una parte, la povertà invece dall’altra può solo avere il motivo che da un lato si distingue con precisione, dall’altro ci si accontenta di un concetto generale indeterminato. Si tratta allora innanzitutto di procurare a quest’ultimo una determinazione più precisa, in modo che si possa indicare che cosa di simile e di comune si intenda nei diversi casi in cui usiamo l’espressione dimenticare.

Giacché, come dappertutto, anche in questo caso la più precisa determinazione di contenuto di un concetto si ottiene nella maniera più semplice se lo si confronta con il suo contrario, allora saremmo completamente rimessi a noi stessi se per il contrario del dimenticare esistessero solo le già citate espressioni ricordo, reminiscenza ecc., ma ci mancasse un nome generico che le riassuma tutte. Ma le cose non stanno in questi termini. Piuttosto, come colui che riflette sulla differenza tra l’animale e ciò che non è animale non ha bisogno di confrontare l’animale con il garofano, poi con la rosa, poi con la quercia ecc., giacché il patrimonio linguistico attraverso il termine pianta gli ha fatto risparmiare una parte del lavoro, così nel nostro caso la lingua ci pone in una condizione altrettanto favorevole. E anzi in una molto più favorevole, giacché il termine pianta, che si offriva in quel caso, è soltanto un nome, ossia un’espressione in sé insensata, scelta come segno per dire quanto è comune al garofano, alla rosa e alla quercia, al contrario per caratterizzare ciò che è comune nel ricordo e nella memoria l’uso linguistico utilizza un termine che altrimenti ha già un significato determinato, cosicché non solo ci dice come si chiama questo qualcosa in comune, ma addirittura nomina che cosa questo sia, e anzi lo definisce effettivamente. Sia là dove riconosciamo qualcosa, così come là dove ci rappresentiamo di nuovo qualcos’altro, infine anche quando ripetiamo parole, l’uso linguistico ci fa dire che non avremmo dimenticato, ma ritenuto qualcosa, perciò dichiara che il ritenere sia l’opposto di tutti i tipi del dimenticare. Se ora ritenere significa qualcosa come non gettare o non dar via, così nessuno che parli la nostra stessa lingua può contraddirci se poniamo l’essenza di ogni dimenticare (ovvero non-ritenere) nel dar via o nell’abbandonare, nel lasciar correre o nel lasciar andare e se perciò confrontiamo colui che non dimentica nulla e colui che dimentica tutto non tanto con coloro che, senza aver fatto nulla, sono diventati l’uno ricco e l’altro povero, quanto piuttosto l’uno con colui che trattiene parsimoniosamente, l’altro invece con colui che sperpera e dilapida. Con ciò abbiamo ottenuto un risultato non di poca importanza per la nostra ricerca: come coloro […] a cui non interressa studiare il movimento ma vogliono invece occuparsi della quiete scoprono che la quiete è da collocarsi tra i movimenti, così l’uso linguistico ci ha dato l’istruttiva indicazione che il dimenticare, che i più considerano soltanto come un patire, come qualcosa che avviene in noi, deve essere collocato tra le attività e le occupazioni dello spirito, cosicché esso non sarebbe da collocare soltanto nella parte della dottrina dello spirito che considera gli stati passivi e che confina con la dottrina della natura, quanto piuttosto in quella che è prossima all’etica e dove oltre alla questione: quando e dove accade? si deve sollevare anche l’altra domanda: se possa o debba accadere. Certamente è poi necessario che sia chiaro chi voglia porre una tale questione.

1.

La prima questione: dove compare o può comparire il dimenticare? delimita la nostra ricerca a un determinato ambito, giacché ci sono determinati punti limite in cui questo potere cessa, in quanto è delimitato una volta dal dovere, un’altra volta dal non potere, qui dall’impossibilità, là dalla necessità. Si deve infatti dimenticare oppure si dimentica da sé ciò a cui non si è dato alcun valore. A partire da quanto si è detto le cose non potrebbero stare diversamente. Se qualcuno possiede qualcosa che per lui non ha nessun valore o nessuna utilità, allora esigiamo, in nome della ragione, che se ne sbarazzi, che la regali, la venda, la getti via o quant’altro! Solo trattenerla non dovrebbe, infatti sarebbe altrimenti uno spilorcio irragionevole. Non si può fare eccezione rispetto a ciò che vale per ogni possesso in cui ci si impossessa di qualcosa perché la si nota o la si imprime nella memoria; se questo non ha per noi alcun valore, sia perché è in sé e per sé senza valore, sia perché lo è diventato per noi giacché ha perso il valore della novità, sia infine perché valgono le due cose insieme – allora si dovrà esigere in nome della ragione, ossia sarà necessario che non lo riteniamo più a lungo, che lo lasciamo andare. Ma questo era appunto il dimenticare. Si pensi per esempio a qualcuno che giornalmente legge coscienziosamente il suo bel numero di quotidiani e quindi non si scontra solo con quegli scandali etici periodicamente ricorrenti, ma in un modo o nell’altro incappa giornalmente in quei fenomeni peculiari che l’eufemismo giornalistico chiama “anticipazioni”, ma il cui nome sistematico nel latino degli zoologi è anas boschas, in tedesco triviale panzana, non ci si aspetterà da lui in tutta serietà che ritenga tutto questo? Come il fulmine nel proprio fuoco, così ciò che non merita nessuna attenzione muore nella propria stessa nullità, non è neanche necessario che sia dimenticato, è in sé e per sé “affondato e dimenticato”, come si dice nella Maledizione del cantore.[1] – Dall’altra parte si pensi ai casi in cui un pensiero acquista una tale importanza, che di fronte ad esso tutti gli altri si profilano tanto poco, quanto possono splendere le stelle alla luce del sole. Per qualcuno si tratta di un fatto atroce che tormenta il colpevole, tanto da fargli cercare invano l’oblio presso gli spiriti della terra e dell’acqua, come l’eroe di quel dramma squallido che si è chiamato il Faust inglese, offendendo gli inglesi e il nostro Goethe;[2] per un altro si tratta di una felicità beatifica, la cui perdita ispirò al nostro poeta quelle semplici parole che centinaia hanno ripetuto, anzi, singhiozzato: “Ma lo possedetti un giorno, ciò che è così prezioso! E per il proprio tormento, non si può dimenticare!”[3] In entrambi i casi non si riesce a scacciare ciò che sta davanti agli occhi dello spirito, questo è di una tale importanza per cui tutto il resto al confronto sparisce nel nulla: non si può dimenticare. – Tra questi due punti limite di quanto è assolutamente senza valore, e a cui nessuno bada, e quanto è di valore incondizionato, tanto che non lo si dimentica mai, si trova l’ambito di quanto è relativamente di valore, di quanto si può rammentare o dimenticare, a seconda che sia presente o meno qualcosa che ha ancora più valore. Dipende in realtà da questa condizione decisiva se ci si rammenti oppure si dimentichi. Come le stelle, di cui prima si diceva, non smettono di brillare, piuttosto solo al nostro occhio il loro splendore diventa invisibile di fronte a quello del sole, così ciò che lo spirito ha accolto in sé non ne è mai cancellato, anche se può essere eclissato e offuscato da un pensiero più luminoso. Questo ci riporta alla quiete già […] menzionata. Come questa subentra là dove un movimento è vinto da un altro, così il dimenticare avviene là dove un pensiero è sopraffatto da uno più possente. Una volta che si è trovata questa legge della dinamica spirituale, allora si vede con grande meraviglia quanto è del resto già noto: chi avrebbe mai pensato che tali assiomi fondamentali della psicologia siano proclamati nei periodici alla moda? Eppure questo accade quando il giovane compiacente, anziché chiedere: a che cosa date la precedenza? tende a domandare: che cosa riterrà la gentile signora? L’Adone di bottega ha ragione: ritenere significa effettivamente: dare la precedenza, perciò anche ogni non ritenere, quindi anche il dimenticare, non è semplicemente, come sembrava finora, un non stimare, ma un non badare relativo, ossia rispetto ad altro. Dimenticare significa trascurare. Si dimentica soltanto perché si pospone.

[...]

Da che dipende il fatto che un matematico, che magari si lamenta per la sua cattiva memoria, è capace di fissarsi in mente una lunga serie di formule che considera per la prima volta in questa concatenazione, mentre un altro, che magari egli invidia per la sua memoria e al quale ha spiegato la formula di un binomio, con suo grande stupore la ha già dimenticata dopo otto giorni? Dipende dal fatto che lui stesso è interessato alla dimostrazione formulata di cui forse già da tempo aveva il sentore o che aveva a lungo cercato, mentre per l’altro ci sono molte cose ben più interessanti che (a+b)n. O piuttosto, giacché non sono le cose che ci interessano, ma siamo noi stessi a interessarci delle cose, non le cose ci danno interesse, ma siamo noi a prestarglielo, non le cose ci sono indifferenti, ma siamo noi indifferenti di fronte ad esse, la differenza tra i nostri due tipi si trova nel fatto che l’uno è indifferente rispetto a ciò a cui l’altro si è dato con tutto il suo cuore. Perciò l’intera arte della memoria è compresa in realtà in un’unica regola: interessati! e quando le indicazioni mnemotecniche hanno successo ciò avviene sempre perché quanto ci è indifferente è scambiato o collegato con quanto invece ci sta più a cuore. […]

E così delle tre forme principali del dimenticare, il non riconoscere, il non rappresentarsi e infine il non poter dire, si sarebbe dimostrato che tutte e tre consistono nell’essere indifferenti o nella mancanza di interesse. Se ora però l’interesse più alto è l’amore e si ritiene che l’amore più forte sia quello della madre, allora nessuno si meraviglierà del fatto che la domanda: una madre potrebbe dimenticare suo figlio? certamente otterrà una riposta negativa. Con il risultato ottenuto: “si dimentica soltanto laddove non si è interessati e non si ama affatto” potrebbe concludersi questa parte della nostra ricerca, se un’obiezione non minacciasse di rovesciare l’intero edificio delle mie deduzioni. “Questa prospettiva”, mi si dice, “sospinge in realtà il dimenticare nella coscienza di ciascuno”. Lo ammetto e mi riferisco in proposito a quel tipo di persona sensibile per il quale è impossibile dire mai ad un altro: te l’ho raccontato, ma lo hai dimenticato, perché, se questo succedesse a lui stesso, vi vedrebbe sempre un rimprovero che, se giusto, ci fa arrossire, se falso, ci fa arrabbiare. […]

2.

Solo se il nostro dimenticare non è un puro subire ed esperire, bensì noi stessi vi apportiamo di certo molto, seppure non tutto, allora si può chiedere se e dove sia lecito e anzi si debba dimenticare, una questione che forse, come altre questioni etiche, fa parte di quelle meno avvincenti, eppure potrebbe essere più importante di quelle già considerate. Ma il nostro nuovo punto di vista non ci consente soltanto di porre una tale questione, ci fornisce anche i dati per la sua riposta. Se infatti ogni dimenticare è un posporre, ne segue che quando accade che si dimentichi quanto deve essere posto al di sopra di tutto, quanto non si deve dimenticare in nessuna condizione, questo è un colpevole indebitamento. In ciò concorda anche la coscienza morale, quando considera la dimenticanza dell’onore, del dovere o addirittura di Dio come ingiurie e non accetta in proposito come scusante una scarsa memoria, al contrario ci riempie di un dolce brivido quando sentiamo raccontare di quel vecchio che disse beatamente al suo medico: ho dimenticato tutto, ma non il mio Dio. Appunto ne consegue con la stessa necessità che là dove si dimentica ciò che può rimanere in secondo piano rispetto a tutto il resto, questo merita lode e riconoscimento. Ma se si vanno a sfogliare i dizionari di etica, qui ci si trova in una situazione peculiare. Abbiamo trovato un gran numero di termini ingiuriosi e biasimevoli che abbiamo identificato con il “dimenticare”, mentre cerchiamo invano termini elogiativi, finché non ci imbattiamo finalmente in un’eccezione, per quanto ne sappia l’unica: l’oblio di sé, la dimenticanza di sé caratterizza qualcosa che tutti lodiamo. Tutti, quindi anche noi, e così questo è un punto fermo che la dimenticanza di sé è dovuta, è un dovere supremo.

Oblio di sé è la nostra parola d’ordine. L’eroe del dramma di Byron cui si è fatto prima riferimento cerca l’oblio di sé presso i sette spiriti da lui evocati; per trovarli si arrampica sulla cima della montagna; dobbiamo perciò riconoscere in Manfredi un ideale che fa per noi o forse addirittura l’ideale del combattimento etico? Difficilmente, infatti la self-oblivion di questo pseudo-Faust inglese ricorda troppo da vicino quello pseudo-inglese self-government che molti tra di noi si augurano così tanto. Dal diritto di governare se stessi hanno levato la piccola sillaba “sé”, ma così ne hanno allontanato anche ogni essere governato e così ne hanno fatto il diritto di governare da sé. È qualcosa del genere l’oblio di sé di Manfredi: anche lui vuole solo dimenticare da sé. Ma che cosa? Forse se stesso? Non sia mai! Piuttosto la sua colpa. Ma poiché quella colpa che abbiamo è proprietà di colui al quale siamo indebitati – (nella colpa morale il creditore è colui che è stato ferito, ossia la legge e chi l’ha promulgata) – così annullare la propria colpa significa arricchirsi a spese del proprio creditore, e di coloro che fanno così si dice appunto che non si dimenticano di sé. Anche Manfredi non lo fa. Egli almanacca soltanto su ciò che lo ha separato dalla felicità, del suo misfatto; ha un barlume di speranza, che questo possa essere dimenticato, come quando appare in veste femminile il settimo spirito e subito si dice: posso di nuovo diventare il più felice! Pensare solo al proprio esser felice significa pensare solo a sé; e da Manfredi impariamo così poco che cosa significhi dimenticare se stessi come da un qualsiasi cacciatore di felicità che, senza scalare le montagne, e quindi più comodamente di quell’altro, ha appreso l’arte di liberarsi di ogni debito, sia quello del proprio misfatto, sia quello ottenuto grazie al beneficio di un altro. Ogni merito infatti che qualcuno acquisisce presso di noi ci carica di un debito (di riconoscenza), come fosse un anticipo da rimborsare, e perciò dimenticare il proprio torto e i benefici di un altro vanno in genere sempre mano nella mano. Che in entrambi i casi non si tratti di una innocente debolezza di memoria, ma di un egoistico pensare a se stessi è dimostrato irrefutabilmente dal fatto che normalmente coloro che dimenticano a questo proposito sanno addurre invece esattamente dove e quando altri hanno commesso un fallo contro di loro, oppure dove e quando loro stessi hanno prestato servizi ad altri. Una tale combinazione non ci deve neanche sorprendere: come un torto commesso o un beneficio ricevuto costituiscono un debito, allo stesso modo un torto subito o un servizio da noi prestato rappresentano una richiesta che facciamo all’altro. Se poi colui che pensa costantemente a sé e quindi come un avaro sguazza nel contare e stimare i suoi averi e li raddoppia in dolci speculazioni, se poi questi fa in modo di aumentare i passivi degli altri o i suoi propri attivi, se annulla il credito dell’altro o il suo proprio debito, il risultato è sempre quello, perciò i due processi sono perfettamente compatibili l’uno con l’altro.

Non abbiamo quindi da cercare l’oblio di sé presso coloro che rinunciano a darsi pensiero dei loro indebitamenti, e perciò tanto più pensano a che cosa abbiano il diritto di reclamare, piuttosto dobbiamo cercare nella direzione esattamente contraria, laddove qualcuno non si rallegra affatto di quanto gli appartiene e perciò tanto più si rallegra di ciò che è dell’altro, vale a dire presso coloro che amano. La certezza con la quale ci aspettiamo ogni sacrificio dal vero amore e consideriamo che nessun sacrificio gli sarebbe troppo pesante si fonda sul fatto che colui che ama ha già fatto il sacrificio più pesante di tutti, quello del proprio io, e sulla certezza che è impossibile che chi ha donato la cosa più preziosa, il proprio cuore, possa poi lesinare qualcos’altro. In ogni tempo gli uomini hanno avuto perlomeno il sentimento che l’amore sia un sacrificarsi dimentico di sé e di nuovo in tutti i tempi gli uomini hanno chiarito ciò che provavano intuendolo fuori di sé, il singolo al di fuori di se stesso, tutti gli uomini, ovvero l’umanità nell’extraumano. Ciò si è solo profilato diversamente a seconda che l’umanità si trovasse nell’una o nell’altra età della vita, ossia nelle diverse epoche. Nell’infanzia dell’umanità – (nonostante allora il mondo fosse nuovo noi lo chiamiamo il mondo antico) – questa è stata talmente trattenuta e legata all’aldiqua dei rapporti terreni che per lei l’extraumano coincideva con il para- e il subumano, e allora si contemplava l’amore che si sacrifica nell’uccello madre che si apre il petto per nutrire i suoi piccoli con il sangue del suo cuore. Da allora sono passati millenni nella vicenda dell’umanità e quella che vive in noi, ormai invecchiata, si chiama proprio per questo la nuova generazione – i vecchi si atteggiano infatti volentieri a giovani. Quest’ultima interpreta quel racconto come una favola e anche vede in ciò che fa il pellicano solo un combattimento egoistico per l’esistenza. Si potrebbe diventare malinconici al pensiero di quanto siamo diventati prosaici, come del resto anche alcuni lamentano, per il fatto di spiegare i movimenti celesti attraverso spinte e trazioni, laddove i sapienti dell’umanità bambina vedevano invece sollecitudini amorose piene di nostalgia. Ma la tristezza e il lamento sono qui fuori luogo, infatti l’opposizione tra la comprensione della natura dell’antichità e la nostra è ampiamente controbilanciata da un nuovo modo di vedere. Se il Greco, per comprendere i suoi sentimenti, guardava fuori nella natura, questa immagine dello spirito, in particolare il Cristianesimo ci ha insegnato a guardare piuttosto là dove supponiamo si trovi il suo prototipo originale. Ma a partire da lì l’umanità nella sua vecchiaia bisbetica attinge una conoscenza molto più lieta rispetto a quella che concepirono i bimbi eternamente sereni di due millenni fa. Coloro che inventarono la bella favola del pellicano si fanno dire dai loro saggi: gli dei si sono riservati la vendetta, giacché è quanto ci sia di più dolce, e: la divinità non dimentica l’ingiustizia ed eternamente si rammenta della colpa commessa. A noi invece è annunciato: Dio non voglia rammentare il nostro peccato e ricordare la nostra colpa. Lo stesso Aristotele, che dota il cielo di bollenti impeti amorosi, dice della sua divinità senza cuore che essa non sarebbe là per amare, ma per essere amata, mentre a noi è stato annunciato un Dio che non solo ama, ma che è l’amore stesso, ossia pura abnegazione. E mentre lo stesso sapiente greco, considerando indegno della divinità che essa si occupi di altro che di se stessa, ritiene che essa pensi eternamente solo se medesima, noi ci gloriamo di un Dio che adorna i gigli dei campi, che nutre gli uccelli del cielo e che si prende cura dell’uomo e se ne dà pena, tanto che se i nostri teologi, invece di ripetere sempre la questione a suo tempo positivamente proposta da Aristotele, se Dio pensi o sappia se stesso, proponessero una volta piuttosto quella se Dio invece pensi mai a sé, avrebbero allora forse causato una di quelle dislocazioni proiettive […] che indicherebbe un progresso nella scienza. Ma se dalla favola del pellicano e dai progressi della teologia moderna, che forse sono ancora di là da venire, torniamo all’ambito delle esperienze e delle vicende umane, allora troviamo che anche qui elogiamo al massimo quell’amore che è capace di dimenticare: di dimenticare se stesso e ciò che lo riguarda. Giacché gli indebitamenti degli altri costituirebbero delle richieste che a loro possiamo avanzare, e quindi ricadrebbero tra gli averi dell’offeso, così il dimenticarsene da parte dell’oltraggiato è un dimenticare se stesso, e perciò ne facciamo un’unità di misura dell’amore. Chi non è capace di perdonare un torto, ossia di dimenticare, non sa che cos’è l’amore. Chi usa la distinzione che spesso si fa: voglio certo perdonare, ma non posso dimenticare, magari sarà stato anche preso dal desiderio di amare, ma il vero amore gli è anche rimasto estraneo. Gli crediamo che non può dimenticare e così anche lui ci creda quando diciamo che non è capace di amare. Non ne è capace come invece è possibile agli uomini più deboli, infatti vuole di certo perdonare e dimenticare completamente soltanto colui che è l’amore stesso, può farlo solo colui la cui volontà è unita alla sua capacità e al suo poter realizzare e colui che dice: voglio perdonare e dimenticare, anche effettivamente immergendomi nell’abisso dell’eterna dimenticanza.

Ma come? Prima si è addotto l’amore come l’opposto del dimenticare, come un eterno rammentarsi, l’amore materno come impossibilità di dimenticare; ora invece il dimenticare risulta la misura dell’amore e dell’amore paterno che abbraccia tutto si dice che esso solo sarebbe il vero amore perché dimentica più degli altri, e cioè le colpe del mondo intero. Non potrebbe ora qualcuno muovermi il rimprovero che mi contraddico e che ho fatto dell’amore un essere scisso in sé come quel mito antichissimo che ha dato ad Eros come fratello gemello un demone che soddisfa la sete di vendetta? Giacché quanto l’amore dimentica è il proprio e quanto invece non dimentica mai è ciò che è dell’altro, le mie considerazioni si contraddicono tanto poco quanto sarebbe una contraddizione se si dicesse che ogni fare è un tralasciare di fare il contrario. Ma non per mostrare quanto fosse debole quell’obiezione ho consentito che la si avanzasse, piuttosto perché essa contiene moltissima verità. Effettivamente nel caso dell’amore le cose stanno come con Eros e Anteros, naturalmente come questi sono stati pensati nel mito più tardo, in cui dall’antagonista assetato di vendetta è scaturito il partner che induce ad un’accorta attività e che perciò stimola. E invero le due funzioni che si fronteggiano e si richiamano, nel cui conflitto consiste e cresce l’amore, sono proprio quelle due nelle quali lo abbiamo successivamente riconosciuto: il rammentare e il dimenticare, cosicché vogliamo ricordare, più che il mito pagano di Eros e di Anteros, quello cristianizzato di Dante, secondo cui all’entrata del paradiso celeste scorrono i due ruscelli del dimenticare e del rammentare, Lethe ed Eunoè, che hanno un’unica fonte e si alimentano a vicenda. Naturalmente quei miti leggiadri non spiegano che e come questo sia possibile, per poterlo trovare dobbiamo tornare alla nostra arida ricerca sgraziata: l’amore perdonava, ossia dimenticava, il debito dell’altro. Forse con questo la colpa è sparita senza lasciare tracce? Niente affatto! Che colui a cui si è perdonato e di cui si è dimenticato l’oltraggio rammenti questo dimenticare è ciò che allaccia ora un nuovo legame d’amore, cosicché questo diviene tanto più forte e profondo, quanto più in esso dimenticare e rammentare si incontrano. Perfino quando l’onnipotente disse: Non voglio mai più rammentare la tua colpa! ed essa quindi è effettivamente cancellata, da parte del graziato questa viene eternamente pensata e gli risulta impossibile dimenticare quanto gli sia stato perdonato. Qui si trova il godimento meraviglioso dell’essere assolto al quale pensava quell’uomo devoto che aveva paragonato il peccato perdonato al ciocchetto di legno nel camino, giacché entrambi accrescono il nostro benessere non se si mantengono e durano, piuttosto nella misura in cui si distruggono e consumano. Ma sono forse entrato in una regione rischiosa? Il mio mallevadore appena evocato è Jakob Böhm e nel pronunciare il suo nome il nostro tempo illuminato pensa subito a cose spaventose quali mistica, Medioevo, romanticismo, inoltre chi è amico della luce non può ascoltare l’espressione precedentemente usata dell’‘essere assolto’ senza pensare al confessionale, alla remissione dei peccati, ai gesuiti, alle suore di clausura e chissà a che cos’altro, sopraffatto dalla pelle d’oca. Allora fuori al più presto da questo ambiente per raggiungere invece quello in cui splende il chiaro sole dell’intelletto, quello dei puri legami umani. Ma qui si mostra proprio lo stesso che prima: l’incontro del dimenticare e del rammentare avviene perché c’è partecipazione amorosa, intensificazione dell’amore. Ma l’incontro deve avvenire con l’altro, infatti se rammentassi che qualcuno mi ha minacciato di volermi rammentare qualcosa, o se dimenticassi che mi ha perdonato dimenticando un mio torto, allora questo ci estranierebbe l’uno dall’altro. E di nuovo devono incontrarsi Lethe ed Eunoè, non accompagnarsi. Infatti, se io rammentassi che ho perdonato all’altro i suoi debiti e li ho dimenticati, questa mescolanza insudicerebbe e diminuirebbe il mio perdono. Ma dove effettivamente avviene il richiesto incontro dei due diversi processi, laddove l’uno dice: voglio rammentare eternamente il fatto che tu abbia perdonato e dimenticato questo, e induce l’altro a perdonate sempre di nuovo, al punto che l’amico o l’amato ancora rammenta ciò che egli stesso ha da lungo tempo dimenticato, là il rammentarsi si accende al dimenticare, il dimenticare al rammentarsi, e si fa esperienza del fatto che anche nelle relazioni tra gli uomini ci sono momenti in cui il lasciare che si dimentichi (l’essere assolti) diventa il sommo godimento e così il proprio indebitamento diventa il mezzo per il piacere più dolce e più sacro. Ma nel ricordo a questi momenti solenni anche chi è più illuminato sarà sopraffatto, ritengo, non dalla pelle d’oca, ma da un brivido di incanto. […]

[…] L’oratore ha osato presentare quanto ha saputo dire del dimenticare a misura delle sue forze. Se nel lasciare questa sala l’uno o l’altro dovesse ancora rammentare quanto egli ha detto del dimenticare, possa questo avvenire in modo tale che sia perdonato e resti dimenticato quanto non era all’altezza delle aspettative che può e deve avanzare un tale uditorio. Se a questo desiderio l’oratore aggiunge l’assicurazione che rammenterà sempre questo dimenticare, questa è allora una conclusione corretta e coscienziosa della sua conferenza, non di certo un’“anticipazione”, come del resto a ciascuno confermerà l’orologio.

(Traduzione dal tedesco di Gabriella Baptist)

Note:

* J. E. Erdmann, Vom Vergessen. (Berlin 1869), in Ernste Spiele. Vorträge, theils neu theils längst vergessen. Vierte Auflage. Gesammtausgabe seiner jemals gehaltenen populären Vorträge, Berlin, Verlag von Wilhelm Hertz (Bessersche Buchhandlung), 1890, pp. 283-302.

1 [Riferimento a una poesia con questo titolo del poeta romantico tedesco Johann Ludwig Uhland. N.d.T.]

2 [Allusione al dramma Manfredi di Lord Byron. N.d.T.]

3 [Versi di una celebre poesia di Goethe, Alla luna. N.d.T.]

 

Evanescenze: Breviari

 

Şimdi sessiz duruyoruz kıyısında bir düşüncenin

unutmamak için çünkü unutuşun kolay ülkesindeyiz

ölü balıklar geçiyor kırışık bir deniz sofrasından

ve ellerinde fenerlerle benim arkadaşlarım

durmadan düşünüyorum ne kadar çok öldük yaşamak için.

(Onat Kutlar, Turgut'a, in Unutulmuş Kent, 1986)

 

Ora ci fermiamo senza parole sul bordo di un pensiero

per non dimenticare giacché siamo nel paese facile dell'oblio

pesci morti passano dalla tavola sgualcita del mare

e i miei amici con le torce in mano

penso senza posa a quanto siamo morti per vivere.

(Traduzione dal turco di Gabriella Baptist)

 

 


In levare: Eclissi

 

Contributi brevi, ricerche, percorsi


Sottotraccia: Bibliografia minima

 

Bibliografia ragionata con presentazioni essenziali e piccola scelta antologica

 

I filosofi contemporanei:

Olivier Abel (a cura di), Le pardon. Briser la dette et l’oubli, Paris, Autrement, 1991

Burkhard Liebsch (a cura di), Bezeugte Vergangenheit, versöhnendes Vergessen. Geschichtstheorie nach Paul Ricœur, “Deutsche Zeitschrift für Philosophie”, n. 24, Berlin, Akademie Verlag, 2009

Luce Irigaray, L’oubli de l’air, Paris, Minuti, 1983; L’oblio dell’aria in Martin Heidegger, trad. it. di Caterina Resta e Luce Irigaray, Torino, Bollati Boringhieri, 1996

Iniziato poco dopo la morte di Heidegger, l’omaggio al filosofo è nel proposito di continuare sul suo cammino di custodia dell’essere, pensando la fluidità oltre ogni chiusura del cerchio della verità. Il soffio della vita, lo spirito della nascita e della morte, il respiro e l’aria libera che si condivide sono rimasti però impensati in Heidegger e rappresentano invece l’aperto stesso, la materia di una natura-madre che dà la vita dando il respiro e donando così anche voce ed apparenza.

Citazioni: «Questa materia [l’aria] si sottrae alla padronanza, e […] il misurarsi dell’uomo con la physis, quando si tratta dell’aria, minaccia di morte in modo più costante: è il più originario e sempre immediatamente presente del suo superamento del naturale. All’aria, egli deve il cominciare a vivere, il nascere e il morire; dell’aria, egli si nutre; nell’aria, abita; grazie all’aria, può muoversi, esercitare un’attività, manifestarsi, vedere e parlare» (p. 26). «La materia fluida, la voce, l’apparenza. La possibilità di respirare-vivere, la possibilità di chiamare-nominare, la possibilità di apparire-entrare in presenza. Questo passaggio, Heidegger non lo ricorda. Lui dimentica la differenza d’aria(e). E al posto di questo oblio? Un certo vuoto» (p. 39). «Il fondamento che l’uomo si dà implica il velamento del niente su cui riposa. Della riduzione a niente di ciò, materia-carne, da cui proviene. Della costituzione in senza-fondo di ciò da cui trae nascita. Questo velamento si dissimula esso stesso» (p. 150).


Jean-Luc Nancy, L’oubli de la philosophie, Paris, Galilée, 1986; trad. it. a cura di Federico Ferrari, L’oblio della filosofia, Milano, Lanfranchi 1999

Nel quadro delle reiterate lamentele sulla crisi, ogni appello per il ritorno (ai valori, al diritto, al bene e via dicendo), con la sua implicita ossessione per l’uno identitario (per cui si parla di un uomo e addirittura di un pluralismo), in realtà testimonia del rifiuto di problematizzare il presente e perciò evidenzia l’oblio della filosofia e del suo compito di pensare non tanto il senso o un senso, quando la cesura del significato e persino il suo esaurimento nell’insignificanza, esponendosi ai limiti del senso stesso e della significazione, aprendosi ai loro eccessi. Solo nella pluralità di quella apertura del senso e al senso che siamo noi stessi e che costantemente accade tra noi in una condivisione mai identica, solo davanti a questa differenza del reale che siamo noi stessi nel nostro soggiornare al limite del significato può rifiorire lo stupore – passibile di senso –, che non dimentica il pensiero, anzi lo alimenta.

Citazioni: «Da più parti ci viene annunciato che il nostro tempo avrebbe dimenticato la vera filosofia, i suoi autentici doveri e la sua sana riflessione. In realtà, è proprio questo richiamo all’ordine che spesso testimonia dell’oblio di quel che è la filosofia, di quel che è diventata e di quel che sarebbe bene fare con essa o in suo nome» (p. 9). «Anche se si ammette che si deve vivere al passo coi tempi, ci si rifiuta nei fatti di ammettere che occorre pensare questo tempo. […] Questo rifiuto o questo tirarsi indietro davanti a un pensiero del tempo presente testimonia di per se stesso dell’oblio della filosofia. In effetti, tra le proposizioni inaugurali della filosofia dell’età contemporanea, nessuna è stata più dimenticata, o mal compresa, della celebre frase di Hegel: “La nottola di Minerva inizia il suo volo sul far della notte”. […] Il “far della notte” è […] un certo compimento, l’evento e l’avvento di un “tempo presente” che è poi il reale: la filosofia è ciò che pensa la realtà presente (l’unica…), pensando il presente, la presenza e la presentazione della realtà» (pp. 20-21). «È proprio in ciò, in un tale ostinarsi sul limite della presentazione significante, che la filosofia effettua l’atto del pensiero filosofico. L’oblio della filosofia è l’oblio di un tale ostinarsi» (p. 36). «La filosofia si definisce, probabilmente fin dal suo inizio, come il desiderio o la volontà di significare, ma essa si determina anche, e fin dal suo inizio, secondo l’esigenza di un senso in eccesso sul significato. Essa si destina e ci destina ad incontrare questa esigenza di esporvisi. Compiendosi ed esaurendo il sistema della significazione, essa si compie, si esaurisce e si destina sempre più rigorosamente a questo incontro. Disconoscerlo è dimenticare la filosofia» (p. 81).

Paul Ricœur, Erinnerung und Vergessen (tr. ted. di Peter Welsen), in Renate Breuninger, Peter Welsen, Erinnerung – Entscheidung – Gerechtigkeit,Ulm, Humboldt-Studienzentrum, 1999 (“Bausteine zur Philosophie”, vol. 13), pp. 11-30

Non può darsi alcun dovere di ricordare, casomai il ricordo è un lavoro complesso e difficile, analogo al lavoro del lutto e all’accettazione della perdita di un oggetto amato. Analogamente l’oblio, costantemente intrecciato al ricordo, non può essere imposto o ordinato. Certamente dimentichiamo meno di quanto pensiamo o temiamo, tanto più che non esiste solo un oblio distruttore, ma anche un oblio profondo e originario che protegge in realtà il passato nel suo essere stato. Più che con l’appello ad un impossibile e problematico dovere di dimenticare, il lavoro si conclude nel rimando al dovere di interrompere la violenza, l’odio e la vendetta e al «bisogno» che abbiamo di dimenticare (p. 30).


Paul Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris, Seuil, 2000; trad. it. a cura di D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Cortina, 2003

Attraverso una fenomenologia della memoria e del ricordo, un’epistemologia della storia e un’ermeneutica della condizione umana, Ricœur tematizza una libertà puramente umana, e perciò necessariamente incompiuta e condizionata nel suo rapporto alla realtà e all’altro, anche se non per questo meno responsabile. Un oblio ‘felice’, premessa e risultato della riconciliazione, dovrà sempre restare solo come un auspicio, affinché non trionfino i meccanismi della vendetta e della recriminazione, che bloccano il passato alla sua ripetizione ossessiva. In questo senso l’oblio, condizione ineluttabile della finitezza, è anche promessa di un’ulteriorità preclusa, ma all’orizzonte, quale quella prefigurata dal ‘perdono difficile’, sul quale si chiude con un epilogo il saggio.

Citazioni: «L’oblio è l’emblema della vulnerabilità della condizione storica nella sua interezza» (p. 412). «Se una forma di oblio potrà, allora, essere legittimamente evocata, non consisterà in un dovere di tacere il male, bensì di dirlo su un modo pacificato, senza collera. Questa dizione non sarà nemmeno più quella di un comandamento, di un ordine, ma di un voto sul modo ottativo» (p. 646).

Id., Das Rätsel der Vergangenheit. Erinnern – Vergessen – Verzeihen, Göttingen, Wallstein, 1998; trad. it. di N. Salomon, a cura di R. Bodei, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Bologna, il Mulino, 2004

Vincenzo Vitiello, Oblio e memoria del sacro, Bergamo, Moretti & Vitali, 2008

Bernhard Waldenfels, Leibhaftiges Vergessen und Erinnern, in Heinrich Hüni, Peter Trawny (a cura di), Die erscheinende Welt. Festschrift für Klaus Held, Berlin, Duncker & Humblot, 2002, pp. 13-24

Dimenticare non è un atto con una sua qualche intenzionalità, piuttosto sfugge ad ogni teleologia della coscienza o dell’esperienza ed è invece qualcosa che capita e accade come una disgrazia, un affetto, una trovata. Qui il soggetto si sperimenta strutturalmente al dativo, prima di essere il gestore di banche dati da amministrare come capitali. Anche sul solco della riflessione di Merleau-Ponty, la corporeità risulta per Waldenfels insieme custode del passato e luogo dell’oblio, occasione di relazione a sé e insieme di sottrazione a se stessi.

Citazioni: «La proposizione socratica “so di non sapere”, in cui il sapere riconosce i suoi stessi confini, trova una sua eco nella proposizione “so di aver dimenticato” – proposizione altrettanto enigmatica che la prima, perché ci conduce a una soglia che, se attraversata, ci condurrebbe al ricordo, ma che invece non è superata. Sarebbe senz’altro appropriato parlare non solo di una vertigine della libertà, ma anche di una vertigine dell’oblio; anche quest’ultimo è infatti senza fondo» (p. 16). “Ciò che è dimenticato non sta immagazzinato da qualche parte in un dispensario, piuttosto si nasconde nelle pieghe dell’esperienza che non consentono alcun completo dispiegamento. Dimenticare significa vivere con il passato” (p. 20).



Gli storici delle idee:

Umberto Eco, Ars oblivionalis. Sulla difficoltà di costruire un’ars oblivionalis, in “Kos”, IV (1987), n. 30, pp. 40-53

Hanselm Haverkamp, Renate Lachmann (a cura di), Memoria. Vergessen und Erinnern, München, Fink (Poetik und Hermeneutik, 15), 1993

Louis Joinet, L’amnistie. Le droit et la mémoire entre pardon et oubli, in “Communications”, 49 (1989), pp. 213-224

Nicole Loraux, De l’amnistie et de son contraire, in La cité divisée. L’oubli dans la mémoire d’Athène, Paris, Payot, 1997, pp. 146-172; trad. it. di S. Marchesoni, introduzione di G. Pedulla, La città divisa: l’oblio nella memoria di Atene, Verona, Neri Pozza, 2006.

Massimiliano Mezzanotte, Il diritto all’oblio: contributo allo studio della privacy storica, Napoli-Roma, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009

Francesca Rigotti, Schleier und Fluß – Metaphern des Vergessens, in Michael B. Buchholz (a cura di), Metaphernanalyse, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1993; trad. it. Il velo e il fiume. Riflessioni sulle metafore dell’oblio, in “Iride. Filosofia e discussione pubblica”, VIII (1995), pp. 131-151

Paolo Rossi, Il passato, la memoria, l’oblio. Otto saggi di storia delle idee, Bologna, il Mulino 20012

Harald Weinrich, Faust’s forgetting, in “Modern Language Quarterly”, 55 (1994), pp. 281-295

Id., Gibt es eine Kunst des Vergessens?, Basel, Schwabe, 1996

Id., Lethe. Kunst und Kritik des Vergessens, München, Beck, 1997; trad. it. di Francesca Rigotti, Lethe. Arte e critica dell’oblio, Bologna, il Mulino, 1999

Id., Offentliches und privates Vergessen, in “Mitteilungen des Zentrums für interdisziplinäre Forschung der Universität Bielefeld“, 1 (1998), pp. 8-20.

Yosef Hayim Yerushalmi, Gianni Vattimo, Nicole Loraux (a cura di), Usages de l’oubli – Colloque de Royaumont, Paris, Seuil, 1988; trad. it. Usi dell’oblio, Parma, Pratiche, 1990 (di Yerushalmi, Réflexions sur l’oubli, 7-21)

 

Gli antropologi:

Marc Augé, Les formes de l’oubli, Paris, Payot & Rivages, 1998; trad. it. di Roberto. Salvadori, Le forme dell’oblio, Milano, il Saggiatore, 2000

L’oblio è in realtà la forza viva della memoria, che si sagoma attraverso quel lavoro da giardiniere del dimenticare che opera sfrondando e selezionando; inoltre è una preziosa risorsa che ci permette di vivere e di usare il tempo valorizzando il passato nel cogliere il presente e mentre già si gusta l’attesa del futuro. Tre figure rituali dell’oblio sono poi indagate a partire dalla tradizione africana, ma anche nella loro operatività letteraria: il ritorno, che permette di attingere a un passato remoto dimenticando il passato più prossimo, per esempio nell’esperienza della possessione; la sospensione, che si libera dell’ossessione del presente creando spazi intermedi di passaggio e di sperimentazione, per esempio nei rituali d’inversione; il ricominciamento, che cerca di ritrovare il futuro nell’iniziazione e nella rinascita.

Citazioni: “I ricordi vengono sagomati dall’oblio come i contorni della riva dal mare” (p. 33). “Sempre al presente […] si coniuga l’oblio: il presente continuo (‘sono ritornato’), forma presente del passato prossimo che, significativamente, utilizza l’ausiliare essere, verbo di stato; il presente puro, il puro presente dell’istante (‘sono qui’); il presente incoativo che si apre al futuro (‘sto per andarmene’). Potremmo anche dire che, quando si tratta dell’oblio, tutti i tempi sono tempi del presente” (p. 82). “L’oblio ci riconduce al presente, pur coniugandosi in tutti i tempi: al futuro, per vivere il cominciamento; al presente, per vivere l’istante; al passato, per vivere il ritorno; in ogni caso, per non ripetere. Occorre dimenticare per rimanere presenti, dimenticare per non morire, dimenticare per restare fedeli” (p. 124).

Mircea Eliade, Mythologie de la mémoire et de l’oubli, in “Nouvelle Revue Française”, 11 (1963), pp. 597-620

 

Gli psicologi e i medici:

Paolo Barone, Léthe, simbolo e immaginale: tra Jung e Hillman, in “aut aut”, n. 225 (1988), pp. 33-53

Pierre Bertrand, L’oubli. Révolution ou morte de l’histoire, Paris, Presses Universitaires de France, 1975

Wilfred R. Bion, A memoir of the future. Book three: the dawn of oblivion, Perthshire, Clunie press, 1979; trad. it. a cura di A. Baruzzi, Memoria del futuro. L’alba dell’oblio, Milano, Cortina, 2007

Dominique Bourdin, L’oblio. Dinamica del funzionamento psichico, Roma, Borla, 2008

Sigmund Freud, Die Verdrängung (1915), GW 10

Annelies Furtmayer-Schuh, Das große Vergessen. Die Alzheimer Krankheit, Zürich, Kreuz-Verlag, 19924

Aleksandr Romanovič Lurija, Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla, Roma, Armando, 1979

Id., Un piccolo libro una grande memoria, a cura di A. Villa, seconda edizione, Roma, Editori Riuniti, 1991

Marcel Zentner, Die Flucht ins Vergessen. Die Anfänge der Psychoanalyse Freuds bei Schopenhauer, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1995

 

Gli storici e i sociologi:

Franco Ferrarotti, La tentazione dell’oblio. Razzismo, antisemitismo e neonazismo, Roma-Bari, Laterza, 1993

Tony Judt, L’età dell’oblio: sulle rimozioni del ‘900, Roma-Bari, Laterza, 2009

Ernst Nolte, Ricordo e oblio: i tedeschi e la loro duplice memoria storica, trad. it. di P. Sorge, Bresso (MI), Hobby & Work Publishing, 1999


I letterati e testimoni:

Jean Anouilh, Il viaggiatore senza bagaglio, in Commedie amare e di costume, a cura di Cesare Vico Ludovici, Adolfo Franci, Edoardo Anton e Roberto Rebora, Milano, Bompiani, 1966

Louis Aragon, Chanson pour oublier Dachau, in Le nouveau crève-cœur (1948), in L’Œuvre poétique (1944-1952), Tours, Livre Club Diderot, 1980, vol. XI, pp. 187 ss.

Heinrich Böll, Der Wegwerfer (1957), in Das Heinrich Böll Lesebuch, a cura di Viktor Böll, München, dtv, 1982, pp. 167-176; trad. it. Il cestinatore, in Racconti umoristici e satirici, a cura di Lea Ritter Santini, Milano, Bompiani, 1964, pp. 157-170

Jean Giraudoux, Siegfried et le Limousin, 1922; trad. it. di M. Miserocchi, Il romanzo di Siegfried, Firenze, Barbera, 1931

Milan Kundera, Le livre du rire et de l’oubli, Paris, Gallimard, 1978; trad. it. di A. Mura, Il libro del riso e dell’oblio, Milano, Adelphi, 1998

Stefan Merrill, Io non ricordo, Milano, Neri Pozza (premio Merck-Serono 2009)

Bianca Pitzorno, L’isola degli smemorati, illustrazioni di Lorenzo Terranera, Roma, Unicef, 2003

In un'isola vivono otto anziani che a suo tempo vi si sono rifugiati scampando a una guerra, ormai dimentichi del resto del mondo, perfino di essere stati una volta bambini; solo il vecchissimo Lucanor, il nono abitante, ha conservato memoria della sua vita precedente giacché coltiva la sapienza e la benevolenza, essendo una specie di maestro incantatore capace di parlare agli elementi e agli animali. Quando dal mare giungeranno otto piccoli naufraghi, la vita certamente non potrà che cambiare. Sarà il vecchio saggio, il solo capace di riconoscere gli eventi e tirarne le fila, a salvare i bambini dalla violenza del mare con l'aiuto delle sue magie e dei suoi amici: un cane, un gabbiano e un pesce, preservando poi i piccoli anche dal pericolo che gli smemorati, aggiungendo violenza a violenza, non ne riconoscano i diritti più elementari, sanciti dalla Convenzione ONU del 1989 e brevemente ricordati al termine della storia, che naturalmente è a lieto fine come ogni favola.

Citazioni: "Nonostante l'età, erano tutti in ottima salute e pieni di energia, così finirono per dimenticare di essere stati giovani, e prima ancora bambini. Dimenticarono addirittura che tutti gli uomini del mondo, quando vengono al mondo sono bambini, e restano bambini per un bel po'. Dimenticarono come è fatto un bambino, e se oggi ne vedessero uno, non lo saprebbero riconoscere" (p. 13). "Passa il tempo sull'isola. Gli adulti si abituano a vivere con i bambini e i bambini si abituano a rinfrescare la memoria dei grandi ogni volta che qualche loro diritto viene dimenticato" (p. 63).

Elie Wiesel, L’oublié, Paris, Seuil, 1989; trad. it. di F. Ascari, L’oblio, Milano, Bompiani, 2007

Elhanan Rosenbaum, che ha vissuto in un angolo dell’Europa orientale l’esperienza della persecuzione e dello sterminio, ma anche la resistenza e la liberazione, per poi cercare in Israele e quindi in America un nuovo inizio per la sua vita di studioso e terapeuta, ormai vecchio perde la memoria e chiede al figlio Malkiel, giornalista del “New York Times”, di ritrovare per lui il suo passato che si annebbia, andando a cercare quanto rimane della sua vita e dei ricordi della sua famiglia nella cittadina rumena in cui quasi ogni traccia della comunità ebraica è stata cancellata. Il presente e il passato, i vivi e i morti, le vittime e i carnefici si intrecciano nella storia continuamente interrotta dai ricordi, dalle rievocazioni, dagli amori passati e perduti, dagli amori presenti e pulsanti, dalle conversazioni in cui traspare l’intenso rapporto tra un padre e un figlio legati non solo dall’affetto e dall’ammirazione reciproca, ma anche da legami di fedeltà, di pietà e di solidarietà. Ma che cos’è quel “dimenticato” a cui allude il titolo? Il passato che sfugge, i testi da recitare che si inceppano nella mente, le parole che mancano sulla bocca del vecchio? La giovane moglie morta di parto, ma sempre presente ed amata? La Gerusalemme vagheggiata del loro amore e della nascita del figlio? La Romania abbandonata? La tradizione cui ci si impegna costantemente a restare fedeli? È in realtà la memoria stessa da non dimenticare e da custodire, fondamento della religiosità e della pietà ebraica nella memoria stessa di Dio, sempre nel pericolo di essere obliata e perciò sempre da curare e coltivare grazie all’amore di quanti ci sono vicini e di quanti, pur lontani e perduti, continuano a benedire le nostre vite.

Citazioni: «“La natura umana vuole che l’uomo dimentichi ciò che gli fa male, non è vero? Per gli antichi, l’oblio non era un dono degli dei? Senza di esso, la vita sarebbe insopportabile, no?” Sì, ma l’ebreo vive secondo altre regole. Per lui, nulla è più importante della memoria. È grazie alla memoria che è legato alle proprie origini. È con essa che si riallaccia ad Abramo, a Mosè e a Rabbi Akiba. Se la rinnega, avrà rinnegato il proprio diritto all’onore» (p. 76). «“Chi è lei, Ephraim?” “Mi hai sentito. Sono il custode.” “Che cosa custodisce?” “Quello che la gente getta, quello che la storia rifiuta, quello che la memoria rimuove. Il sorriso di un bimbo affamato, le lacrime di sua madre morente, le preghiere mute del condannato, le grida del suo amico: sono io che li raccolgo e li conservo. In questa città, io sono la memoria.”» (p. 214).


Altri:

Communication”, n. 49: La mémoire et l’oubli, Paris 1989

Stéphane Gacon, “L’oubli institutionnel”, in Dimitri Nicolaïdis (a cura di), Oublions nos crimes. L’amnésie nationale. Une spécificité française?, Paris, Autrement, 1994, pp. 98-111

Stefan Grätzel, Organische Zeit. Zur Einheit von Erinnern und Vergessen, München, Alber, 1993

Carola Klier, Die «Krankheit des Vergessens» im spanischen Gegenwartsroman, Köln, Böhlau, 1995

Christian Meier, La mémoire et l’oubli, in “Communications”, n. 49, Paris, 1989

Id., Erinnern – Verdrängen – Vergessen, in “Merkur”, 50 (1996), pp. 937-952

Israel Rosenfield, Das Fremde, das Vertraute und das Vergessene, Frankfurt a.M., Fischer, 1992; trad. it. Lo strano, il familiare, il dimenticato, a cura di F. Bianchi Bandinelli, Milano, Rizzoli, 1992

Manfred Schneider, Liturgien der Erinnerung. Techniken des Vergessens, „Merkur“, 41 (1987), n. 8, pp. 676-686

Gary Smith, Hinderk Emrich (a cura di), Vom Nutzen des Vergessens, Berlin, Akademie-Verlag, 1996


Diminuendo: Ah, dimenticavo!

Gli smemorati di tutti i tempi

 

Reticenze: le citazioni memorabili

 

“Der Name Lampe muß völlig vergessen werden” (Il nome Lampe deve essere completamente dimenticato).

Ma perché Kant vuole dimenticare Martin Lampe, il fido servitore, sul quale ha invece sempre potuto contare fino al suo licenziamento nel 1802, allorché questi era quasi settantenne e Kant stesso, ormai vecchio, già incominciava a perdere le sue forze – sarebbe morto due anni dopo –, anche quelle della memoria? E perché poi lo scrive su un foglietto, quasi un memorandum per non dimenticare di dimenticare? In proposito si potrà leggere: Harald Weinrich, Warum will Kant seinen Diener Lampe vergessen?, in “Merkur”, 51 (1997), n. 574, pp. 41-51.

 

Omissis: suggestioni e curiosità

 

Che cosa diciamo quando diciamo l'oblio?

Epilanthanesthai rimanda al fatto che qualcosa scompare nascondendosi;

oblivisci in latino è deponente, ovvero di significato attivo, ma in forma passiva, e rimanda all'appiattimento del rilievo dell'esperienza. In seguito si userà obliare, in francese oublier, in spagnolo olvidar, dal participio oblitus, di forma frequentativa e iterativa, come se si sottolineasse che si tratta di fenomeni che si ripetono;

dimenticare significa letteralmente che qualcosa sfugge di mente;

Vergessen e forgetting indicano che qualcosa si sottrae alla nostra presa;

zabyvat, in russo, indica che qualcosa esce dall'essere e non esiste più;

unutmak, in turco, significa etimologicamente al tempo stesso svuotare, lasciar svanire, smorzare, ma anche rinnovare, riparare, rinforzare;

wasureru, in giapponese, rimanda al fatto che si perde il cuore (che riconquistiamo 'latinamente' nel ricordo e nella recordatio!)