Hannah Arendt, lettrice di Machiavelli

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La fondazione come evento

1. Forse più di ogni altro autore del passato, Machiavelli è stato in vari modi piegato alle urgenti o meno urgenti esigenze della contemporaneità, sottoposto talvolta anche arbitrariamente ad un’azione attualizzante al punto tale che il machiavellismo ha finito col prevalere sull’opera del Machiavelli, quindi a discapito di uno scavo attento e rigoroso dei testi. Il suo pensiero dettato dall’urgenza delle domande e dalla dura contingenza storica attinente ai disastri e alle rovine della politica fiorentina ed italiana nel corso del primo Cinquecento viene a trovarsi al centro delle riflessioni novecentesche sul tema della politica e del potere, della storia e della rivoluzione.

Tra le interpretazioni novecentesche prenderò in esame la lettura che Hannah Arendt ha dato dell’opera del Segretario fiorentino e lo farò ripercorrendo testi, lezioni, brevi annotazioni incidentali, passaggi fulminei tratti dai suoi saggi poiché, come è noto, non c’è un saggio specifico della pensatrice di Hannover su Machiavelli[1].

Sovente s’impongono da sé i temi comuni che corrono tra i due, il primo sopra tutti: «l’autonomia della sfera politica», teorizzata da Machiavelli e sviluppata da Hannah Arendt che la mette al centro dell’intera sua opera.

La politica moderna non è semplicemente oggetto privilegiato di studio ma attività concretissima che Machiavelli osserva  dentro la fragilissima repubblica fiorentina come segretario della Cancelleria. Nel Principe, nei Discorsi, e anche nell’Arte della guerra si dispiega una sequenza impressionante di inconvenienti e difficoltà che possono produrre disastri; la funzione essenziale della politica consiste nel porre rimedi, riparare le falle, trovare equilibri provvisori e sempre precari[2].

Anche per Hannah Arendt che vive, apolide ed ebrea, le lacerazioni del secolo dei totalitarismi, la politica è relazione tra gli uomini, spazio di libertà, «convivenza e comunanza dei diversi»[3].

 

2. Come è noto nei Discorsi, Machiavelli dà ampio rilievo al momento della fondazione di Roma, come dichiara solennemente all’inizio del capitolo 1, intitolato Quali siano stati universalmente i principi di qualunque città, e quale fosse quello di Roma:

Coloro che leggeranno quale principio fusse quello della città di Roma, e da quali legislatori e come ordinato, non si meraviglieranno che tanta virtù sia per più secoli mantenuta in quella città; e che di poi  ne sia nato quello imperio al quale quella Repubblica aggiunse. E volendo discorrere prima il nascimento suo, dico che tutte le città sono edificate o dagli uomini natii del luogo dove le si edificano, o dai forestieri[4].

Per Machiavelli la fondazione è un evento necessario  sia quando esso è opera degli abitanti natii del luogo o quando esso è opera dei forestieri a patto che gli edificatori siano comunque e sempre uomini liberi. L’azione di fondazione presuppone sempre un gesto di libertà anche quando essa è affidata alla volontà ordinatrice di un solo individuo che la sa trasmettere alla moltitudine più savia e più costante di un principe[5] (Discorsi, I, 58).  Nel passo sopra citato si parla di Roma a conferma che l’orizzonte politico di Machiavelli è dato dal primato della polis come luogo del potere e dello Stato, del suo corpo politico e civile: la fondazione di ogni modello di Stato, nella fattispecie, quello romano, viene sempre ricondotta alla fondazione della città. I grandi eroi della politica sono i fondatori delle città, degli Stati come Mose, Ciro, Romolo, Teseo «che fecero molte buone leggi conformi al vivere libero»[6].  E nei Discorsi I, 10, Machiavelli insiste sulle virtù politiche di quelli che hanno fondato «o republiche o regni»[7].

Sul tema della fondazione come evento Hannah Arendt imposta e sviluppa la sua lettura dell’opera machiavellica:

Il nucleo centrale della dottrina politica romana, dai primordi della repubblica, si può dire, fino agli anni dell’età imperiale, è la fede nella sacralità della fondazione, sacralità intesa nel senso che da quando viene fondata, una cosa resta vincolante per tutte le generazioni future[…]Il potere vincolante della fondazione vera e propria era di natura religiosa: la città veniva a dare una dimora stabile anche agli dei di quel popolo[8].

È romana l’esperienza della fondazione “un evento unico” su cui si innesta  la parola e il concetto di auctoritas che deriva dal verbo augere, “innalzare, elevare”[9]: l’autorità, a differenza del potere, è radicata nel passato, amplia ciò che è stato posto da altri cioè dall’opera dei padri fondatori. È il tema romano dell’augmentum, dell’accrescimento che costantemente “innalza” la fondazione.

La città romana è un inizio che si pone all’interno di una più antica origine, un cominciamento che riprende ciò che già è stato inaugurato e lo fa durare.

La stessa origine della politica viene ricondotta alla fondazione della città, alla vita della polis come spazio pubblico (public space).

Per questo motivo, Machiavelli esplorò il nucleo dell’esperienza politica dei romani coniugandola col potere vincolante e religioso della fondazione.

«Nella nostra storia politica c’è almeno un genere di evento per il quale l’idea di fondazione è decisiva[…]Si tratta delle rivoluzioni dell’età moderna e dell’opera di Machiavelli, il quale visse alle soglie di questa età, e pur non avendo mai usato la parola ‘rivoluzione’, fu il primo a concepirne l’idea»[10].

Antenato delle rivoluzioni moderne Machiavelli, nella lettura arendtiana, sembra parlare in maniera sorprendente la stessa lingua di Robespierre: i due «annoveravano l’atto di fondazione tra le diverse forme del fare: il loro problema, era, alla lettera,  come fare  un’Italia unita o una repubblica francese, e la loro giustificazione alla violenza nasceva e riceveva la sua intrinseca plausibilità dall’argomentazione sottesa: Come non si può fare un tavolo senza uccidere gli alberi, o non si può fare una frittata senza rompere le uova, neppure si può fare una repubblica senza uccidere qualcuno»[11]. In altri termini, Machiavelli e Robespierre sono consapevoli dell’importanza dell’atto di fondazione e del ricordo come garanzia di stabilità e di durata della nuova costruzione politica.

Il richiamo alla violenza e al suo perpetuo prolungarsi nella storia umana, tra uomo e uomo, popolo e popolo, Stato e Stato  rappresenta il filo conduttore dell’opera di Machiavelli che Hannah Arendt in più passi non manca di sottolineare: «ancor più importante in questo contesto è il suo famoso insistere sul ruolo della violenza nel campo della politica che non ha mai cessato di sconcertare i suoi lettori, ma che ritroviamo anche nelle parole e nelle azioni degli uomini della rivoluzione francese[…]l’elogio della violenza è stranamente in contrasto con l’ammirazione professata per tutta l’antichità romana, dal momento che nella repubblica romana era l’autorità, non la violenza,  che governava la condotta dei cittadini»[12].

 

3. Per Machiavelli, come è noto, la violenza è un dato necessario alla costruzione della politica, è l’elemento che fonda e costituisce il vivere civile.

Nacquono queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini: perché nel principio del mondo, sendo gli abitatori radi, vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie; dipoi moltiplicando la generazione, si ragunarono insieme, e per, potersi meglio difendere, cominciarono a riguardare infra loro quello che fusse più robusto e di maggior cuore, e fecionlo come capo, e lo ubedivano[13].

In questo passo si chiarisce che la civiltà nasce da una violenza originaria che vede gli uomini dispersi e simili a bestie che si combattono tra di loro finché essi cominciano a raccogliersi  attorno a qualcuno “più robusto  di maggior cuore” per potersi meglio difendere. Questo iniziale stato di natura viene così superato dalla “cognizione della giustizia” che spinse gli essere umani ad eleggere tra loro un principe che fusse più prudente e più giusto[14].

Anche per Hannah Arendt non c’è fondazione senza violenza, non c’è inizio senza conflitto, ma rispetto alle posizioni del Segretario fiorentino c’è un’immensa distanza perché potere e violenza non sono la stessa cosa anche se appaiono insieme.

«Il potere e la violenza sono opposti: dove l'una governa in modo assoluto, l'altro è assente. La violenza appare dove il potere è scosso, ma lasciata a se stessa finisce per far scomparire il potere.[…] La violenza può distruggere il potere; è assolutamente incapace di crearlo»[15]. Dove il potere arretra, la violenza si espande, dove il potere si contrae, la violenza riapre impietosa le ferite che produce. Solo l’agire può restituire senso alla politica e schiodarla dall’abbraccio mortale con la violenza, interrompere la perversa connessione politica-guerra e offrirsi quale unico rimedio ad ogni forma di dominio.

Parliamo della linea di eventi che, muovendo dalle macerie di Troia, conduce alla fondazione di Roma e alle rivoluzioni dell’età moderna, secondo l’interpretazione che i Romani davano della propria origine  nel grande poema di Virgilio, l’Eneide.

«Ciò che accadde quando i discendenti di Troia giunsero in terra italica, non fu né più  né meno che la creazione della politica nel punto esatto in cui per i greci aveva termine e fine: nella relazione non tra cittadini di pari grado di una stessa città, ma tra popoli estranei e dissimili, che solo il combattimento aveva riunito»[16].

La fondazione di Roma costituisce la rinascita di Troia sul suolo italico cioè una rigenerazione, un’alleanza fra ex belligeranti, «poiché Roma era stata fondata su questa legge-trattato fra due popoli diversi e naturalmente ostili, poteva alla fine divenire di Roma “porre tutto il mondo sotto le leggi” – totum sub leges mitteret orbem. Il genio della politica romana – non solo secondo Virgilio, ma in generale secondo l’interpretazione che ne davano gli stessi romani – era insito nei principi stessi che presiedettero alla leggendaria fondazione della città»[17].

Salvezza fisica del nemico, trattati e alleanze. Ecco gli elementi che permettono al principe troiano Enea di creare una nuova forma politica e di riunire in uno spazio comune popoli diversi.

L’atto di fondare, tuttavia, deve contenere in sé anche la capacità di mantenere aperto e far durare lo spazio di libertà appena dischiuso. La stabilità dev’essere racchiusa all’interno stesso dell’atto del cominciamento. Non può sopravvenire dopo; si avrebbe altrimenti un fatale sdoppiamento dell’inizio, il prodursi di due cominciamenti che rimarrebbero in tensione irrisolta tra loro o farebbero riapparire la violenza nel soccombere dell’uno all’altro.

Come si è visto, sia Machiavelli sia Arendt guardano all’origine della politica e della storia nel senso che lo spazio di libertà creato dalla rivoluzione deve, nell’unico atto del suo sorgere, istituirsi, legittimarsi, stabilizzarsi e durare; l’autorità di un corpo politico rinvia sempre alla fondazione medesima e al ricordo di tale impresa; così è per entrambi per i quali il motivo della fondazione slitta e si moltiplica in quello dell’innovazione e della durata poiché l’atto medesimo del fondare non si esaurisce o non è dato una volta per sempre.

 

Contro la bontà

4. Fondare o cominciare qualcosa di nuovo è identificato da Hannah Arendt con l’interruzione salvifica dei processi cosmologici e di quelli biologici. Senza fondazione non c’è politica e non c’è libertà. «Il miracolo della libertà è insito in questo saper cominciare»[18]. Come traspare dai molti luoghi  della sua opera, la sfera politica, che ispira e motiva l’interpretazione arendtiana di Machiavelli, appare completamente autonoma da vincoli ideali, morali o religiosi.

E’ significativo che in un corso tuttora inedito su Il Principe[19] tenuto all'Università di Berkeley nel 1955,  Hannah Arendt colga la grandezza di Machiavelli nel fatto che egli abbia ribaltato una tradizione millenaria  ossessionata dal fine della politica (da Platone e dal Cristianesimo in avanti). E che egli non si sia mai posto la domanda: a cosa serve la politica? ma il che cos’è la politica, cioè qual è il suo oggetto, la sua radice, la sua incidenza nelle vicende umane.

Machiavelli never asks: What is politics good for? And this is very surprising. Nobody except him leaves out this question altogether. Politics  has no higher aim than itself. (Machiavelli non chiede mai: a cosa serve la politica? E questo sorprende molto. Nessuno, a parte lui, evade totalmente la domanda. La politica non ha alcun fine più alto rispetto a se stessa)[20].

La politica così intesa è l’essenza del suo realismo: Machiavelli - osserva Arendt - ribalta sia la visione cristiana che concepisce la politica funzionale alla filosofia quindi all’interesse per le cose eterne sia la visione greca cioè quella aristotelica che concepisce la politica  come condizione per rendere fattibile la buona vita (good life) sia quella moderna per cui la politica deve poter garantire un’esistenza pacifica  e prevenire “una morte violenta”(Hobbes)[21].

La politica è estranea ogni intenzione etica e fuori da un contrappunto organicistico, riscattata dai miti teologici e restituita all’opzione dell’uomo.

Machiavelli once mentions the need of men to defend themselves and that this probably was the first motive for men to gather together in political bodies.

(Machiavelli una volta menziona il bisogno degli uomini a difendere se stessi e che questo probabilmente fu il primo motivo per gli uomini ad aggregarsi assieme in istituzioni politiche)[…] Politics itself has no end, it is not  a means. (La politica non ha alcun fine, non è un mezzo)[22].

Nel passo è evidente il riferimento arendtiano al modello antropologico dello scrittore fiorentino  che chiama in causa l’intera condizione naturale dell’uomo cioè il carattere conflittuale della natura dell’uomo e il suo intrinseco bisogno ad associarsi insieme agli altri.

La tradizione di pensiero politico con la quale la studiosa tedesca si identifica  è quella dell’umanesimo civico (Montesquieu, Jefferson, Tocqueville): secondo questa tradizione la politica trova la sua autentica espressione ogni volta che gli individui si riuniscono in uno spazio pubblico per deliberare e decidere su questioni riguardanti l’intera comunità. La politica è prudenza pratica, phronesis, dare possibilità  a ciascun individuo di esercitare attivamente i suoi poteri e diritti di cittadinanza, di sviluppare le capacità di giudizio.

Parimenti, il senso della politica per Hannah Arendt va ricercato «entro la sfera delle faccende umane[…]qui c’è un taumaturgo e che l’uomo stesso, in maniera alquanto meravigliosa e misteriosa, sembra avere il talento di compiere miracoli. […] Questo miracolo si chiama agire»[23].

La politica, perciò, è la sfera della vera esistenza, è il luogo dell’incontro tra persone che condividono ideali ed esperienze, è spazio comune, è primato dell’agire[24]. Essa richiede istituzioni stabili, create dall’uomo, che permettano la formazione della sfera pubblica nella quale l’azione e il discorso possano svolgersi.

 

If I say: What is the end of politics, I mean for the sake of what do we have politics? In this: For the  sake of… was the meaning of politics. If we say: life or the world has become meaningless, we say: we dont know for the sake of what…, even so we may very well know: I do this in order  to…[…] (Se dico: Qual è il fine della politica, intendo per amore di cosa abbiamo fatto la politica? Noi diciamo: per amore del mondo[…](Se dico: "Qual è il fine della politica? intendo a quale scopo abbiamo la politica?" In questo senso: " a quale scopo" è il significato della politica. Se diciamo: la vita o il mondo sono divenuti insensati, diciamo: non sappiamo realmente a quale scopo, anche qualora sappiamo benissimo che facciamo una certa cosa con un certo fine)[25].

La politica è fine a se stessa, quindi non va più considerata come un mezzo. Questa per Hannah Arendt è la grande lezione di Machiavelli.

 

5. L’altro grande tema delle lezioni su Il Principe, che si intreccia e si salda con quello dell’autonomia della sfera politica riguarda la bontà e il bene ossia le condizioni della loro impossibilità. Il vero problema per il Fiorentino è:  What is goodness? Can one be good and be political? Che cos’è il bene? Si può essere buono ed essere uomo politico?[26]La cifra dell’azione politica, ciò che la virtù e la fortuna[27].  Semmai, per Machiavelli, i due beni necessari al vivere civile sono il governo della leggeil bene comune che vanno difesi e protetti ad ogni costo.  Non c’è posto invece per la bontà che appartiene alla sfera privata[28]. raggiungono insieme, è la gloria per un popolo e per un principe: la gloria che risplende, appare, è vista e si fa vedere; per la gloria e per la fama eterna si compiono grandi imprese e

Machiavelli teaches how not to be good, but to act political in the world of appearances where nothing counts but what can appear. This world. A true lover of this world. (Machiavelli insegna a non essere buoni, ma ad agire politicamente nel mondo delle apparenze dove nulla conta se non ciò che può apparire. Questo mondo. Un vero innamorato di questo mondo)[29].

Per Hannah Arendt, Machiavelli è stato il più lucido pensatore moderno che ha tracciato una netta linea di demarcazione tra sfera pubblica e sfera privata ma soprattutto è lodato per il “suo amore del mondo” e per quei sacri valori fondanti il vivere civile. La lettura arendtiana del Fiorentino trova il punto di forza nel reciproco coappartenersi del mondo e degli uomini: «l’uomo è casa propria, egli può fare affidamento sul mondo per preservare la sua gloria e grandezza».(Man is at home, he can trust the world to preserve his glory and his greatness)[30]. Come si vede, il tema-guida del mondo è per entrambi il criterio di pensabilità della politica (il politico nel senso più proprio). Se il mondo è quell’in-fra che viene ad esistere in un intreccio di relazioni fra persone o fra gruppi o fra popoli diversi, allora «gli uomini nel vero senso del termine possono esistere soltanto dove esiste il mondo, e il mondo nel vero senso del termine può esistere soltanto dove la pluralità della razza umana è più della mera moltiplicazione di esemplari di una specie»[31]. Così, assumere il punto di vista della realtà del mondo permette di comprendere in senso arendtiano le condizioni che rendono possibile relazioni non antagonistiche fra individui e popoli diversi. Questo è il compito della politica nel senso più alto del termine.

6. In un passo di Vita activa, la pensatrice tedesca afferma che «la politica non è mai subordinata (for the sake of) alla vita»[32]. E in vista di questo scopo ella “sfronda” la capacità politica dell’essere umano, ossia separandola nella maniera più netta dalle forze, dalle passioni, dai desideri, dai piaceri, da tutto ciò che può conservare una parentela con un paradigma vitale cioè con una dimensione antipolitica. Per questo motivo può affermare con Machiavelli che “l’uomo impegnato in un’attività politica è necessario…imparare a potere non essere buono[33]. Contro la bontà e il suo carattere rovinoso nella sfera della vita pubblica si esprime Machiavelli in un celebre passo de Il Principe, capitolo XV, più volte citato e condiviso dalla nostra Autrice:

Perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si doverrebbe fare impara piú tosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni.

Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare  a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo la  necessità[34].

Si condensa in questo fulmineo passaggio l’antropologia pessimistica del Segretario Fiorentino che delinea da un lato, l’enorme distanza tra la pratica (come si vive) e la teoria morale (come si dovrebbe vivere) e dall’altro, la doppia natura del Principe: essere buono o cattivo a seconda della necessità pur di mantenere e conservare lo Stato.

Forse nessuno più di Machiavelli - scrive l’Arendt - era profondamente consapevole del carattere devastante della bontà che non è di questo mondo, e non può esistere nell’ordine sociale[35].

Quindi, ella condivide con lo scrittore fiorentino l’idea che una politica che assuma la bontà come paradigma sarebbe condannata alla sua stessa distruzione poiché la bontà come il crimine, ha bisogno di essere tenuta nascosta agli occhi e all’ascolto degli altri. Una comunità che voglia regolare le faccende umane in termini di bontà non può fare a meno di tenersi lontana dalla sfera pubblica. La bontà appartiene alla sfera religiosa e alla sfera della vita intima che sono mondi nascosti  e invisibili agli altri.

Goodness: in absolute sense does not exist in this spere, cause a good deed hides itself, the moment it is known, it is no longer good, but vanity, wanting to appear good. (Il Bene: in senso assoluto non esiste in questa sfera, perché una buona azione   si nasconde, nel momento in cui appare, non è più buona, ma è vanità che ha voglia di apparire[36].

L’uomo non può essere buono nel senso che appena egli si espone agli altri, la sua bontà non c’è più, poiché  svanisce nella dimensione dell’apparire. L’uomo buono nel mondo è un idiota, cioè è buono nel senso cristiano. Idiota nel vecchio senso del termine[37]. In un saggio su Bertold Brecht scrive:  «Il Leitmotiv delle opere di Brecht è la tentazione di rimanere buoni  in un mondo e in circostanze che rendono impossibile la bontà, e il conflitto drammatico è quasi sempre lo stesso: chi è spinto dalla compassione a cercare di migliorare il mondo non può permettersi di essere buono[…]Brecht arrivava, così, alla stessa conclusione di Machiavelli, che probabilmente non conosceva: chi vuol fare politica deve “imparare a non essere buono”. E naturalmente il suo atteggiamento apparentemente ambiguo di fronte al problema della bontà, che gli derivava da quella convinzione, fu altrettanto frainteso quanto quello di Machiavelli»[38]. La bontà entra in conflitto con la sfera pubblica e l’uomo buono non può esercitarsi nell’arte politica, perché gli effetti della bontà sarebbero devastanti in tal senso, anche le buone opere non possono produrre nulla «non possono mai divenire parte del mondo; vanno e vengono senza lasciare traccia. Esse non sono veramente di questo mondo»[39]. Come la saggezza nell’antichità, così la bontà è una nozione religiosa, non umana, sovrumana[40], sublimata nella pratica di poeti e scrittori contemporanei.

7. L’ultimo paragrafo del secondo capitolo di Vita activa dal titolo La posizione delle attività umane[41] è un breve e denso trattatello sul tema della bontà dal quale proveremo a dipanare solo alcuni fili. Un primo filo è la convinzione arendtiana che la bontà è un “caso dichiaratamente estremo”  che allarga in maniera problematica  la sfera privata che è il dominio della necessità, della labilità e della vergogna mentre non è proponibile un suo inserimento nella tripartizione della sfera pubblica che è il dominio della libertà, della permanenza e dell’onore. Storicamente la bontà si è affermata con il sorgere del Cristianesimo e con l’attività  di Gesù di Nazareth che insegnava con parole e atti la bontà; ma tutta la vita di Gesù è la concreta testimonianza di quanto l’amore per la bontà porti alla conseguenza paradossale che nessun uomo può essere buono come pensava, allo stesso modo, anche Socrate che nessun uomo può essere saggio e dalla cui convinzione egli era spinto a filosofare.

Il tentativo di definire la natura della bontà è un’operazione difficile: la bontà è sfuggente, evanescente: «può esistere solo quando non è avvertita nemmeno da chi la compie; chiunque si vede fare una buona azione, non è più buono»[42].

Un secondo filo da dipanare è che la  bontà appartiene e non appartiene al mondo e anche quando produce delle buone opere non è al suo posto nemmeno nella sfera privata; l’ostilità cristiana nei confronti della vita pubblica inchioda la bontà alla scarsa incidenza nelle cose del mondo ma l’uomo amante della bontà «orienta il suo vivere con e per gli altri perché non può mai permettersi di condurre una vita solitaria»[43].

Relegandola nel solco della tradizione religiosa, Arendt si preclude la via di ripensare il concetto di bontà in un contesto più ampio; Machiavelli - spiega l’Autrice - insegnando agli uomini come non essere buoni non intendeva come si dovesse insegnare loro ad essere cattivi ma il suo criterio distintivo  che assegnava all’azione politica era la gloria, come nell’antichità classica[44]. Quando la bontà «entra nella sfera pubblica non è più buona, ma corrotta nella sua sostanza e porterà la sua corruzione ovunque giungerà»[45].

Insomma, la bontà in ragione del suo fuoriuscire da se stessa, del suo continuo oscillare dalla sfera religiosa alla sfera mondana, del suo continuo sfiorarsi come una speciale praxis che implica decisione e libertà rimane un dilemma irrisolto del pensiero arendtiano.

Per Machiavelli, la norma in base alla quale si giudica  è il mondo, non l’io – la norma è esclusivamente politica. Ed è proprio per questo che Machiavelli sarebbe diventato tanto importante anche per la filosofia morale. Egli è più interessato a quanto accade a Firenze di quanto lo sia alla propria anima, e pensa che la gente che è preoccupata solo dalla salvezza dell’anima, invece  di preoccuparsi della salvezza del mondo, dovrebbe essere tenuta lontana dalla politica[46].

Hannah Arendt concentra così la propria attenzione critica sullo scrittore fiorentino per proteggere l’agire umano dalla infausta influenza delle inclinazioni naturali ma soprattutto per dare conto che la politica è conservazione e salvezza del mondo.

 


[1] Il saggio arendtiano che contiene una riflessione meno occasionale su Machiavelli è senza dubbio “Che cos’è l’Autorità” in Tra passato e futuro, a cura di A. Dal Lago,trad..it. di T. Gargiulo, Milano, Garzanti, 1999, pp.184-192. Cfr. H.Arendt, Sulla rivoluzione, a cura di R.Zorzi, trad.it. di M.Magrini, Milano, Edizioni di Comunità 1989, p.32-37, pp.108-109, pp.231-232. Ma si vedano anche annotazioni e riflessioni in Id, Quaderni e Diari, 1950-1973, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2007. Cfr. S.Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp.318-322..Si veda, infine, per un’interpretazione di Machiavelli sulle tracce di quella arendtiana, F. Focher, Libertà e teoria dell’ordine politico. Machiavelli, Guicciardini e altri studi, Milano, Franco Angeli, 2000.

[2] G.Ferroni, Machiavelli o dell’incertezza, Roma, Donzelli editore, 2003, pp.113-131.

[3]H.Arendt, Che cos’è la politica, a cura di U.Ludz, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, p. 5.

[4] N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di C.Vivanti, Torino, Einaudi, 2000, p.7.

[5] Ibidem, p.123.

[6] N. Machiavelli, Dal Principe, commento e illustrazione di Enzo Ferranti, II Edizione, Milano, Società Editrice Dante Alighieri, 1965, capitolo VI.

[7] N. Machiavelli, Discorsi, cit., p.33.

[8] H. Arendt, Che cos’è l’Autorità”, cit., pp.165-167.

[9] Ivi, p.167.

[10] H.Arendt, Che cos’è l’autorità, cit., p.185.

[11] Ibidem, p.189.

[12] H.Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p.35.

[13] N.Machiavelli, I Discorsi, I, 2,  cit., p. 12.

[14]Ivi.

[15]H.Arendt, Sulla violenza, trad.it. di S. D’Amico in Politica e menzogna, Milano, SugarCo, 1985, pp.204-205.  Cfr. J.P.Sartre, Sulla violenza in Quaderni per una morale, a cura di F. Scanzio, Roma, Edizioni Associate, 1990, pp.168-211.

[16] H.Arendt, Che cos’è la Politica, trad.it. di M.Bistolfi, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, p.85.

[17] H.Arendt, On Revolution, Penguin Books, New York, 1990 (I ed. Viking Press, 1963);tr. it.di M.Magrini, Sulla rivoluzione, Milano,  Edizioni di Comunità,1989, pp.241-242.

[18] H.Arendt, Che cos’è la politica, cit.,p.26.

[19] Le Lectures su Il Principe tenute da Hannah Arendt per il corso sulla Storia delle Teorie Politiche all'Università di Berkeley nel 1955 sono tuttora inedite. La studiosa tedesca tenne negli Stati Uniti altri corsi: nel 1961 a Wesleyan,  a Cornell nello Stato di New York quattro anni dopo nel 1965, tutti ancora oggi inediti – dal titolo, From Machiavelli to Marx,  conservati manoscritti alla Library of Congress di Washington, e in Germania, all'"Hannah Arendt Zentrum" di Oldenburg. L'originale delle lezioni su Il Principe del 1955, si presenta in parte dattiloscritto, con alcun i brani riscritti a mano. Non si tratta perciò né di un corso scritto in anticipo, né di un discorso a braccio, ma di semplici appunti presi dalla studiosa nell'intento di svilupparli oralmente. Scrive Hannah Arendt: “Per Machiavelli si è rivelato decisivo l'aver trovato un unico termine per rinviare a entrambi, "e questo termine è lo Stato". Per inciso, queste lezioni su Machiavelli anticipano in forme sostanzialmente identiche le pagine di The Human  Condition e di On Revolution e nel saggio What is Authority? A partire dal primo capitolo del Principe, Hannah Arendt in queste lezioni ci dà un'interpretazione della nozione di Stato in Machiavelli, in rapporto alla concezione classica della teoria dei governi, per approdare a una particolare valutazione del giudizio che egli dà sulla Chiesa come potere temporale e sul Cristianesimo in quanto sistema dei valori.

[20] H.Arendt, Machiavelli, (Lectures su Il Principe , 1955), Hannah Arendt-Zentrum di Oldenburg, reproduced from the collections of the Manuscript Division, Library of Congress di Washington, cit., p.024020. La traduzione è mia.

[21] Ivi.

[22] Ivi.

[23] H.Arendt, Che cos’è la politica?, cit., p.26.

[24] Cfr. T.Serra, L’autonomia del politico. Introduzione al pensiero di H.Arendt, Teramo, Facoltà di Scienze politiche, 1984. Questo volume è una delle prime organiche sintesi del pensiero politico arendtiano uscito in Italia. L’Autrice  evidenzia in molti passaggi come l’Arendt non affronti in maniera coerente il problema della costituzione della comunità e della sua connessione col momento istituzionale (pp.92-93).

[25] Ibidem, p.024021.

[26] Ibidem, p.024018.

[27] Ivi.

[28] Cfr.C.Valléè, Hannah Arendt. Socrate e la questione del totalitarismo, traduzione  e cura di F.Fistetti, Bari, Palomar, 2006, p.123-124. «Introdurre i valori della vita privata nella sfera politica significa distruggerla: Machiavelli si è preoccupato di una politica capace di sviluppare un’etica a essa conforme. Tuttavia la Arendt rifiuta il realismo della efficacia: la sua politica si fonda su due principi – quello della condivisione della terra e quello della solidarietà. Il fine non giustifica mai i mezzi. La opposizione tra politica e violenza è una costante della sua riflessione: il potere, sempre politico, si fonda sul numero, la persuasione, lo scambio di opinioni; la violenza, sempre antipolitica, si fonda sulla forza e sul dominio, in quanto le mancano la potenza del numero e il consenso del popolo».

[29] Ibidem, p.024019.

[30] Ibidem, p.024026.

[31]H.Arendt, Che cos’è la politica?, cit., p. 83.

[32] H.Arendt, The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 1958; introd. di A.Dal Lago, tr.it. di S.Finzi, Vita Activa, Milano, Bompiani, 1994, p.27.

[33] H.Arendt, Che cos’è l’autorità, cit., p.186.

[34] N.Machiavelli,  Dal Principe, cit., p.208.

[35] H.Arendt, Vita activa, cit., p.56. Il passo si trova nell’ultimo paragrafo del capitolo secondo dedicato alla distinzione tra lo spazio pubblico e la sfera privata. Cfr. inoltre, Id, Che cos’è la politica, cit., p. 48: «Ma la bontà ha la caratteristica di doversi nascondere, di non potere apparire quale essa è».

[36] H.Arendt, Machiavelli, cit., p.024018.

[37] Ivi.

[38] H.Arendt, Il futuro alle spalle, trad.it. di V.Bazzicalupo e S. .Muscas, Bologna, Il Mulino, 1995, pp.134-135. Inoltre, in una pagina di On revolution, op.cit. l’ Arendt non esita a concettualizzare la nozione di bontà dialogando con Melville, Dostoevskij, Kafka o Brecht  e giunge  ad affermare  che se si vuol comprendere «la nozione di bontà per il corso delle vicende umane è meglio forse che ci rivolgiamo ai poeti» p.87. Per un confronto Machiavelli-Brecht si veda L.Althusser, Machiavelli e noi, Roma,  Manifestolibri, 1999.

[39] H.Arendt, Vita activa, cit.,p.55.

[40] In un appunto del febbraio 1955 che ricaviamo dai Quaderni e diari, 1950-1973, (Denktagebuch), op. cit, Arendt scrive: «Machiavelli insegna “a potere essere non buono”, poiché la“bontà” si nasconde, si ritira dalla sfera pubblica, “fiorisce”  in segreto ecc. Nel momento in cui vivo “pubblicamente”, non esiste più la “bontà”, e l’antichità non la conosceva» (p.438). Si veda anche, A.Heller, Etica generale, trad.it. di M.Geuna, Bologna, Il Mulino, 1994, in particolare il cap. 10: “La bontà, la cattiveria e la malvagità”, pp.279-299.

[41] H.Arendt, Vita activa, cit., pp.53-57.

[42] Ibidem, p.54.

[43] Ibidem, p.55.

[44] Ibidem, p.56.

[45] Ibidem, p.56.

[46] H.Arendt, Responsabilità e giudizio, a cura di J.Kohn, trad.it. di D.Tarizzo, Torino, Einaudi, 2004,  pp.68-69.