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Notizie dall'Africa: la globalizzazione in un paese localizzato

«Io ti faccio del male
proprio perché ti amo»
da
Io ti faccio del male di Claudio Lolli

 

Introduzione: casi di cronaca

Le notizie che giungono dal continente africano non sono molto varie e hanno un carattere perlopiù disperato: sappiamo delle fughe di massa (una nuova diaspora, come qualcuno le ha appellate) perché riguardano direttamente le nostre coste, una situazione di politica interna (che dovrebbe essere estera) di difficile gestione; sappiamo dei sequestri che coinvolgono personale occidentale di Ong o altre organizzazioni di soccorso; di qualche attentato che, oltre ad attaccare la popolazione locale, fa partecipe sporadici gruppi di turisti europei; infine, delle guerre, che son molte nonché, alcune, infinite, ma a noi giungono i fatti eclatanti che portano a grandi spostamenti di fette di popolazione, genocidi, condizioni di immiserimento estremo sino alla necessità di portare aiuti umanitari dall’esterno, campi di raccolta, di prima necessità, ovvero appezzamenti coltivati a tendaggi, masserizie in attesa nella polvere, bimbi nudi con le mosche appiccate al labbro. Quest’ultimo quadretto richiama la tetra realtà degli slums, le baraccopoli che non sono di matrice esclusiva africana ma che il grosso continente condivide democraticamente con le altre disgraziate aree della terra. La realtà degli accampati, come fossero perennemente in una situazione di smottamento, di pericolo, di fuga.

La cronaca più prossima, poi, ci ha raccontato di incresciosi accadimenti nelle zone settentrionali del Sudafrica, la nazione dell’arcobaleno, a ridosso dei confini con lo Zimbabwe, retto da più di un ventennio da Mugabe (che, recentissimamente, abbiamo visto ingollarsi una sorta di tiramisù durante il festeggiamento dei suoi 85 anni1), in seguito allo spostamento di masse in fuga dal suddetto stato dopo l’ennesima rielezione del presidente ad infinitum.

Salendo verso l’alto del continente, qualche tempo addietro ci giunsero notizie dal fronte nigeriano riguardanti gruppi famigerati di estremisti di non si sa ben quale area politico-ideologica (Mend2), i quali si aggiravano per la zona del delta del Niger sequestrando ingegneri delle compagnie petrolifere operanti laggiù: capitarono tra questi anche dei cittadini italiani dipendenti dell’Agip, ed eccoci servita la notizia. Il Mend vive e prospera tuttora, come il petrolio estratto dalle melme infestate di zanzare, ma sulle cronache occidentali è in pensione (e in quelle locali in aspettativa).

Verso est, abbiamo sentito parlare del Kenya, solita vecchia storia da Africa o da terzo mondo in generale: si avvicinano le elezioni e scoppia il putiferio. Si è giunto alla pacificazione delle due parti politiche contendenti con tanto di firme sotto gli obbiettivi dei fotografi, e i villaggi vacanza di Mombasa se la sono cavata.

Antananarivo, capitale del Madagascar, paradiso in terra per turisti e faccendieri: la folla scende in piazza a sostegno dell’ex sindaco della capitale autoproclamatosi nuovo presidente della nazione (certo non con metodi democratici) in opposizione all’attuale reggente chiaramente non molto ben voluto. La polizia apre il fuoco, una carneficina3. Sembrano notizie di almeno 50 anni fa, memori di Sharpville e Soweto, e invece datano il presente.

Ancora, le “insistenti” notizie che giungono dal Corno d’Africa: pare che in Somalia siano tornati i pirati, vagano nelle acque attorno a Mogadiscio, arrembano navi cargo di passaggio, sequestrano, distruggono, chiedono riscatti. A terra, invece, rapiscono e uccidono: sono i cosiddetti Signori della guerra (Warlords, o Lords of war; il fenomeno è chiamato dagli anglosassoni Warlordism).

Per chiudere, il tribunale internazionale dell’Aia condanna il presidente del Sudan Omar al-Bashir4 per crimini di guerra e contro l’umanità per l’insostenibile situazione venutasi a creare nel Darfur, ma questi si fa beffa del verdetto e sfida la comunità internazionale ad andarlo a prendere, dichiara illegali e illegittime tutte le organizzazioni straniere operanti sul suolo sudanese. Nel giro di pochi giorni vengono attaccate le Ong, sequestrati alcuni operatori europei, e Médecins sans frontières è costretta al ritiro. Il Darfur, che nell’immaginario dei bambini occidentali di oggi potrebbe sostituire quello che rappresentava il Biafra per i coetanei degli anni ’70, fa parlare di sé nel momento in cui si muovono l’alta istituzione dell’Aia e i volontari di pelle bianca.

 

Caso 1: orgoglio o spocchia?

Partiamo proprio da quest’ultimo fatto di cronaca. Soprassedendo sulla colpevolezza dell’attuale presidente del Sudan (il tribunale internazionale ha sentenziato), ci si pone degli interrogativi sulla sua reazione: sino a che livelli essa è legittima? Per l’arido stato africano non ha alcun valore la voce che si ingrossa dal cuore dell’Europa ed emessa da un nugolo scelto, esperto e vario (internazionale) di togati?

La Corte Penale Internazionale (ICC) viene istituita in seguito ai gravi fatti dell’ex-Jugoslavia prima, e del Rwanda poi (1991-94), ma prende effettivo statuto solo nel 2002 perché vi è voluto il tempo necessario al che venisse riconosciuta dalla comunità internazionale (a tuttora la metà delle nazioni indipendenti nel mondo). In questi pochi anni, il tribunale ha aperto quattro inchieste; tutte riguardano il continente nero, eppure di guerre nel mondo ce ne sono da perderne il conto. A ben vedere, l’Aia si occupa di quelle situazioni di critica (con connotazioni criminali) stabilità interna laddove non è intervenuto l’esercito dell’ONU o di altri stati sovrani forti, quali gli Stati Uniti d’America, l’Inghilterra, la Russia, etc. USA e Russia sono tra i paesi che non hanno riconosciuto l’autorità dell’Aia (altra grande potenza è la Cina), prospettiva inquietante nell’ottica dell’equilibrio mondiale che si vede, oggi, nella figura di un triangolo scaleno: a un angolo gli USA, a un altro la Russia-Cina (solo per posizione geofisica), al terzo l’Europa. Tutto il resto del pianeta in trepidante osservazione.

Tornando al Sudan, anch’esso non figura tra gli stati che hanno riconosciuto l’Aia. Con questo sapere, è più facile analizzare il rifiuto di al-Bashir. Cosa succederebbe se il presidente della Repubblica Italiana venisse accusato e condannato da un tribunale speciale istituito dalla Lega Araba, per aver frodato non solo le casse nazionali ma anche i fondi bancari svizzeri, notoriamente fonti intra-nazionali di sostentamento, e per giungere nel suo bieco scopo avesse fisicamente eliminato un gruppo di nemici che, guarda caso, sono tutti italiani ma di origini ebree? Il già nutrito gruppo di nemici finanzieri si è andato allargando, per osmosi emotiva popolare, a una vera e propria caccia antisemita, sino a tingersi di genocidio (così imputerebbe il suddetto tribunale arabo). Ovviamente, si ragiona per assurdo (mai gli arabi si muoverebbero in difesa degli ebrei, non allo stato attuale, almeno): cosa succederebbe se ciò avvenisse? La sovranità italiana accetterebbe di consegnare il proprio presidente, vile e meschino, all’autorità dell’Arabia Saudita o di Dubai (perché lì avrebbe sede suddetto tribunale)? Gli ebrei eliminati avrebbero tutti cittadinanza italiana, quindi si tratterebbe di una questione di politica interna: perché l’Italia, paese culturalmente e profondamente occidentale, dovrebbe consegnarsi nelle mani del volere di una comunità internazionale araba e musulmana? (La quale opera su base esclusivamente filantropica).

Questi interrogativi ci portano nel cuore della distinzione e della caratterizzazione culturale sin del più piccolo stato, che potrebbe essere l’Andorra come il Tibet come le Isole Tonga. Ciò che hanno fatto da spartiacque nella coscienza politica (non economica) planetaria sono di certo le due guerre mondiali, e in particolar modo la seconda in quanto ha ribadito il concetto del bisogno di una maggiore stabilità per migliorare le condizioni di vita generale e per far prosperare il mercato. E gli orrori di tali guerre hanno introdotto definitivamente l’idea dei diritti umani, valore imprescindibile da difendere e preservare. Purtroppo, gli eventi della storia degli ultimi sessant’anni hanno ribadito la necessità del consolidamento di certi ideali, tra i quali eventi è da annoverare non tanto gli eclatanti casi di genocidio o persecuzione politico-religiosa di matrice spudorata e diretta, quanto quel fenomeno che è stato designato col nome di neocolonialismo. L’asservimento di popoli sotto l’egida dell’FMI (il Fondo Monetario Internazionale) ha portato a degli scompensi, già introdotti dal colonialismo vecchia maniera, che difficilmente saranno sanati negli anni a venire. Tra questi, oltre al ben noto depauperamento dei tre quarti del pianeta a vantaggio della parte restante, si può contare quello che il mondo anglosassone definisce melting pot, ovvero l’effetto di mescolamento di razze e culture sino agli enormi flussi migratori, all’ordine della cronaca quotidiana, verso le aree agevolate del pianeta. Tutto questo, al di là di una connotazione più appropriatamente economica, viene accettato sotto la definizione di globalizzazione. Per quanto possa costituire, nella coscienza popolare e di gran parte delle élite, un lieto ed auspicabile evento che ha condotto ad abbondare vecchie categorie come quella di “razza” o a rivederne altre quali “identità”, “appartenenza”, sino a mettere in gioco le idee di “nazione”, di “confine”, di “separazione”, e a rifondare i concetti di “integrazione”, “tolleranza”, etc., il fenomeno ha portato con sé nuove problematiche legate alle nozioni appena accennate, ma soprattutto ai loro opposti. Ci si è accorti, in Europa, che la convivenza non è facile e porta a scompensi nuovi; in altre zone del mondo l’accorgimento, invece, è giunto ben prima. Scrive lo scrittore Ngugi Wa Thiong'o in un saggio pubblicato sulla rivista Geo nel 1989 che «solo molti anni più tardi mi sarei reso conto che chapati, paratha e curry erano d'origine indiana e venivano utilizzati anche nelle feste indu come il Divali, la festa delle luci, celebrata dai bambini indiani di Limuru5 con fuochi artificiali»6; per un individuo cresciuto in un paese di massiccio spostamento di manovalanza indiana (nonché di presenza di colonialisti inglesi), i pattern culturali sono dissolti tra loro in un unicuum indistinto, fino a che la ragione sviluppata nella crescita non analizza e distingue. «Questa era l'Africa orientale. Un caleidoscopio di colori, culture e profili storici»7, in cui i vicini di casa si potevano chiamare Juma, Abdi, Omali, Amina (nomi indiani e arabo-musulmani), oppure John, Peter, Samuel, o ancora, più comunemente, Kamau, Onyango, Mulwa o Akinyi (nomi kikuyu).

Il Kenya multietnico confina a nord-ovest col Sudan, paese dell'estremo entroterra, in gran parte desertico, rimasto arretrato e chiuso, quasi interamente islamizzato, quindi poco mischiato, se si prescinde dalla notevole quantità di etnie e lingue presenti in quelle zone, cioè non tutta l'Africa è un calderone multiculturale. E qui torniamo ad al-Bashir che non si vuole arrendere e, provocatoriamente (almeno, dal punto di vista dell'Aia), sfida l'ordine mondiale, e lo fa con l'appoggio dell'Unione Africana e della Conferenza Islamica8. Ci si trova di fronte a concezioni differenti, opposte, ugualmente imponenti e schiaccianti, incuranti dei diritti umani e del rispetto delle culture: a quale dare ragione, ma, soprattutto, quale il motivo di tanto ostentato orgoglio che sembra più una prova di forza? Può essere solo per il fatto che, in quella landa del mondo, non ci si identifica con la visione occidentale, quindi i valori, il metro di misura, sono altri? Non avviene forse così anche in Cina?

 

Caso 2: pirateria o resistenza?

Abbiamo accennato al caso del Mend in Nigeria e della pirateria in Somalia. Cosa succede laggiù? Davvero sono tornati i pirati? Oppure sono mercenari al soldo di più grandi influenze?9 Lasciando da parte la disperata situazione del delta del Niger, che richiederebbe un ben più nutrito apparato a fianco, la Somalia si è affacciata al nuovo millennio con l'onta d'essere una delle zone più disgraziate e maggiormente invivibili dell'intero pianeta. La guerra civile impazza da parecchi anni, l'area del Corno d'Africa è altamente instabile e pare non trovare una via d'uscita. «La guerra civile è così, arbitraria, gratuita nell'ingiustizia, casuale nell'accidentalità della violenza. Non c'è legge che offra protezione; tutto è in disordine»10. Perché un tale inferno in terra? Nuruddin Farah, la penna somala di maggior fama internazionale, ne tenta un'analisi nel suo ultimo romanzo, Knots. La solita eroina femminile (Farah è noto anche per aver dato voce alle donne) torna a Mogadiscio dopo essersi occidentalizzata a Toronto, Canada. Trova un paese piegato dalla guerra, desolato, disperato, in preda ai signori della guerra, sorta di imponenti boss mafiosi che, sotto il protettorato dell'appartenenza ai clan e della bandiera a mezza luna, si fan beffa della popolazione e di qualsiasi opposizione. Cambara (l’eroina) arriva a Mogadiscio in fuga da un cupo passato che la vede separata dal marito e in lutto per la perdita del figlio. Nella città somala nota una gran quantità di bambini, molti armati, assoldati dalla milizia guerrigliera o semplicemente soldati fai-da-te, tra cui il soprannominato CapelliSetosi e Gacal, due ragazzini che per età le rammentano il figlio, due ragazzini molto diversi tra loro, il primo cresciuto selvaggio, nella miseria, senza una famiglia, l’altro di buone maniere, in cerca della madre che gli ha profuso affetto sin dalla nascita. Farah architetta questa contrapposizione per trattare, in un romanzo di dostoevskjiana ambizione, del problema educativo, sovrapponendo platonicamente l’individuo alla società, passando le conclusioni sull’uno a un’olistica visione sull’altra. Perché Mogadiscio (e l’intera Somalia) è in mano al banditismo? Per quali motivi, apparentemente, non si riesce ad uscire da un’impasse che dura da troppo tempo?

Siad Barre, capo assoluto del paese dal 1969 al 1991, costretto all’abbandono da un popolo esausto lascia la Somalia in preda al delirio, ovvero allo scontro di milizie avversarie che ancora oggi non vede la prevaricazione di una parte sull’altra sino a un possibile acquietamento della situazione. E un paese che vive in maniera perpetua l’instabilità politica, il terrore quotidiano, l’orrore della guerra e le difficoltà della miseria non può che crescere i propri figli lunga una direttiva deviata verso lo sfacelo. Cambara osserva CapelliSetosi armeggiare impacciato ma disinvolto l’arma più grossa di lui, comportarsi da milite maldestro e destreggiarsi tra i compagni di “lotta”, più o meno coetanei, con ostentato machismo, e «non crede che suo figlio Dalmar avrebbe mai fatto una cosa simile. Senza dubbio la situazione di Dalmar e quella di CapelliSetosi sono diverse: uno era cresciuto a Toronto in una casa traboccante d’amore, l’altro è nato in un’immensa terra desolata, piena della cupezza della guerra civile»11. Una società corrotta, malsana, senza impostazioni morali solide non può che corrompere il cittadino che, a sua volta, intriso di deviata educazione, andrà a minare la comunità, in un circolo vizioso senza fine, almeno al punto in cui la volontà non si intrometterà per scardinare il disordine costituito. Valori fondamentali di una società sono, secondo Farah, il lavoro, la vita onesta e la pace. L’Africa difetta di tutte e tre: non ha lavoro perché il continente, per scelta d’altri, è cambiato, ha subito l’imposizione di strutture di governo ad esso aliene, la crescita del settore secondario, e del terziario poi, ha ingrossato a dismisura le città spopolando le campagne, il risucchiamento nell’ordine economico mondiale ha scardinato le piccole economie locali azzerando, di fatto, le possibilità di autosostentamento, e da qui la necessità di migrare e lasciare, così, le proprie terre in preda alla povertà; non ha vita onesta perché la corruttela è incuneata nell’apparato statale e burocratico, probabilmente perché i sistemi di governo, di stampo occidentale, non si confanno all’applicazione locale, e 50 anni di indipendenza dovrebbero far riflettere su tale inadeguatezza; non c’è pace come conseguenza della mancanza dei primi due valori, e l’Africa si trova così a vivere perenni focolai di rivalità che, una volta spenti qui, si riaccendono là, per tornare qui.

Nella sua visione, Farah non sembra tanto avere a mente un particolare modello politico, ma non può esimersi dal guardare ad Ovest dove, dopo le famigerate guerre mondiali che hanno dilaniato il Vecchio Continente, sembra, pur tra mille difficoltà e dibattiti, mantenersi un clima di stabilità e di pace tanto da poter permettere di dire, ad esempio, al 75-80 % della popolazione italiana oggi di esser nata e cresciuta in un clima di relativa e accettabile pacificazione. Per il continente africano è difficile stilare dei dati, ma sicuramente la percentuale è specularmente invertita ed abbassata. La privazione di mezzi, di educazione, di benessere costringe l’individuo alla sopravvivenza, e sopravvivenza significa sopraffazione, prevaricazione, sfruttamento, imbarbarimento. Con una buona immagine, Farah ci dice che «i neonati piangono fino a farsi dolere la gola quando hanno fame, ma dopo aver succhiato abbastanza latte dal seno materno, mordono giocosi il capezzolo e poi ridono. Non fanno così prima di essersi riempiti lo stomaco. Dopo, giocherellano con il cibo, lo sputano, lo rovesciano»12. La migliore predisposizione d’animo, sia dell’individuo che della società, viene qualora subentra la soddisfazione, secondo una ben radicata teoria pedagogica che fa di questa il precetto dell’integrazione e della tolleranza: nessuno teme di essere surclassato o derubato dal vicino nel momento in cui esso è nella medesima buona condizione; chiunque, di contro, si barrica e si difende dal prossimo nella medesima condizione, ma di povertà. Allo stesso modo, Farah illustra la concezione del sesso nell’islamismo ortodosso che si è imposto negli ultimi decenni in Somalia e non solo, come il risultato di una proibizione: «(…) l’islam rende il sesso molto eccitante: tutto quel velarsi, quel nascondersi, quell’affannarsi per cogliere una visione fugace di ciò che è celato; lo sguardo fintamente pudico della donna coperta, il comportamento civettuolo e invitante. L’essere scoraggiati dall’incontrarsi da soli con una donna in una stanza, a meno che lei non sia una moglie o una sorella… Benché molti le considerino impedimenti, queste cose in realtà deificano l’idea del sesso, lo trasformano in qualcosa di difficile da ottenere e quindi ancor più desiderabile»13. La concezione del proibizionismo promuove, invece di annichilire, l’istinto del possesso, e lo fa nella maniera più subdola e inumana, così come avviene per l’individuo socialmente e politicamente negato. «Forse è nella natura di chi è privato del sesso o non lo fa abbastanza spesso esserne tanto ossessionato da vedere tutto attraverso questa lente distorta»14, e tale, distorta, deviata, è la condizione del misero, di colui che arranca e odia il proprio simile, forse perché gli ricorda la propria sfortuna, o più probabilmente perché sa che è un potenziale avversario nella corsa per la sopravvivenza. Infine, lo scrittore somalo arriva a chiedersi «(…) che razza di società costringe le persone a rifugiarsi nella falsità, a usare una tazza per mascherare la natura di quello che bevono [in una precedente scena, Cambara partecipa a un rinfresco con sole donne, la gran parte velate dalla testa ai piedi anche se sotto indossano jeans e calzano scarpe col tacco, le quali bevono alcol in recipienti soliti ad accogliere tè o acqua] e a dare valore a un mito di loro invenzione, in forza del quale assassinano i vicini?»15; da dove viene tanto odio per il rispetto dell’altro? Perché imporre?

Farah fa anche notare lo spreco dell’abbondanza, cioè il neonato, dopo che è satollo, gioca col cibo, lo butta, lo rovescia, incurante del valore del bene. Questa è l’estrema offesa, immorale, del benessere. Eppure, tra i due estremi ci deve essere una via di mezzo, una strada che educa il cittadino alla tolleranza dandogli i mezzi per tollerare, ovvero senza fargli mancare pane e libertà, e senza cedergliene troppo. Tant’è che Farah, nel domandarsi sul male che affligge oggi la Somalia, arriva quasi a rimpiangere il potere forte di Siad Barre, quel Siad Barre che tante volte aveva avversato tramite i suoi romanzi, perché la debolezza morale prende piede quando questo vacilla, come è successo, per esempio, negli ex paesi del socialismo reale, e l’infamia si esplica attraverso la sporcizia, concreta e morale a un tempo, perché «solo una società corrotta sopporta di vivere in un tale lerciume, soprattutto gli uomini che restano indifferenti allo schifo che producono, quasi che la sporcizia si creasse e si moltiplicasse da sola. Nessuna donna dotata dei mezzi per intervenire tollererà mai tanto sudiciume. Sua madre [di Cambara] ha sempre detto che essere puliti è una scelta»16.

Una scelta. Farah concepisce l’uomo moralmente, come contenitore di valori e idee, per il quale la rettitudine gli fa mostrare che contiene vino se esso è un calice, mentre inganna e si traveste da tazza da tè se è eticamente un codardo; ma la vigliaccheria è scevra da colpa se viene impartita dall’alto, se Stato, famiglia, società, clan non fanno altro che insegnare questo. Il lerciume è una ruota che non si ferma, ma bisogna trovare il modo per farlo.

 

Caso 3: gli aiuti umanitari

In un mondo dalle piccole distanze, quello che succede dall'altro capo pare toccarci da vicino. È così? Sta di fatto che l'Africa è fittamente incastonata di organizzazioni non governative, associazioni religiose, missionariati, opere a fin di bene, progetti allo sviluppo con lo scopo di far ergere il continente dalle ginocchia. Quante volte abbiamo udito la notizia che qualche appartenente a tali organizzazioni è incappato in scippi, rapimenti e agguati? È ingratitudine? Perché l'Africa, così bisognosa, pare avversare i gesti caritatevoli da parte dell'Occidente?

Proprio di ora, mentre si scrive, è la notizia del rapimento di un ingegnere italiano in Nigeria17, così nel 2006 e 2007. Un ingegnere non è un militare, non ha scopi politici ma semplicemente quello di fare il proprio mestiere anche se in una terra straniera. Allora, perché prendersela con lui? Eppure, il nostro ingegnere ha una valenza politica, direbbe Pasolini. Non è fuori dal mondo, non da un tessuto sociale internazionale, come può esserlo qualsiasi cittadino di qualsiasi paese, tant'è che i “pirati” agiscono spesso sui turisti. In più, il nostro ingegnere è, suo malgrado forse, un portabandiera: sorregge l'asta della grande multinazionale che può avere fondazione americana, italiana, francese o inglese, ma non di certo nigeriana. Per capire meglio è utile pensare a se stessi: durante l'altro grande periodo storico motivo di orgoglio oltre il Rinascimento, l'Italia risorgimentale (l'Italia del nord) ha subito l'invasione austriaca, invasione vista come sopruso, coercizione, cancro da estirpare, tanto che alla lunga il popolo e le istituzioni sono insorti nella cacciata del nemico. Quella era un'occupazione militare, che non è il caso della Nigeria, e proprio qui si pone la differenza che non differenzia, ovvero il passaggio dal colonialismo (militarizzato, di occupazione fisica e diretta, di imposizione di leggi e regole) al cosiddetto neocolonialismo (invasione indiretta, di stampo economico, culturale). Sotto questa luce, il nostro ingegnere è un neocolono pronto a fare gli interessi della propria compagnia (quindi dello stato di appartenenza) a discapito, anche contro la sua volontà, della popolazione locale. Il gruppo ENI ha cercato, anzi, di farsi accogliere benevolmente, dando servizi alla gente, promuovendo l'educazione e la cultura locale. In Italia, alcuni grandi autori nigeriani quali Achebe e Soyinka è possibile siano letti grazie alle traduzioni della Jaca Book e alla diffusione e promozione dell'Agip18. Belle azioni coronate di belle parole. Intenti nobili. Se andassimo ad analizzare l'indirizzo politico mondiale inaugurato da Bill Clinton, pur interrompendo l'egemonia repubblicana degli ultimi vent'anni, ci accorgeremmo che altro non è se non il blasonamento della carità cristiana ammessa come principio basilare nelle costituzioni democratiche delle nazioni occidentali moderne. È una forma mentis, aiutata dal precetto economico, che va ad indirizzare la gestalt e il behaviorism.

Per tornare alla Nigeria (al Delta del Niger) e all'opera nobile del gruppo ENI (per dirne uno tra le tante multinazionali che operano sul territorio), se andassimo a constatare coi nostri occhi le condizioni di vita della gente di quelle zone, vedremmo la distruzione, l'impoverimento estremo, la condizione di inaccettabile indigenza in terre impaludate mai bonificate (non sarebbe stato questo un concreto aiuto?)19. La politica del sorriso20 ha aiutato il mercato, non tanto l'inseguimento dei diritti umani. Clinton, purtroppo, non ha risolto la situazione israelo-palestinese sui prati ben curati di Camp David (infatti, non c'è commercio con quelle zone) perché il problema è ben più grande e serioso da essere risolto con una risata e una stretta di mano.

Ora, la globalizzazione ci ha permesso di assaporare a prezzi stracciati il pesce proveniente dal lago Tanganyca, di telefonare a Boston a costi ridottissimi, di essere la mattina a Tangeri e la sera a Seoul, di aprire conti correnti in banche svedesi e di firmare accordi per qualsiasi genere di attività e scambio commerciali (l'invasione economica cinese tanto sentita in Europa riguarda oggi, soprattutto, l'Africa21), ma non di smorzare gli attriti internazionali e interni di certi Stati, né di distribuire equamente le risorse. «Che cos'è la globalizzazione se in una parte del mondo il salario mensile medio è di 10 dollari e in un'altra di 2000? Cosa vuol dire questa parola se qualcuno si ammala per l'eccesso di cibo e qualcun altro muore di fame?»22

 

Caso 4: gli aiuti umanitari 2. Di nuovo su Farah

Tra le pagine che più rimarranno nella storia della letteratura africana moderna sicuramente troveremo quelle dedicate all'articolo per pugno del giornalista Taariq sul quotidiano per il quale lavora. Duniya, moglie (ex, per quanto possa accettarlo la società somala) di Taariq, apre il giornale e legge. Titolo: “Dare e ricevere: il concetto di donazione”. Più che un articolo di Taariq, il brano tratto da Gifts (1993), è un manifesto politico per voce di Nuruddin Farah. Lo scrittore, come dichiarato in apertura del romanzo, si richiama al famoso saggio, perla della letteratura antropologica, di Marcel Mauss, Essai sur le don (1923), e, forte delle teorie dell'antropologo che trova effettivamente applicabili nel contesto africano e che tanto si distanziano dall'idea di dono occidentale, reimpasta il famoso saggio per tranne conclusioni sulla situazione in cui versa il continente nero. In una recensione, apparsa sul Corriere della sera del 14 aprile 2009, all'ultima raccolta di versi di Mario Luzi, Domenico Iannaco si riferisce alla poesia del poeta fiorentino come «“spontanea”, nel senso che si dona», secondo la concezione cristiana della Grazia di Dio, così come la concepisce Derek Walcott contrapponendola alla venuta del Bounty (la nave del capitano Bligh) nel poema che porta lo stesso titolo. Il concetto teologico di grazia divina è un valore portante della cultura occidentale, tanto da imbrigliare la visione di ognuno di noi sino a condizionarne usi e costumi, pur nelle sue variabili applicazioni. L'idea forte di essere nel giusto, spinge al dovere cristiano di condividere, di donare, di prestare soccorso a coloro ritenuti caduti nel male o deviati dalla retta via. Farah ci racconta, invece, della tradizione del Qaaraan presso le popolazioni somale, ovvero dell'uso di dar sostentamento, in denaro anche, a chi è nel bisogno. È una prassi che avviene in casi straordinari, di particolare indigenza, e in forma anonima, di modo che la gratitudine ricada sulla comunità e non sul singolo individuo o sulla singola famiglia, o clan, o associazione. Lo scrittore somalo, attraverso la voce di Taariq, tiene a precisare che tale stato di emergenza, che smuove il qaaraan, è «una condizione una tantum, non una scusa annuale per alzare il tiro delle richieste di aiuti»23. Nella dichiarazione di Farah vi è una accusa bilaterale: da un lato la politica estera di espansionismo occidentale che tende a dare anche quando non viene chiesto, dall'altro la mancanza di dignità dei governi africani che non esitano a domandare oltre il necessario, prostrandosi alla comodità dei regali che li rende, alla fine, schiavi, contravvenendo alla propria tradizione che vieta di eccedere, quindi spersonalizzandosi, smarrendo l'integrità culturale verso una schizofrenia collettiva e individualmente psicologica tante volte denunciata da Wole Soyinka. Taariq, il nostro giornalista, riporta l'affermazione di un leader dell'Africa orientale secondo la quale «i paesi sviluppati hanno il dovere di aiutare il nostro continente. Il dovere? E perché mai?», si domanda Taariq, «Cosa gli fa pensare che gli africani godano di un diritto di possesso nei confronti delle proprietà altrui?»24

Per quanto possa contrastare l'idea corrente di aiuto, quasi inaccettabile per qualsiasi individuo di formazione cristiana (intriso di carità, nessuno riuscirebbe ad affrontare la vista di gente che soffre con l'indifferenza), con la convinzione di pasturare il bene si alimenta il male. Ragionando: se, passeggiando per strada, incappo in un uomo a terra sanguinante, lo soccorro? Lo soccorro a prescindere o attendo la sua richiesta di aiuto (sempre che l'uomo sia in grado di chiedere aiuto, che non sia svenuto o, addirittura, morto – ma, in questo caso, verrebbe meno l'utilità del soccorso -)? E, nel caso l'uomo avesse capacità di intendere e di volere, una volta che l'aiutassi, lui rifiutasse i miei soccorsi scacciandomi malamente, facendomi capire che sto invadendo un suo spazio, non lo vedrei, tale gesto, come un atto di ingratitudine? Di conseguenza, non arriverei quasi ad odiare un poveraccio che non si è lasciato aiutare e per di più non ha un senso civile di riconoscenza? Ecco, nel rapporto col cosiddetto Terzo Mondo capita più o meno questo. Se l'Occidente volesse veramente dare un aiuto a tali popolazioni, meglio sarebbe investire denaro per promuovere, ad esempio, referendum con l'intento di testare la reale volontà del popolo, al di là degli accordi internazionali stipulati da governanti con l'unico ideale della corruzione e dell'arricchimento privato. A questo punto, l'Africa potrebbe trovarsi in ginocchio, allo sbando totale, nell'indigenza più nera. Ma non è forse da qui che potrebbe, autonomamente, risollevarsi? E, di contro, non versa forse oggi nella medesima condizione?, con la differenza che tale condizione è perpetua, senza vie di uscita, proprio grazie all'alimentazione da parte di organizzazioni ricche occidentali e regnanti interni senza scrupoli, così come fa la benzina gettata sul fuoco.

«Ogni dono ha una sua personalità: quella di chi lo fa. Ogni sacco di riso donato da un governo straniero a un popolo africano reca la traccia indelebile delle caratteristiche e della mentalità del paese donatore, con tanto di nome e indirizzo»25. Per la medesima causalità, per un senso di orgoglio oltre i limiti, Duniya, eroina del romanzo di Farah, si trova più volte a rifiutare i doni offertogli da Bosaaso, il suo spasimante, perché sa che, non potendo ricambiare, cadrebbe in uno stato di dipendenza, fino al punto, invece, che deciderà di amarlo, ovvero di accettare l'unica possibilità di scambio reciproco che si esaurisce in sé, perché l'amore, che è dell'attimo, non ha bisogno di essere ricambiato in quanto è già insito nell'accettazione di amare. L'essere maschile che, in Gifts, assume le connotazioni del potere preso, imposto, non conquistato, in contrapposizione alla grande, immensa dignità femminile, fa diffidare Duniya dell'intervento degli uomini «in qualità di pacieri (…) soprattutto quando la causa dei litigi sono proprio loro, iniziatori di tante rivalità e inimicizie tra donne»26. Le personificazioni uomo/potere costituito e donna/dignità e dissenso, che fanno da contrappunto alla quasi totalità dei romanzi di Farah, così come abbiamo trovato in Knots, spingono il lettore a una continua interpretazione di rimandi che rendono eccelsa e degna di nota la letteratura dello scrittore somalo: come nel dialogo platonico della Repubblica o negli scritti di altri grandi filosofi o politologi dell'educazione, quale, ad esempio, Giuseppe Mazzini, la concentrazione analitica sull'individuo non è mai chiusa in sé, ma sempre rimanda alla forma di governo, dal piccolo al grande e, viceversa, dal generale al particolare, lo Stato è motore e specchio del gruppo, della famiglia e, a scendere, del singolo. Così concepiva Pasolini l'idea di Stato-Padre, anche se con conclusioni e finalità differenti.

 

Caso 5: la questione linguistica

Il Kenya ha subito disordini tra il dicembre 2007 e il gennaio 2008 in seguito alla fine del mandato elettorale e alla conseguente chiamata alle urne27. Diverse etnie, appoggianti ciascuna il proprio candidato, si sono affrontate a colpi di machete. Non solo, ne han fatto le spese alcune Ong operanti sul territorio. Per quale motivo? Cosa c'entrano i bianchi con questioni interne africane? Perlopiù, bianchi che fanno il bene. Ormai abbiamo dato una risposta a questi interrogativi, ma cerchiamo di capire cosa alimenta l'odio all'interno di uno stato sovrano, unito, una repubblica. Il Kenya è costituito da settanta e passa etnie di quattro ceppi linguistici differenti, bantu, nilotica, paranilotica e cuscita. Le lingue ufficiali sono lo swahili, parlato, pare, solo dall'8% della popolazione, e l'inglese (92%), quindi la lingua nazionale si riduce pressoché a quest'ultima, una lingua indoeuropea appartenente al ramo occidentale delle lingue germaniche. Una lingua non kenyota e nemmeno africana. «Memory lies in language. In incorporating the colonial world into the international capitalist order and relations with itself as the centre of that order and relations, the imperialist West also went about subjecting the rest of the world to its memory through a vast naming system. It planted its memory on our landscape by renaming it. (…) They also planted their memory on our bodies. Ngugi becomes James. (…) The name mark pointing to my body defines my identity. James? And I answer, Yes, I am. And, most important, they planted their memory on our intellect through language»28, scrive Ngugi Wa Thiong'o. Quello che lo scrittore kenyota va denunciando ormai da decenni è il passaggio sotterraneo, nascosto alla vista e quindi poco percepito, che è avvenuto dal colonialismo al neocolonialismo (che Thiong'o definisce imperialista), proprio attraverso il veicolo della lingua. Non è stato necessario alle ex potenze coloniali costringere politicamente all'accettazione di certi parametri, alla sudditanza economica, all'inglobamento nel sistema del Commonwelth (nel caso delle ex colonie inglesi, sistema che ha fatto la ricchezza e la potenza della Gran Bretagna), tanto meno col controllo diretto sul territorio, militarmente o no, in quanto la mentalità imperialista e capitalista, dice Thiong'o, è entrata nelle anime degli africani attraverso la lingua, la nominazione, un sistema intricato di lessico e sintassi che non lascia scampo, sino a renderli dei perfetti sudditi, mastri giostrai al governo di luna park socio-politico-economico importati senza troppa fatica. Ecco perché Thiong'o ha titolato un suo saggio Decolonizing the mind (decolonizzare il pensiero). Ed ecco perché a un certo punto della sua vita (durante il carcere impostogli dal governo di Yomo Kenyatta, ex Mau Mau, nel quale, lui come tanti dell'Africa Orientale, avevano creduto) decide di scrivere in gikuyu, lingua dei kikuyu, il suo popolo. Una scelta azzardata che lo condanna al confino, a una divulgazione di nicchia, con la consapevolezza che una storia kikuyu non può che essere raccontata in gikuyu per risultare autentica ed efficace, così come ogni italiano sa che certe espressioni dialettali, per quanto possano essere tradotte in lingua, non renderebbero mai il senso originale perché quel modo di dire fotografa uno specifico modo di pensare. L'estremizzazione di Thiong'o lo porta allo scontro intellettuale con altri scrittori del continente, a partire dal premio nobel Soyinka. Sono due concezioni dell'uso della lingua molto interessanti e che meritano di essere menzionate in questa sede: il primo, come stiamo vedendo, sostiene che l'africano scimmiotterà l'europeo fin che parlerà la sua lingua, perdendo la propria identità, dignità e dipendenza, perché come l'europeo ragionerà, trascurando la tradizione della propria storia, degli usi e costumi29, e si capitalizza30; il secondo, invece, è della linea (pasoliniana, potremmo dire) che il “nemico” va attaccato dall'interno e con le sue stesse armi, che va utilizzata la lingua inglese per minare il dominio inglese. Ma, soprattutto, Soyinka si rende conto che, in un mondo globalizzato e nel quale la lingua franca è l'idioma anglosassone, sarebbe un suicidio barricarsi dall'interno. Lo stesso si fa forte delle proprie teorie sulla traduzione (Soyinka ha tradotto dallo yoruba all'inglese un noto racconto dello scrittore Ifagunwa), ovvero che tradurre significa sì tradire, nell'idioma, non nel senso. Il significato, forte, prorompente, si può far passare attraverso più lingue, quali esse siano, e questa è la grandezza della letteratura che elimina i confini territoriali. Ovvio è che, in tale presa di posizione, bisogna accettare, nell'intento di raggiungere il maggior numero possibile di fruitori, la lingua più diffusa nel mondo, ovvero l'inglese, guarda caso quella dei colonizzatori.

È difficile dar ragione a uno o all'altro, vero è che la linea adottata da Soyinka è diretta e immediata, mentre lo scopo di Thiong'o è un progetto a lunghissimo termine che, se non prende mai avvio, mai troverà sbocco. Vero è pure, che lo stesso Thiong'o è comunque costretto ad esprimersi a volte in inglese (o ad accettarne le traduzioni) per farsi leggere, ma notevole è l'intento ideologico del kenyota, tanto che al di là dell'attività letteraria e saggistica, si trova schierato su un fronte prettamente intelletual-politico e, grazie all'inglese (sic), è possibile, per noi dell'altra parte del mondo, venirne a conoscenza. Ci si riferisce all'Asmara declaration on African languages and litteratures31, stilato in occasione di una conferenza avvenuta nella città eritrea nel gennaio del 2000, fortemente voluta da Thiong'o. La carta dichiara la grande vitalità ed equanime importanza a livello mondiale delle lingue africane. È, principalmente, un manifesto di dignità. Al punto 5 si può leggere che tutti gli adolescenti africani hanno il diritto inalienabile di attingere all'educazione e alla formazione nelle proprie lingue madri. Questo è un punto fondamentale: tornando al Kenya, perché il 92% della popolazione parla una lingua europea? Perché nelle scuole si insegna in inglese. L'individuo viene indotto, sin dalla più tenera età, alla trasformazione che non sarà mai totale, in quanto nella società si cresce in una direzione e nei villaggi e nelle famiglie in un'altra (tradizionale). Ciò porta, di nuovo, alla fantomatica alienazione cui si accennava precedentemente. La carta di Asmara non si occupa solo della prima formazione: al punto 6 troviamo l'augurio che la ricerca venga fatta in lingue locali; al punto 7 che lo sviluppo scientifico e tecnologico venga fatto in lingue autoctone; al punto 9 che le lingue africane non debbano avere pregiudizi di genere in quanto parlate allo stesso modo da uomini e donne. L'ultimo punto, 10, porta la firma di Thiong'o: le lingue africane sono necessarie per la decolonizzazione del pensiero africano e per la promozione di una African Renaissance. La rinascenza africana, che ha sentore delle grandi lotte sociali negre degli anni '60, si attua attraverso l'epurazione della lingua, e quindi del modo di pensare.

Forse, si diceva prima, Ngugi Wa Thiong'o, attraverso le sue scelte estreme, si relega al confino, all'isolamento, ma sarebbe più giusto dire si localizza, o meglio, si glocalizza, per utilizzare un brutto neologismo. D'altronde, nella sua prospettiva poco cambia dal partecipare alla kermesse dissidente tramite una lingua globalizzata, dato che l'africano, allo stato dei fatti, si trova in ogni caso a vivere una condizione d'esilio: «indipendentemente dal fatto che risiedessi o meno in Kenya, la mia decisione di scrivere in inglese (si riferisce ai suoi primi anni da scrittore, all'epoca della permanenza a Leeds32, n.d.r.) mi caratterizzava già come uno scrittore in esilio. Forse, Andrew Gurr aveva ragione, dopotutto. Lo scrittore africano è già separato dal popolo dalla sua educazione e dalla sua scelta linguistica»33. Da questo punto di vista, non essendoci alternative alla situazione di base, tanto vale, dice Thiong'o, incamminarsi sulla via più lunga e impervia che, se non altro, ha maggiori speranze di condurre a una vera e piena indipendenza.

 

Caso 6: la diaspora

Quello dell'esilio è un leit motiv dell'intera storia letteraria e intellettuale africana moderna. Da Abrahams a Mphalele, da Nkosi a Sembene, da Senghor agli stessi autori trattati in questo articolo, tutti quanti hanno vissuto sulla propria pelle e nelle pagine scritte la costrizione dell'andarsene. Thiong'o dice che ci sono due categorie di scrittori africani in esilio: la prima è quella degli esuli volontari che decidono il distacco in cerca di fortuna e miglior vita; la seconda è quella degli scrittori costretti all'esilio per timore della prigione o della morte34. Forse, la prima categoria andrebbe modificata, o aggiungervene una terza, quella di chi fugge dalla miseria in cerca, sì, di miglior vita e fortuna, ma non tanto volontariamente quanto per necessità. Nel 1994, Gianni Amelio girò un film dal titolo Lamerica, rifacendosi a quello di cui andavano in cerca i migranti italiani a cavallo tra l'800 e il 900 e riferendosi all'Italia di quegli anni (e di oggi, ancora) vista come terra promessa di libertà e prosperità dagli occhi degli albanesi e dei balcanici in fuga dalla guerra. Per l'Africa, ora, vi sono “Lameriche”, la Spagna, l'Italia, la Francia, etc., terre di libertà e possibilità per coloro ai quali la propria dà poco più di nulla. E così la cronaca ci restituisce, quasi quotidianamente, una zattera di salvataggio stracolma di corpi arsi dal sole e dalle intemperie, quando va bene, altrimenti scafi ribaltati, chiglie abbandonate all'immensità dei mari come bare galleggianti, e camicie e pantaloni lì attorno, come delfini a seguirne la scia. I punti di raccolta italiani, quali Lampedusa, si stipano di anime erranti nell'attesa di prendere un treno nella terra della libertà o un aereo per tornare in patria dopo la dolce gita. Ogni italiano, di fronte a tali notizie, non può che domandarsi: “Ma chi lo fa fare a quella gente? Partire senza una precisa meta, dar fondo a tutti i propri risparmi pur di allontanarsi, navigare sballottati tra le onde per giorni, settimane, senza la certezza di giungere alle sponde dell'Europa, e tutto questo per essere rispediti indietro o, alla meglio, continuare la vita dei miseri in terra straniera”. La risposta che sorge spontanea è: “Si deve proprio star male, là”, ed è una banalità che, come tutte le banalità, nasconde del vero. Cosa spinge un individuo a mettere a repentaglio se stesso per affrontare, pagando, un viaggio massacrante? E per trovare cosa? Non per tutti c'è fortuna, lavoro, soldi. La probabilità di fallimento di tale impresa è talmente alta che scoraggerebbe chiunque, non l'africano. C'entra la globalizzazione, come fenomeno, in tale spinta? Pare di sì, almeno nell'accezione datagli fin qui di neocolonizzazione.

Abderrahmane Sissako, uno dei più grandi registi cinematografici oggi, non solo sul continente, ma a livello mondiale, ha messo in scena una trilogia aventi ognuna come base una località africana: La vie sur terre (che potrebbe intitolarsi Sokolo, piccolo villaggio del Mali verso il confine col Burkina Faso, girato nell'ambito di un progetto sulla celebrazione dell'anno 2000 in arrivo, del 1998), Heremakono (altro villaggio del Mali, sempre dalle parti di Sokolo, del 2002) e Bamako35 (capitale del Mali, 2006).

«Quello che imparo lontano da te vale quello che dimentico di noi?», è l'incipit di quello che è stato definito un poema per immagini, La vie sur terre, e si rifà direttamente alla grande sfida letteraria di uno dei padri della négritude, Aimé Césaire, e in particolar modo al suo testo che più ha avuto importanza e diffusione nella difesa dell'orgoglio negro a cavallo tra gli anni '40 e '50, Les cahiers d'un retour au pays natal (1939, Diario di un ritorno al paese natale)36. Il film si apre in un centro commerciale di Parigi dove il nostro personaggio si aggira nei suoi abiti scuri e tristi, per proseguire con questo che scorrazza su una bicicletta per le viuzze polverose del villaggio, Sokolo, al quale ha appena fatto ritorno. Per contrappunto, lo troviamo, in apertura e in chiusura del film, a scrivere una lettera che annuncia il suo ritorno, una lettera indirizzata al padre (che non vedremo mai caratterizzato come personaggio), il quale rappresenta la terra natale. Ed egli si domanda se l'addizione vale la sottrazione, se l'accrescimento, l'evoluzione può sopperire alla perdita delle proprie radici, dell'identità. La domanda è retorica, tanto che la voce fuori campo a un certo punto ci avverte: «Attenzione corpo, attenzione anima, non incrociate le braccia nell'atteggiamento sterile dello spettatore, poiché la vita non è uno spettacolo». È un invito, rivolto alla propria terra, a non cedere, a non restare ammagliata nell'ammirare al di là dell'oceano o del mar Mediterraneo, perché chi osserva inerme non può che subire e trasformarsi nonostante la sua volontà. Aimé Césaire, ne La tragédie du Roi Christophe, fa rispondere questo all'invito della moglie, colei che è divenuta, da schiava, regina, di intraprendere una via moderata per non pentirsi poi un domani di una condotta scellerata e azzardata, fa rispondere alla moglie che «occorre chiedere ai negri più che agli altri: più lavoro, più fede, più entusiasmo, un passo, un altro passo, ancora un altro passo e conquistarlo, ogni passo! Vi parlo, signori, di un risalire mai visto, e guai a colui che vacilla!»37, e di non lasciarsi inebetire dai filantropi, da coloro che dicono che siamo tutti uguali, che non vi è differenza tra bianchi e negri: chi ha portato, fino a poco tempo prima, le catene al collo? Chi ha subito umiliazioni e sferzate?

Sissako, ne La vie sur terre, invita alla resistenza, e lo fa magistralmente inscenando la vita in un villaggio sperduto nel Mali alla vigilia delle celebrazioni per l'anno 2000: la radio locale, Radio Colon, oltre a trasmettere lettura di brani di Césaire e le recriminazioni di un contadino che si vede i propri appezzamenti di terra infestati dagli uccelli, si collega con una squillante voce femminile che, da Parigi, annuncia gli Champs-Elysées ricolmi di folla festante. Di contro, la vita al villaggio prosegue lenta e senza ulteriori scossoni o eventuali entusiasmi, intenti gli abitanti nel ripararsi dal sole che non dà tregua (mentre a Parigi gioiscono per l'arrivo del nuovo millennio baciato dalla sfera rovente) o nel cercare un contatto telefonico con la grande città di Bamako o altri villaggi, inutilmente, perché nella vicinanza telecomunicativa che informa Sokolo di cosa accade a migliaia di chilometri di distanza, avviene anche, per assurdo, la dispettosa lontananza di gente germana, lì, dietro l'angolo. Questa distanza-vicinanza fa da bordone tematico al ritorno del nostro personaggio “au pays natal”, che è lì ma non è lì, è tornato ma è ancora a Parigi, come l'Africa è l'Africa ma non è più l'Africa perché ha incontrato, sul suo cammino, l'Europa.

Il tema del ritorno influenza anche il secondo lavoro, Heremakono, aggiunto di quello della partenza, quella forzata, la diaspora38. È un film inenarrabile per la sua complessità, quanto geniale nella scelta dei tempi e delle immagini che, per accostamenti surreali, intrecciano la tragica vicenda di un popolo che ha perduto la bussola, e ricolmo di sedicente speranza nella figura del bambino (Kaltra). Abdallah torna, dall'Occidente, a Heremakono e si accorge che quel che ha guadagnato non vale quel che ha smarrito: non ricorda più la sua lingua, non capisce la sua gente, e si crogiola nella lettura dei libri, unico, prezioso dono fattogli dalla nuova terra d'accoglienza. Tutta quella cultura non serve nel suo paese dove il progresso tenta di attecchire tramite la luce elettrica, ma non fa altro che sottrarre giovani disperati nel tentativo di fuggire sfidando un oceano che mette terrore al solo guardarlo. Le onde ridaranno, un giorno, il cadavere di un uomo, un amico per chi lo trova, inerme, arenato sulla spiaggia, ed è uno dei tanti che l'infinito dell'oceano rende al mittente. Chi morto nel corpo, chi morto nello spirito. «Se parto non torno più, lo so», dirà un personaggio a colui che ha ritrovato il cadavere, perché non c'è soluzione all'andarsene. In verità, tutti tornano, nessuno vivo. Il vecchio tutore di Kaltra racconterà, una notte, una storiella al bambino per concigliargli il sonno e, alla domanda incalzante di questo sul perché si debba morire, risponderà fatalmente e banalmente che tutti muoiono. Punto. È vero, tutti moriamo, ma non tutti allo stesso modo, così il secondo cadavere presente sulla pellicola sarà il suo, quello del vecchio, che muore sì di vecchiaia, ma di una vecchiaia disperata, dopo aver narrato ai presenti la perdita di un amico che ha voluto partire e non ha mai più fatto ritorno, nonostante le sue promesse. Il vecchio muore dignitosamente, in disparte, all'ombra di una barca di legno utilizzata dai compaesani per fuggire, e lo ritrova Kaltra, il bimbo, con una lampadina elettrica tra le mani che, da luminosa, si fa sempre più fievole. Un giorno, osservando il mare, scorge qualcosa cullato dalle onde e, ridato alla spiaggia, vi riconosce la lampadina. Il vecchio è tornato, morto, come i giovani che partono per tornare, ma non tornano più. Simbolicamente, Kaltra, rimasto solo, una notte insonne, fissando la lampadina della stanza pendere dal soffitto, come avviene quando ci si fissa con lo sguardo, vede questa farsi moltitudine, il soffitto si riempie di lampadine che, in maniera macabra, oscillano sulla sua testa. È l'Africa ricolma di morti, le anime di coloro che son partiti e più tornati. Preso dal coraggio e dalla rabbia, Kaltra impugna una fionda e scaglia un sasso per rompere l'incantesimo, ma lo fa all'esterno della stanza, come bersaglio la luna, la più grande ed atroce delle lampadine. Nel frattempo, Abdallah fa la valigia e torna (sic) da dove era approdato partendo.

Infine, Bamako, cinema politico per eccellenza. Nel cortile di un compound della capitale maliana (che certa critica dice essere quello di famiglia), Sissako inscena un processo nientemeno che alla Banca Mondiale. I teste sono gli abitanti stessi (reali) del compound, giuria e avvocatura son composti di neri e bianchi. È un cosiddetto docufiction, ovvero alla scena centrale del processo, intavolato realmente grazie alla partecipazione degli abitanti del circondario, si alternano le vicende private di coloro che attorno al cortile dormono e vivono, quindi assisteremo alla separazione di una coppia in crisi, a un matrimonio, una morte, donne che tingono panni nel mentre si dibatte sulle sorti dell'Africa nel panorama globale. Dall'altro lato del muro di cinta che delimita il cortile, degli astanti assistono a ciò che avviene al suo interno grazie a degli altoparlanti che li tiene informati via via. Nel mezzo del film, ci sarà una sorta di stacchetto pubblicitario con la messa in scena di una sparatoria da western all'africana al quale il regista farà partecipare altri colleghi come il palestinese Suleiman o l'attore hollywoodiano Danny Glover.

Il primo teste a prendere la parola, una donna, si oppone alla requisitoria del difensore della globalizzazione portando a sé la prova verbale dell'assurdità e dell'ipocrisia del chiamare il mondo, oggi, aperto. Cosa significa dire che il mondo è aperto, sostiene la donna, dal momento che l'africano si trova a vivere da “rifugiato economico” in tale mondo? Il pianeta non è aperto quando l'africano è costretto ad andarsene preso nella morsa economica, e, una volta giunto nel cosiddetto mondo aperto, arrestato, deportato, umiliato e rispedito a casa. Questa non è libertà.

Il secondo, Madou, un giovane che ha provato la via della Spagna attraverso l'immensità asfissiante del Sahara durante la quale ha perduto gran parte dei compagni d'avventura, incalzato dalle domande di un avvocato, dice che a lui lo Stato non ha dato nulla. La donna che coordina la tintura dei panni interrompe l'interrogatorio, arrabbiandosi per la viltà con la quale si costringe un individuo a intavolare i propri dolori. Trova disumano spettacolarizzare la miseria della memoria e la sofferenza che questa comporta, ed è il ruolo da prima donna che si trova a recitare l'Africa sul palcoscenico della mondializzazione.

Il terzo teste, un professore, ha di fronte un avvocato che cita Confucio: “Chi è eccessivo è insignificante”. Quindi, Banca Mondiale e FMI hanno impoverito l'Africa? Prima della colonizzazione, dunque prima dell'avvento tassonomico degli ingranaggi economici mondiali, l'Africa viveva meglio e prosperava. Allora, l'Africa potrebbe esistere senza l'apporto di BM e FMI? Assolutamente sì, risponde il professore. Dopo 45 anni di cooperazione il risultato non è lo sviluppo, bensì l'inviluppo, l'anti-sviluppo. E tutti questi soldi che piovono sull'Africa (e che vanno restituiti) cadono nelle mani di una amministrazione corrotta che ne fa scempio. A cosa serve elargire un salario a chi non fa nulla? Sono soldi sprecati. Meglio sarebbe risanare lo Stato dall'interno e autonomamente, piuttosto che sovvenzionare e alimentare un sistema, da parte delle organizzazioni occidentali, solo per puro comodo e tornaconto.

Il quarto, Samba Diakité, insegnante scolastico, dopo aver dato le sue generalità, non ha nulla da dichiarare e se ne sta fermo, immobile, a testa bassa, in un prolungato, imbarazzante silenzio che è il silenzio dell'Africa prostrata e stanca.39

La quinta testimone dichiara che una paese senza idea delle comunicazioni, dei trasporti e dell'energia difficilmente può definirsi uno Stato sovrano. Anche se il percorso sarà duro, questo stato delle cose va cambiato, perché è meglio una via impervia dell'inferno perpetuo. Samba Diakité, che sta ascoltando dall'esterno del cortile, chiede a un ragazzo di staccare l'altoparlante. È stanco di ascoltare la sofferenza, e racconta al gendarme che controlla l'entrata del cortile un sogno ricorrente: si trova nella completa oscurità, o nella luce, in ogni modo non a casa. Di fronte a sé ha una borsa piena di teste dello Stato. Infila la mano e ne estrae una per gettarla via, ed è sempre la stessa. È la testa di un nero, chiede il gendarme. Non lo sa; sa solo che è sempre la medesima testa. Allora il gendarme avverte Diakité di non raccontare a nessuno il suo sogno, anzi, di non raccontarlo mai più.

In seguito all'esame delle deposizioni, la Banca Mondiale viene accusata di omicidio premeditato. La parte civile, un francese con l'onore di difendere il popolo africano, chiama in causa la politica dell'aggiustamento strutturale che la BM ha imposto, in accordo con la Francia, a tutti i paesi dell'area francofona occidentale, a tutti coloro, per intendersi, che hanno adottato come moneta corrente comune il CFA. Secondo la difesa, la BM non avrebbe interesse nel tenere soggiogata l'Africa nel debito; invece, la parte civile dimostra che lo scopo finale di questo inganno finanziario è quello della privatizzazione dell'intero continente, perché la finanza mondiale è governata non dai governi forti dell'Occidente, bensì dalle compagnie commerciali dell'Occidente che, quindi, non farebbero altro che il proprio interesse in una trama assurda e vigliacca studiata sulla lunga distanza. Tanta è la mancanza di scrupolo e l'avidità della finanza mondiale. In un mondo aperto, l'Africa è vista come un mercato aperto dove gli acquirenti sarebbero gli altri perché gli africani continuerebbero ad essere troppo poveri per divenire buoni clienti. E la BM viene accusata di creare utopie tra gli africani, a partire da un nuovo mondo oltre l'oceano, Lamerica che rapisce forza lavoro, giovani pensanti, a discapito della terra madre che inaridisce e inesorabilmente muore.

La sentenza finale richiesta dalla parte civile è questa: il lavoro che dev'essere generale per l'umanità e per l'eternità. L'arringa finale recita che il Debito è il male perché è illegittimo.

Per la BM e l'FMI non vi sarà né assoluzione né condanna, il film lascia in sospeso, ma durante il processo avviene che a un poliziotto sul posto per controllarne la partecipazione viene rubata la pistola. Questo indaga senza venirne a capo, chiede a vari personaggi, ma tutti negano d'avergliela sottratta. Non interroga il marito della cantante in un locale notturno (la coppia in crisi), il quale, dopo aver vegliato sulla figlia che si addormenta nella notte, si apparta e si spara.

 

Per approfondire

Articoli di Calchi Novati (vedi allegato)

più generale http://www.nuvole.it/arretrati/Numero%2026/pdf/05-Calchi%20Novati-Africa.pdf

sul corno d'africa http://www.nuvole.it/arretrati/Numero%2026/pdf/05-Calchi%20Novati-Africa.pdf

Cesaire http://www.cinemafrica.org/spip.php?article592

Sissako  http://www.fluctuat.net/cinema/paris99/chroniq/sissako.htm

http://theeveningclass.blogspot.com/2007/04/2007-sfiff50festival-crossover-bamako.html

 

1 - http://www.ansa.it/opencms/export/site/notizie/rubriche/daassociare/visualizza_new.html_903555325.html

2 - http://it.wikipedia.org/wiki/Movimento_per_l%27emancipazione_del_Delta_del_Niger

3 - http://www.rainews24.it/Notizia.asp?NewsId=105402

4 - http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=333402

5 - Luogo natale dello scrittore

6 - Ngugi Wa Thiong'o, Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali, Roma, Meltemi 2000, p. 22 (v. or., Moving the centre. The struggle for cultural freedom, 1993); oppure si veda Shailja Patel, Migritude: un viaggio epico in quattro movimenti, Faloppio, Lietocolle 2008, p. 27: «Io sono nata e cresciuta in Kenia al confine con l'Uganda, sono una cittadina dell'Africa orientale di terza generazione, di ceppo sudasiatico»

7 - Idem, p. 23

8 - Si veda l'intervista a Wole Soyinka, USA for Africa. Parola di Nobel: Obama manderà in tilt i dittatori del continente, pubblicata per mano di Paola Zanuttini su Il venerdì di Repubblica, n. 1097, 27 marzo 2009. L'articolista si domanda se non fosse stato meglio convocare al-Bashir all'Aia come libero cittadino e una volta lì arrestarlo, dato che scatenato il pandemonio col mandato internazionale di fermo sarà difficile rintracciare il dittatore. Soyinka risponde che va bene ugualmente così, che c'è bisogno anche di “gesti simbolici”.

9 - http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=337475

10 - Nuruddin Farah, Nodi, Milano, Frassinelli 2008, p. 395 (v. or., Knots, 2007)

11 - Idem, p. 111

12 - Id., p. 448

13 - Id., p. 286

14 - Id., p. 46

15 - Id., p. 430

16 - Id., pp. 167-168

17 - http://www.corriere.it/esteri/09_aprile_09/nigeria_rapito_alberizzi_cafec846-24eb-11de-a682-00144f02aabc.shtml

18 - Testualmente dal pre-colophon di Chinua Achebe, Attento, “Soul brother”!. Poesia, Jaca Book, Milano 1995: «Sostenere la crescita e la diffusione delle conoscenze significa generare valore e sviluppo. Con questo spirito è nata la biblioteca Agip creata da Agip SpA, la Società dell'ENI che opera nel campo della ricerca e produzione di petrolio e gas naturale. Realizzata in collaborazione con Jaca Book e Sperling & Kupfer, essa intende sia promuovere la cultura dei Paesi dove Agip svolge la sua attività che stimolare il dibattito sulla cultura manageriale e d'impresa»

19 - Si veda Delta oil's dirty business di Avgeropoulos Yorgos, film (Grecia, 2006) presentato allo Human Rights Nights, 8a edizione, 2008

20 - «I capi sorridono sempre. Ormai la politica la fanno i dentisti», dice il pazzo Zavattini nel suo unico film da regista, La veritàaaa (Italia, 1982)

21 - Si veda, p. es., Serge Michel, La famosa invasione dei cinesi in Congo, in «Io Donna», 19 gennaio 2007, pp. 60-66

22 - Intervista a Nuruddin Farah in occasione della presentazione della traduzione italiana del suo saggio Rifugiati, in Roberto Carnero, Africa, prove di pace, in «Avvenire», 3 settembre 2004

23 - Nuruddin Farah, Gifts, 1993; tr. it., Doni, Frassinelli, Milano 2001, p. 256

24 - Idem, p. 257

25 - Id., p. 257

26 - Id., p. 159

27 - http://www.ong.agimondo.it/notiziario-ong/notizie/200801251203-cro-rt11066-art.html

28 - Ngugi Wa Thiong'o, A people without memory are in danger of losing their soul, in «New African», Dec. 2003 (424), p. 52: «La memoria giace accovacciata nella lingua. Nell'incorporare il mondo coloniale all'interno delle relazioni e dell'ordine capitalisti internazionale come centro di tali relazioni e ordine, l'Occidente imperialista ha assoggettato il resto del mondo alla propria memoria attraverso un vasto sistema di nomenclatura. Esso piantò la propria memoria sul nostro paesaggio, rinominandolo. (…) Piantarono pure la loro memoria nei nostri corpi. Ngugi diventa James. (…) Il nome appuntato al mio corpo definisce la mia identità. James? E rispondo, Sì, sono io. E, soprattutto, essi piantarono la loro memoria nel nostro intelletto attraverso la lingua»

29 - Quello di Ngugi Wa Thiong'o non è forzatamente un punto di vista conservatore, o meglio lo è per sopravvivenza, è l'unica strada tracciabile da una resistenza interna. Per evitare la morte culturale e identitaria, l'attaccamento a quello che si è, o che si era prima della trasformazione, è d'uopo.

30 - Ciò dovrebbe far meditare anche gli italiani che si trovano ad utilizzare lemmi inglesi anche laddove la lingua nazionale non ne manca del corrispettivo, solo perché il mondo economico lo impone.

31 - http://www.queensu.ca/snid/asmara.htm

32 - Dove, tra l'altro, ha studiato Soyinka

33 - Ngugi Wa Thiong'o, Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali, op. cit., p. 157

34 - Cfr., Idem, pp. 151-158

35 - Cfr. http://www.cinemafrica.org/IMG/article_PDF/article_283.pdf

36 - Non a caso, il testo viene citato anche nell'ultimo lavoro cinematografico di Ousmane Sembene, Mooladé (2004), in cui si narra il ritorno in patria del figlio del capo del villaggio, ormai arrivato (occidentalizzato)

37 - Aimé Césaire, La tragédie du Roi Christophe, Paris, Présence Africaine 1963 (tr. it., La tragedia del Re Christophe, Torino, Einaudi 1968, p. 43)

38 - Si noti il parallelo esilio/prigione cantato da un commerciante cinese al karaoke di un locale notturno, così come già lo abbiamo incontrato in Ngugi wa Thiong'o

39 - Che non è il silenzio di Shaka, il silenzio del guerriero. Si veda Antonio Dalla Libera, La violenza del silenzio, in «Africa e Mediterraneo», 1-2/01 (35-36), anno X, luglio 2001