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L’origine è la meta (prefazione)

 

La distanza che gli eventi catastrofici degli ultimi decenni stanno frapponendo fra noi e il Novecento ci rende forse oggi capaci di uno sguardo (un po’ più) “da lontano” sul secolo appena trascorso, uno sguardo che cominci a farne emergere le linee di orizzonte e di fuga, così come quelle faglie e quei punti di crisi che sono ancora i nostri, quelli della nostra contemporaneità.Ben consapevoli che non c’è memoria e interpretazione del passato che non sia anche una costruzione dell’oggi e delle sue urgenze, la rivista Kainòs, che lega da vari anni la sua attività critica e di proposta anche allo scavo stratigrafico del Novecento filosofico e culturale, dà avvio, col presente volume, ad una collana dal titolo Le parole del Novecento, in cui troveranno spazio raccolte di saggi legate alle parole chiave che interpretano quelle linee di orizzonte e di fuga (ve n’è più d’una nel Novecento, come forse in ogni altra epoca), quelle faglie e quei punti di crisi.

La parola/espressione chiave cui questo volume è dedicato – secondo un progetto che nasce dalla collaborazione con Codice EAN. Associazione per l’arte contemporanea – è la parte conclusiva di un famoso aforisma di Karl Kraus, l’origine è la meta (Ursprung ist das Ziel)1.

Si potrebbe dire che la crisi dei meta-racconti fondativi della modernità, studiati da Lyotard, si manifesti, in questa idea novecentesca, nella sua forma compiuta. Se nei grandi racconti di emancipazione e di progresso della modernità – al pari di quelli che Lyotard chiama speculativi – la meta è stata concepita come il compimento di un processo, nell’idea che l’origine sia la meta, si impone una differente concezione: la meta è la realizzazione di un altro inizio, di un inizio che non è mai iniziato, pur restando, per così dire, realissimo nella sua virtualità. Il Novecento, anche per tale ragione, non è stato un secolo “dialettico”. Ciò che non ha avuto inizio non viene aufgehoben, non viene superato-e-mantenuto nel processo-che-si-compie. Resta all’origine, o meglio all’inizio, ma altro dal processo che si è, di fatto, compiuto. E, dall’origine, parla dal futuro, da un futuro possibile benché di una possibilità che, sottratta alla “realtà attuale” del processo compiutosi, assume tutti i caratteri dell’impossibilità.

Che l’origine sia la meta è una delle idee della cultura “alta” del Novecento, che come tutte le idee (altra cosa dai “concetti”) è concepibile – insegnava anche Walter Benjamin – solo attraverso la costellazione dei tentativi, anche profondamente distanti, di pensarla.

Questo spiega il modo in cui i saggi che seguono possano (e debbano) essere letti. Che si tratti dell’inizio del pensare (in Hannah Arendt) o della giustizia a venire, avente la sua origine nell’amore (in Lévinas), che si tratti della visione dell’invisibile (in Klee) o dell’ou-topia dell’umano (in Adorno), o ancora dello sguardo sulle rovine della storia dell’Angelus novus kleeano (nell’interpretazione datane da Benjamin), o, infine, della tensione tra l’origine del mondo e le sue scorie (nella poesia di Luzi), in ognuno di questi percorsi è rintracciabile, in maniera più o meno scoperta, l’idea di un inizio che parla da un impossibile ad-venire.

Un’idea che in qualche modo è ancora la nostra.

Infine. Ai saggi si affiancano, secondo percorsi autonomi e contigui ad un tempo, gli interventi visivi di alcuni artisti di Codice EAN – Antonio Picardi, Angelo Ricciardi, Enzo Rusciano, Umberto Manzo, Domenico Antonio Mancini2 – grazie ai quali la raccolta acquista riferimenti più ampi e, forse, imprevedibili.

V. C.

 

1K.Kraus, Der sterbende Mensch, in Worte in Versen, München, 1959, p. 59. L’aforisma completo suona: “Du bleibst am Ursprung. Ursprung ist das Ziel” (Rimani presso l’origine. Origine è la meta).

2 Antonio Picardi concepisce graficamente la relazione tra l’origine e la meta attraverso l’idea di una rete in cui ogni snodo sia, ad un tempo, inizio e fine. Angelo Ricciardi propone una sua originale composizione di “parole del Novecento” in cui tra negativo e positivo, tra speranza e orrore, viene realizzata una “composizione” che, attraverso lo strumento tipo-grafico, non copre, bensì mette a nudo, il conflitto e la contraddizione. Umberto Manzo mostra un’immagine fotografica di una sorta di “gesto iniziale”, in cui, tra il corpo e l’origine/meta, accade un legame ambivalente di ritrazione e di offerta. Enzo Rusciano, invece, in una sorta di rappresentazione mito-grafica del “momento appena successivo” all’inizio, mette in scena l’ambivalenza vettoriale del segno e l’idea della giostra del tempo. Domenico Antonio Mancini, infine, gioca con una “provocazione” di Hannah Arendt che, in un’intervista del 1964 a Gaus, aveva affermato: nella mia vita non ho mai amato nessun popolo o collettività: né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano ecc. Io amo solo i miei amici [...] credo nell'amore per le persone [...]; questo "amore per gli ebrei" mi sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto. Non posso amare me stessa o qualcosa che so essere una parte essenziale della mia stessa persona (in H. Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua. Una conversazione con Günther Gaus,in Archivio Arendt, 1. 1930-1948, a cura di Simona Forti, Milano, Feltrinelli, 2001). La paradossale risposta che Mancini dà (“neanche io”) all’affermazione della pensatrice ebraica (“Io non ‘amo’ gli ebrei”) deve essere letta, quindi, secondo il suo significato illocutorio: “l’essere ebreo è parte essenziale della mia persona”.