Dal maggio 2022 su questa rivista non sono più accessibili molte immagini d'arte coperte dal copyright dei proprietari, ovvero generalmente musei e collezioni. Nella gran parte dei casi, l'immagine risulta vuota ma è leggibile la sua didascalia, per cui resta possibile la sua visualizzazione nei legittimi contesti.

Redazione e contatti

Cerca nel sito

Abstract

Abstract

 

Sul carattere fascista. Le teorie di Adorno.

Vincenzo Cuomo

 

Per Adorno il “carattere” è un sedimento sociale. È il risultato della socializzazione e della civilizzazione dell’individuo (e nell’individuo).

Le sue analisi teoriche e psico-sociologiche del “carattere fascista” lo portano a sostenere la tesi della sua intrinseca distruttività e auto-distruttività di. Nel famoso studio collettivo cui partecipò, “La personalità autoritaria” (1949), egli teorizzò l’opposizione di tale carattere a quello “democratico”, attraverso l’applicazione sociologica del modello psico-sociale freudiano del “disagio della civiltà”, legato alla repressione pulsionale e al prevalere dell’istanza paterna (e padronale) del Super-io.

Oggi quel modello ermeneutico non sembra più utile alla comprensione delle nuove “forme di vita” – che, forse, sarebbe meglio definire nuovi “abiti di vita” – e delle nuove forme del disagio nell’epoca del turbo-capitalismo e del turbo-consumatore (Lypovetsky). Sono ormai molti gli autori che sostengono che il modello psico-nevrotico (freudiano ortodosso), che è esplicitamente applicato da Adorno e dai francofortesi, non sia più adeguato per la comprensione delle nuove forme para-psicotiche di vita che si stanno diffondendo.

Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che Adorno e gli altri pensatori della scuola di Francoforte sono stati forse i primi a lavorare teoricamente su di un’ipotesi forte di relazione tra società e psiche individuale.

Inoltre, Adorno, in vari aforismi, ha descritto innanzi tempo l’apparire di una delle attuali forme “psicotiche” di disagio soggettivo, che egli definì “personalità monadica”.

Infine, è possibile ritrovare nella sua Teoria estetica un’altra strada critica per affrontare la questione posta dal “carattere fascista”. Se questo è lavorato da un impulso mimetico regressivo e auto-distruttivo, il territorio dell’arte consentirebbe a tale impulso di liberarsi dalla sua interna distruttività senza la necessità di dover essere represso o rimosso.

L’altro del carattere fascista è il carattere linguistico dell’opera d’arte – che Adorno oppone decisamente al “linguaggio dell’arte” e alla “comunicazione artistica” – in cui l’impulso espressivo diviene “forma”, “figura”, “lingua idiosincratica”, “enigma”, écriture di “ciò che non è”.

E il carattere mimetico, l’impulso espressivo, diventa così stile.

 

 

 

You are what the work ultimately is about…”

Su Arthur Danto, arte, testimonianza e stile.

Filippo Fimiani

 

Denn da ist keine Stelle, / die dich nicht sieht. Du mußt dein Leben ändern.“ Questi versi, che chiudono il sonetto Archaischer Torso Apollos di Rilke, delle Neue Gedichte del 1907, hanno avuto una straordinaria fortuna lungo tutto il Novecento. Non si tratta, però, né di ricostruire una storia della loro ricezione, sia essa esaustiva o esemplare, né di allestire una storicizzazione dei loro effetti, siano essi performativi sulle figure della spettatorialità moderna, o categoriali, sui personaggi concettuali di poetiche artistiche, ma anche scritture critiche, teorie estetologiche e filosofie dell’arte. Oggi, il massimo della storicità coincide con una sospensione della storia, giacché l’ambiente tecnologico o il medium as habitat e l’arte allo stato gassoso che hanno scacciato e schiacciato le utopie del Modernismo e dell’Arte Moderna ancora valide per Adorno, hanno sostituito il mondo della vita con forme di vita sature e impermeabili alla contingenza e al nuovo progettato e prodotto. E oggi, appunto, le parole rilkiane appaiono quasi come sintomi teorici tra gli enunciati filosofici di Arthur Danto e Jacques Rancière. Sintomi per più motivi ambivalenti e contraddittori, che richiedono interpretazione, ripetizione, riscrittura. Non solo perché rivelano un’interstualità forse rimossa, certo imprevista – oggetto d’una stilistica del discorso estetico e di una sintomatologia del suo disagio? –, ma soprattutto perché ci dicono della problematicità di un’esperienza estetica libera dall’oggetto artistico e dalla sua aspettualità – dal suo stile – e, allo stesso tempo, vincolata alla sua efficacia semantica e cognitiva e costretta dalla sua forza di animazione e affetto. Ma se qualcosa si comporta come se fosse un soggetto come noi – un feticcio, si potrebbe dire –, se qualcosa vuole che ci rifacciamo come supporti carnali d’una soggettivizzazione e d’una emancipazione dalle forme di vita che predeterminano la figuralità del nostro esperire, questo qualcosa in cosa è, o non è solo, opera d’arte? E questa stilizzazione di noi stessi, non più circoscritta a determinati comportamenti e a specifiche competenze, in cosa s’incarna se non in un carattere senza caratteristiche?

 

 

 

Carattere e stile nella storiografia filosofica del primo Novecento: Ernst Cassirer interprete dell’illuminismo.

Fabrizio Lomonaco

 

In una prolusione tenuta a Göteborg nel 1935 il compito affidato alla filosofia da Ernst Cassirer tradisce il suo originalissimo stile storiografico, già presente nella ricostruzione del pensiero illuministico nel 1932: «Lo storico, il filologo, il linguista, l’etnologo e lo studioso del mito e della storia religiosa hanno a che fare con le creazioni della cultura. Ma la filosofia (…) muovendo da queste creazioni, deve interrogarsi circa i poteri formatori, circa la natura delle funzioni ed energie spirituali che hanno prodotto e reso possibili tali configurazioni dello spirito umano». Il progetto di una storia dello “spirito moderno” coinvolge le tre note monografie pubblicate tra il 1927 e il 1932 su Individuo e cosmo nel Rinascimento, sulla scuola di Cambridge e sulla Filosofia dell’Illuminismo. Nell’introduzione a quest’ultimo scritto Cassirer sottolinea il motivo rigorosamente unitario dell’«intenzione metodica», fondata sulla ricerca delle «forze operanti» dall’interno, su una «fenomenologia dello spirito filosofico», colto e approfondito nel «suo carattere fondamentale» e nella «sua missione». Arricchito dalle originali esperienze teoriche vissute nel periodo amburghese a diretto contatto con Warburg e il suo Istituto, questo è uno dei motivi caratterizzanti quella logica delle scienze della cultura che, già largamente presente nel neokantismo marburghese (in Cohen nel rapporto però privilegiato se non esclusivo con l’etica, e, soprattutto in Natorp in nome dell’unità del Logos come unità delle diverse logiche), troverà il suo più originale svolgimento nel noto testo del 1942.

Uno dei motivi di fondo dell’impianto ricostruttivo del Settecento è la riconosciuta e commentata la dipendenza dottrinale dai movimenti speculativi del Seicento che, tuttavia, non impedisce di far emergere il carattere distintivo dell’età illuministica. A tal fine Cassirer non propone una trattazione storica dettagliata della filosofia dell’Illuminismo in tutta la sua estensione. Suo proposito è di isolarne il «centro di gravità» in un divenire spirituale complesso, per procurare non una quantità di dottrine ma la dominante «forma nuova del pensiero» nell’unità della sua origine e del suo sviluppo, rilevandone le interne energie spirituali. Come «secolo filosofico» , secondo la definizione di D’Alembert, il Settecento è l’epoca del filosofare inteso come ampliamento delle conoscenze con riferimento al nuovo e comune centro di energia, di «forza formatrice uniforme» che è la ragione. Questa, liberatasi dalle imposizioni costruttive della filosofi, conquista il ruolo determinante di modello metodico per la comprensione della specifica struttura delle scienze dello spirito rifiutando ogni imposizione non è più un insieme di idee innate originariamente possedute dall’uomo. È un lavoro, dunque, di sintesi e non di analisi, di storia interna da valutare più che di storia empirica da documentare e spiegare. Se nella rinnovata indagine la premessa non è l’interesse dottrinario ma la forma dei temi e dei problemi indagati, non si può dare dell’illuminismo una storia monograficamente ricostruita autore per autore ma una «pura storia delle idee del’epoca» che rifiuta ogni eclettismo nel mostrare un «ordine serrato» di temi dal punto di vista storico e teorico. Il Settecento è anche secolo della scienza della natura che si fa sentire nel modo in cui rivive la tradizione precedente nel momento in cui «sta ancora divenendo, dove dubita e cerca, dove demolisce e distrugge». Nella nuova mentalità del secolo la filosofia non è più sostanza dello spirito, separata dalla scienza della natura, dalla religione, dalla storia, dalla politica e dall’arte ma «costituisce per tutte queste (…) il respiro vivificante, l’atmosfera, nella quale soltanto possono sussistere ed agire (…), rappresenta lo spirito come un tratto della sua pura funzione, nel modo specifico delle sue ricerche e dei suoi postulati, del suo metodo, del suo puro procedimento conoscitivo». Qui sta l’importanza del carattere produttivo del sapere settecentesco, in cui centrale non è il contenuto quanto il suo uso. Cassirer non si rivolge più solo alla storia e alla filosofia dal punto di vista della gnoseologia ma ai principali ambiti teoretici della problematica con tutte le sue forze lasciate sussistere nella loro interna complessità. La «rinascenza» di una cultura non è mai la semplice riproposizione elogiativa del passato, ma la sua possibile ricreazione attraverso l’individuazione della forma del suo «centro effettivo». Così da un’impostazione volta a individuare i concetti filosofici si giunge, con la teoria delle forme simboliche degli anni Venti, a una considerazione del nesso filosofia-cultura che è un’indubbia apertura al mondo plurale di quest’ultima in forme sempre più distinte dalle tesi dell’Erkenntnisproblem del 1906, convinte – sulla scorta delle esperienze tardottocentesche di Lange e Windelband, assai rilevanti nel teorizzare la massima integrazione possibile tra la ricostruzione storica e la trattazione teorica – che lo sviluppo del pensiero è un «continuo progresso dei medesimi grandi problemi».

 

 

E più sono io – meno io lo posso”. Etica e stile etico in Paul Valéry.

Felice Ciro Papparo

 

Lo stile è l’uomo stesso, diceva Buffon e Lacan riprendendo, in forma di interrogativo, l’espressione di Buffon si domandava: «ne raggiungeremo la formula col solo allungarla: l’uomo cui ci si rivolge?», per ascrivere poi alla sua ‘teorizzazione’ l’ “allungamento”, così precisandolo: «nel linguaggio il nostro messaggio ci viene dall’Altro [...] e in forma invertita» (Jacques Lacan, Scritti, vol. I, Torino, Einaudi 1974, p. 5).

Cosicché da Buffon a Lacan, dal naturalista al langagier, lo stile appare solo nella prospettiva dell’umano e sembra esperibile solo in questa prospettiva.

Ma se invece, d’un lato, «le style...c’est le diable», come scrive Valéry nel suo Faust (Oeuvres, II, p. 298), e dall’altro, lo stile è l’effetto «d’une sensibilité spéciale à l’égard du langage» (Oeuvres II, p. 1053), questa sensibile diabolicità che è lo stile, quale figura d’uomo istituisce, anche e soprattutto sotto la specie del linguaggio?

Diabolicamente, ovvero procedendo con lo stilo, e dunque incidendo nella ‘carne viva’ del soggetto-langagier, il diavolo che è lo stile o lo stile che è il diavolo, dove conduce l’umano che si dice attraverso il linguaggio? Detto in altri termini: che ne è della ‘natura d’uomo’, che ne è del suo carattere, cioè, se lo stile che gli è proprio, o gli è stato appropriato, ha una ‘dis-umana’ natura che si diverte a divertire il soggetto da se stesso?

Ché, come leggiamo nel dialogo ‘sullo stile’ tra Faust e Mefistofele, «la grande opera» che Faust vuole realizzare, e per la cui realizzazione concepisce ‘il patto con il diavolo’, non ha altro fine che il divertissement di cui si è detto; o meglio ancora, proprio perché «le style... c’est le diable», ovvero il separante, arrivare attraverso lo stile/lo stilo a sbarazzarsi «finalmente [...] fino in fondo di me stesso, dal quale sono così già separato» (Il mio Faust).

Lo stile sarebbe dunque ciò che, incidendo a fondo e fino in fondo sul “me stesso”, conduce il soggetto-langagier, attraverso la spéciale sensibilité insita nello stile stesso, a sbarazzarsi del ‘carattere’ d’uomo? E questo sbarazzarsi di se stesso cui si giunge acuendo la speciale sensibilità stilistica à l’égard du langage, verso quale dimensione d’uomo porta?

Forse a niente altro che a quella dimensione di riforma di se stessi, alla poi-etica di se stessi, cui Valéry ha costantemente mirato, diabolicamente sfidando giorno dopo giorno, con il suo stile/con il suo stilo, la potenza ‘mimetica-significativa’ del linguaggio, che costringe ‘il possibile’ in “un esser-già-stato” (“E più sono io, meno io lo posso”), restringendo l’area di sorpresa proveniente dal ‘mondo-lì’, e il soggetto che vi si aggira all’eco sempre più stonata dei propri antenati!

 

 

Stile veloce

Fabrizio Scrivano

 

Ante de todo, mucha calma!”, è la scritta che, qualche anno fa, per una via di Barcellona, mi è capitato di vedere sfilare, stampata sulla maglietta di un ragazzo. Ma che possibilità di sopravvivenza può avere quella esortazione, che segna tanto chiaramente uno stile di vita? Il Novecento si apre all’insegna della velocità e si svolge intensificando ed estendendo questo metro di relazione, tanto nella vita materiale quanto nei processi di astrazione e rappresentazione. Tecnologia e cultura, senza dubbio, hanno prodotto ed estetizzato la velocità, che ha finito per essere uno degli strumenti e una delle forme della cultura della comunicazione. Ma non c’è una univoca ideologia “rapidista”; un po’ perché l’esigenza di lentezza ha conservato le proprie ragioni e ancora le sa affermare, un po’ perché la velocità ha dovuto cercare il suo stile.

Partendo dall’analisi di alcune posizioni su velocità/lentezza nell’ambito della riflessione letteraria e di altri media linguistici, l’intervento cercherà di ricostruire intorno alla nozione di velocità la relazione tra carattere e stile, come l’insieme di rapporti tra tratti invarianti e tratti mutanti dell’apparenza.

 

 

Questione di stile e questione di carattere tra Walter Benjamin e Bertold Brecht

Fabio Tolledi

 

La relazione tra Walter Benjamin e Bertolt Brecht segna uno straordinario punto di congiunzione tra una pratica rivoluzionaria ed una incessante interrogazione sui modi, sul farsi dei concetti.

Walter Benjamin ha frequentato molto assiduamente Bertolt Brecht, soprattutto nel periodo dell’esilio a Svendborg in Danimarca (1933-1938). La figura di Brecht è stata molto importante per Benjamin, che ricolloca il drammaturgo bavarese tra i più illustri scrittori di lingua tedesca dei primi trenta anni del ‘900.

Benjamin entrò in contatto con Brecht attraverso la sua aiuto-regista e attrice lettone Asja Lacis.

Ad Asja Lacis è dedicato un libro che segna una svolta decisiva nel percorso di Benjamin, Strade a senso unico. Per la stessa Lacis, Benjamin stilò il Programma per un teatro proletario di bambini. In questo manifesto del teatro la chiusura non può non essere considerata a ragione la prefigurazione del teatro del secondo novecento: “davvero rivoluzionario è il segnale segreto dell’avvenire che parla nel gesto infantile”.

Il Programma ebbe una prima stesura nel 1924 ed una definitiva nel novembre del 1928. Al suo interno spicca la considerazione secondo cui il vero genio pedagogico è l’osservazione. Brecht molti anni dopo a Svendborg scriverà una poesia già chiara nel suo titolo: Lettera agli attori operai di Danimarca sull’arte dell’osservazione. In alcuni appunti di diario del giugno 1938, Benjamin riferisce di un dialogo tenuto la sera prima con Brecht. Parlando del teatro epico, il regista si riferisce al teatro per bambini, nel quale gli errori nella recitazione conferiscono dei tratti epici nella narrazione. In quella conversazione Brecht fa riferimento alla nascita del teatro epico nel suo lavoro nella edizione dell’Edoardo II di Christopher Marlowe del 1923. L’intuizione nasce da uno spunto dato a Brecht dal suo amico e attore comico Karl Valentin.

Destino e carattere di Walter Benjamin affronta, notoriamente, la questione della tragedia e della hybris.

Nei commenti ad alcune liriche di Brecht risalta una definizione, riferita al cinese Lao Tse, che ci conduce ad una strana categoria, quella di cortesia.

Lao Tse, letteralmente il vecchio bambino, sembra disgelare una irrequieta traiettoria, che unisce Benjamin e Brecht.

Stile e Carattere parlano nel punto di crisi tra l’esperienza del bordo del fare artistico e il costante divenire dell’opera d’arte vivente che è il teatro. Opera vivente tra viventi, il divenire bambino segna la formazione di uno stile, all’interno della formazione di un carattere.

Il teatro ha a che fare con il Carattere, character in inglese e charakter in tedesco, richiamano a quello strumento della forma teatrale noto col nome di personaggio, alla caratterizzazione del soggetto che parla dalla scena.

E lo stile comico, come già intuisce Benjamin, come già pratica nelle sue opere teatrali Brecht, è segnato dai caratteristi. Nella tradizione teatrale o filmica italiana, non conosciamo caratteristi tragici.

E allora, come già Elvio Fachinelli ha indicato, il corpo esperienziale del bambino squarcia l’orizzonte di una nuova prospettiva, del fluire di una creatura in divenire, nel divenire del suo proprio carattere, del suo proprio stile. Una linea cortese, che rinnovella la scena del mondo.

 

 

 

Rapporto stile-vita nell’interpretazione merleaupontiana di Stendhal.

Benedetta Zaccarello


Nelle inedite Recherches sur l’usage littéraire du langage Maurice Merleau-Ponty legge l’opera di Stendhal come animata essenzialmente dalla tensione dinamica tra due polarità: il carattere e lo stile. Secondo quest’interpretazione, l’autore della Certosa impiegherebbe la scrittura ai fini di un peculiare processo di conoscenza di sé, in bilico tra ricostruzione autobiografica e autoanalisi. In quest’ottica, è fondamentalmente per comprendere la propria indole che Stendhal mette a punto quei procedimenti stilistici, primo tra tutti il monologo interiore, che di fatto gli dischiuderanno la stagione della pienezza letteraria. Viceversa, solo attraverso un’acquisita trasparenza a sé del proprio carattere la scrittura stendhaliana riesce a raggiungere le vette dei romanzi più maturi.

Ora però, ed è questo l’affascinante enigma individuato da Merleau-Ponty, la vicenda letteraria di Stendhal si sviluppa proprio come reazione all’impasse inizialmente percepita nel conciliare veridicità della scrittura e ricerca formale. E proprio grazie a questa difficoltà iniziale Stendhal giungerà a praticare quella sorta di artificiosa sincerità letteraria che Merleau-Ponty teorizza come tratto essenziale di ogni scrittura.

La relazione seminariale proporrà un breve viaggio intorno a questi piccoli paradossi, al fine di mettere a fuoco, tramite l’episodio di lettura in questione, una possibile idea merleau-pontyana di stile (e di carattere).