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La nostalgia del criminalmente altro

Dal doppiopetto al completo nero nei gangster movies americani

 

 

«È meglio avere una pistola e non averne bisogno
che non averla e averne improvvisamente bisogno.»
(True Romance, 1993, scen. di Q. Tarantino)

1.

Era il 1954, anno che rispetto a noi oggi cade circa alla metà dell’intera storia di Hollywood (fondata tra il 1907 e il 1909, almeno per quanto riguarda i primi studios professionali), quando il critico Robert Warshow pubblicò su un rivista un articolo poi diventato celebre, nel quale affermava con dovizia di argomentazioni che il cowboy e il gangster erano le due creazioni meglio riuscite dell’intera cinematografia americana1. Non senza valide ragioni, Warshow vaticinava un futuro ancora roseo ai gangster movies, un po’ meno ai western, forse percependo in anticipo che già allora – in un periodo in cui la guerra fredda stava per sfornare missili intercontinentali del tutto indifferenti alle grandi distanze e l’esercito americano aveva appena abbandonato la lontana Corea – sembrava avviata verso la sua fase calante l’esigenza estetica di insistere sull’epica della frontiera nella sua accezione territoriale. Al contrario delle immense pianure e dei deserti più o meno selvaggi, gli scenari urbani non solo conservavano la propria suggestione, ma anzi la intensificavano, dati i fenomeni di riurbanizzazione avviati già alla fine degli anni ’40 e accelerati nel decennio del boom economico. Si trattava dunque di elaborare i contesti delle grandi città come territori che si sviluppano più in altezza e in profondità che in estensione, e la sapienza dei grandi registi sarebbe riuscita a conferire nuove forme a pericoli e timori ancestrali della società statunitense, aggiungendovi anche nuovi fattori tipici del clima postbellico.

Il gangster movie era nato molti anni prima, ancora all’epoca del muto, e fino a tutti gli anni ’30 aveva vissuto una lunga stagione di grandi successi, tanto da aver generato almeno tre o quattro articolazioni interne al suo paradigma cinematografico: la detective story (The Maltese Falcon, di R. Del Ruth, 1931), la crime story (Little Caesar, di M. LeRoy, o anche Public Enemy, di W. Wellman, entrambi del 1931), l’hard boiled (Underworld, tit. ital. Le notti di Chicago, di J. Von Sternberg, 1927), i punti di contatto con il noir (You Only Live Once, di F. Lang, 1937). Ripensandoci a posteriori, non c’è da meravigliarsi del fatto che questo genere abbia saputo interpretare con grande efficacia i cambiamenti di quel periodo: le città americane si ingrandiscono con estrema rapidità, alla loro dilatazione corrisponde la moltiplicazione di fattori di pericolo, tanto che perfino il proprio vicino di casa smette di essere una persona di cui ci si può fidare “a prima vista”, l’urbanistica delle metropoli assume un aspetto tentacolare e può indurre a pensare che sia molto facile sbarazzarsi di un cadavere abbandonandolo in uno dei tanti vicoli delle lunghe arterie del downtown, ancora più facile rapinare un bravo cittadino borghese sparendo nella giungla di stradine oppure svaligiare una banca mimetizzandosi nel traffico dopo pochi isolati. Le dimensioni delle grandi città inducono anche a modificare le scelte cinematografiche per le capitali del crimine: fino agli anni ’40 la città preferita era senza dubbio Chicago, grande snodo di traffici di ogni tipo, anche illegale, e tradizionale culla della malavita organizzata; ma ora viene spodestata da New York, e la ragione è semplice: Chicago contava 3.370.000 abitanti nel 1930, ma vent’anni dopo la popolazione era cresciuta di appena il 7%; invece New York City era passata dai 6.900.000 abitanti del 1930 agli 8 milioni del 1951. Insomma, la grande mela diventa più credibile come ambiente urbano in grado di generare le più disparate tipologie malavitose. Allo stesso tempo, il singolo poliziotto (sulla cui integrità morale presto inizierà a gravare il dubbio di grandi registi come Orson Welles) diventa un punto di riferimento sempre più insignificante, disperso com’è tra una popolazione indifferente e anonima, e assediato da una quantità di piccoli e grandi crimini che crescono in maniera esponenziale, rendendo sempre meno rilevante l’esperienza vissuta da chi subisce un singolo crimine.

Ma non è tutto qui. Come è stato notato da Jack Shadoian, e in seguito anche da altri critici, la parabola criminale del gangster spietato e privo di scrupoli aziona nello spettatore gli stessi meccanismi di attrazione/repulsione tipici del film horror o anche del porno: i fattori che provocano orrore per le sue gesta suscitano anche una curiosità morbosa e irresistibile, solo in parte veicolata dalla ragionevole certezza che alla fine del film il delinquente la pagherà2. Soprattutto nella sua forma classica, che sostanzialmente resterà in vigore fino alla fine degli anni ’50, questo tipo di criminale è infatti assetato di denaro, estasiato dal potere, contornato da donne che altrimenti non lo degnerebbero di uno sguardo, guida (o, più spesso, fa guidare da un autista) automobili di gran lusso, va a cena in ristoranti di prima categoria3 dove viene servito come un sovrano per la paura che si ha di lui, intrattiene relazioni d’affari o di altra natura soltanto con persone da lui stesso selezionate, quasi sempre è circondato da un cordone di guardie del corpo che non si limitano a tutelare la sua sicurezza personale ma creano una vera e propria barriera che ha lo scopo di tenere a distanza qualsiasi fattore di disturbo proveniente dal mondo esterno, perché il boss ha il diritto di godersi la vita con i mezzi da lui scelti. È insomma il negativo del grande capitalista che in quegli stessi anni sta effettuando una scalata sociale parallela nelle forme accettate dalla collettività, e si sta arricchendo in tempi sempre più brevi grazie al successo in mercati che segnano lo status sociale come quello automobilistico, quello degli elettrodomestici, etc. Non è eccessivo definire il secondo dopoguerra come l’età dell’oro del criminale moderno: l’epoca durante la quale, secondo Enzensberger, gli viene attribuito «un intero sistema di ruoli che ne rende indispensabile l’esistenza e lo eleva al rango di figura mitologica»4 ma la cui sostanza resta impenetrabile, misteriosa e, proprio per ciò, morbosamente affascinante.

 

2.

Ma come è arrivato il cinema americano ad una così efficace confezione del genere criminale, dopo le raffinate eleganze à la Cukor del periodo interbellico? Dal momento che i film utili a comprendere il fenomeno sono in numero spaventoso, tanto che solo per il periodo 1945-1960 superano i 250 titoli (se si ammettono anche i B-movies, come in questo caso è doveroso fare), ci limiteremo ad una selezione molto sintetica e ragionata. Partiamo da The Killers (I Gangsters, 1946), di Robert Siodmak, pellicola nota anche perché vede l’esordio di Burt Lancaster con la sua fisicità da artista circense, e mostra una a dir poco fatale Ava Gardner nella parte della dark lady. Basato su uno spunto di Hemingway, con una sceneggiatura ampiamente debitrice di un non accreditato John Huston, il film del regista tedesco-polacco trapiantato negli USA dopo il 1933 è straordinariamente efficace nel mostrare l’ascesa accidentale e la caduta tragica di un pugile che, trascinato in un vortice criminale più grande di lui, dopo aver vanamente tentato di costruirsi una via di fuga con un’identità fittizia, si rassegna ad un inesorabile destino di morte. Il film presenta diversi elementi di originalità e di estremo interesse. Anzitutto la costruzione ad inquiry che snoda la trama in chiave retrospettiva partendo dalle indagini che un assicuratore deve portare avanti per mero interesse materiale, ma che lievita in inchiesta antropologica sul mistero che spinge un anonimo outsider del ring a commettere un reato che non potrebbe mai permettersi di compiere, in quanto provoca l’ostilità fatale della gang a cui ha sottratto il denaro e che è composta da persone decisamente poco inclini a dimenticare. C’è poi una componente più strettamente estetica, che insiste con grande attenzione sui particolari dello stile di vita di Pete “lo svedese” durante il suo periodo di gloria: anche in questo caso, ristoranti di lusso, doppiopetti grigi ad emulazione del modello borghese della mid-high class, grande sfoggio di automobili di grossa cilindrata e così via. Questo elemento è in perfetta continuità con lo stile inaugurato dalla Universal Pictures e dalla MGM nel periodo interbellico, e Siodmak è probabilmente il primo cineasta a mostrare con ragionata organizzazione dei materiali l’importanza del fattore estetico nella parabola biografica di un criminale, molto più di quanto aveva fatto ad esempio Howard Hawks con Scarface (1932), e questa attenzione farà tendenza da allora in poi fino alla nostra epoca. Debitore del noir classico è invece il principio che vuole far scattare il meccanismo drammatico a causa di una dark lady che dovrebbe risultare inavvicinabile dal protagonista perché è la donna del capo, ruolo per il quale il regista ha sapientemente scelto una statuaria Ava Gardner appena ventitreenne. Poi ci sono i fattori tecnici, che sono ben più che dettagli. Decisiva è, ad esempio, l’incredibile capacità mostrata da Siodmak nel giocare con la profondità di campo in momenti di elevatissima tensione, come quando l’assicuratore rischia di essere raggiunto dai sicari e la macchina da presa, inquadrando gli esterni dell’edificio in cui si trova alla ricerca di indizi su Pete, riesce a restituire con grandissima efficacia la misura minima che separa la sua salvezza dalla sua morte, fino a generare sensazioni di profonda vertigine rese possibili soltanto dall’urbanistica della grande città, come abbiamo detto poco prima. Già perfezionata col precedente e fortunatissimo La scala a chiocciola (The Spiral Staircase, 1945), questa tecnica sarebbe diventata una lezione per tanti registi successivi. Anche la scelta di drammatizzare il momento della rapina optando per un lungo piano sequenza girato dalla posizione di un potenziale voyeur anziché alternando primi piani e controcampi avrebbe fatto scuola. Da allora in poi, ne abbiamo visti tantissimi di piani sequenza sviluppati secondo questa idea, in particolare proprio durante le riprese di criminali in azione, e l’intero filone dei gangster movies ne ha beneficiato per alcuni decenni.

Il modo opposto di riprendere un delitto, e in particolare un omicidio, ossia quando un regista desidera enfatizzarne proprio gli elementi di maggiore violenza, viene proposto magistralmente da Anthony Mann nella sequenza iniziale di T-Men (1947). Decisivi, per l’impatto visivo della scena, sono infatti i ritmi serrati di campo e controcampo con mdp posizionate da diverse angolazioni allo scopo di accelerare la suspense, ma non meno cruciale è l’apporto di John Alton, già direttore della fotografia in quasi 60 film prima di collaborare con il regista californiano. Erroneamente rubricato in molti manuali del cinema come noir (assegnazione palesemente improbabile, data l’assenza di femmes fatales o di altri personaggi femminili di rilievo), in realtà T-Men è una pellicola che avvia una riflessione di particolare interesse artistico, per questa epoca: come mostrare al pubblico episodi di efferata violenza portandone i particolari fino alle conseguenze estreme, ma senza rischiare di ridurre gli incassi per l’imposizione di divieti ai minorenni. La trama è riassumibile in poche righe: due agenti del Dipartimento del Tesoro (due Treasure-Men, da cui l’idea del titolo, che fa ovviamente il verso ai G-Men di James Cagney & Co.) si infiltrano in una banda di falsari particolarmente organizzata e spietata, nel tentativo di stroncarla; uno dei due viene però scoperto e ucciso, mentre l’altro riesce nella missione, anche grazie al supporto operativo di altri uomini del Dipartimento, che non a caso decise di coprodurre il film. La tremenda sequenza in cui O’Brien (Dennis O’Keefe) viene in buona sostanza torturato per mezzo di ripetuti, incessanti, rumorosi colpi sulle orecchie, a suo modo preannuncia future scelte analoghe come parte del corpo da sottoporre a torture o mutilazioni (si pensi al sadico Mr. Blonde, alias Michael Madsen, vs. il poliziotto Nash in Le Iene di Tarantino). Ma è l’intera idea filmica che può essere considerata davvero pionieristica, sia per motivi tecnici che stilistici, nell’esplorazione delle strategie di ripresa dei comportamenti violenti di criminali incalliti, ben più di quanto non lo siano stati lungometraggi degli anni Trenta del tipo Bullets or Ballots (Le belve della città, 1936) di William Keighley: i bulli armati alla Edward G. Robinson o James Cagney hanno ormai lasciato il posto alla generazione successiva.

Lo stesso tipo di merito va ascritto senza alcuna esitazione ad un lavoro come The Naked City (La città nuda, 1948), di Jules Dassin, prodotto da Mark Hellinger per la Universal Pictures. Girato in buona parte per le strade della Morgue, interpretato da Barry Fitzgerald e Don Taylor, il film è realizzato con un forte taglio da falso documentario (come dimostra l’inutile voce off imposta dal produttore contro il parere del regista) per far risaltare al massimo il potenziale di pericolosità intrinseco ad una città ipertrofica e tentacolare come New York City, autentica protagonista della pellicola. La trama è molto esile, proprio per non ostacolare il primato dell’ambiente: ad un ispettore di polizia e al suo assistente vengono affidate le indagini sull’omicidio di una ragazza dall’identità non molto chiara; quando i due scovano l’assassino, ha inizio un lungo inseguimento (tutto a piedi, con gli attori che in certi momenti sembrano quasi affogare tra le onde di cemento e acciaio degli edifici che li circondano) che culmina sul ponte di Brooklyn in una sparatoria fatale per l’omicida. Lo skyline di lower Manhattan assume tinte fosche e riesce a generare una paradossale sensazione di claustrofobia, quanto più i personaggi si agitano per le strade senza riuscire a trovare dei punti di riferimento stabili, oppure salgono su palazzoni alla ricerca di vie d’uscita che non possono esistere in una città che si è sviluppata prevalentemente in verticale. Si ha la sensazione di trovarsi «in una nuova oggettività che esalta gli edifici imponenti, le scale di sicurezza, i cortili interni, le strade, la metropolitana. Lo spazio urbano diviene così protagonista di una nuova scansione figurativa»5 che avrà molte conseguenze sui gangster movies del decennio successivo e sarà poi rigenerata ex novo solo da Martin Scorsese a partire da Mean Streets. Gli stessi newyorkesi “per bene” hanno dei volti che sfumano in dissolvenza progressiva verso quelli dei criminali, mentre l’abbigliamento ha perduto il suo valore sociale distintivo e anzi tende a confondere gli uni con gli altri. Tutto ciò senza mai ricorrere a facili clausole espressioniste ma, al contrario, facendo tesoro della lezione del neorealismo italiano declinata in direzione thriller. Il film di Dassin fu distribuito nelle sale americane senza limitazioni di età, mentre fu tagliato di alcune scene più crude nell’edizione britannica per non incorrere in divieti, e fu vietato ai minori di 16 o 18 anni in diversi paesi europei.

 

3.

All’inizio del decennio successivo il gangster movie ha ormai raggiunto una struttura talmente solida da potersi considerare dotato di un proprio canone e di una sintassi filmica matura. Il che permette di preservare la sua identità pur accettando momenti di contaminazione da territori contigui, come appunto il noir, ai quali non ha più nulla da invidiare. Sia le produzioni maggiori che quelle a basso costo hanno modo di giocare sulla linea di confine tra i generi, o al contrario anche di andare a fondo su articolazioni interne quali l’hard boiled, senza troppi scrupoli. Un buon esempio del primo tipo lo fornisce nel 1951 la RKO con Roadblock, di Harold Daniels. Sebbene il film risulti complessivamente attratto più dalla forza di gravità del noir che da quella del criminal, molti elementi testimoniano della sua doppia appartenenza. La trama è piuttosto complessa, per un lungometraggio di appena 72 minuti: l’investigatore assicurativo Joe Peters (Charles McGraw) sta per prendere un aereo che lo riporterà a Los Angeles, quando al gate dell’aeroporto incontra Diane (Joan Dixon), donna estremamente affascinante e molto sicura di sé, che si finge sua moglie solo per ottenere uno sconto sul biglietto. Il volo è costretto dal maltempo ad una sosta non prevista, e i due si ritrovano a dividere la stanza dell’albergo che ospita i passeggeri. Lui tenta di sedurla, ma viene gelato dalla risposta della donna, che gli dice chiaro e tondo di aver bisogno di un uomo in grado di garantirle un tenore di vita molto elevato, e non certo di uno che guadagna 350 dollari al mese. Poco tempo dopo, Joe e il suo collega Harry sono incaricati di svolgere indagini su un furto in un grande negozio di pellicce, il cui proprietario Webb (Lowell Gilmore), oltre ad essere palesemente coinvolto in faccende criminali compreso il furto allo scopo di intascare l’assicurazione, è l’amante attuale di Diane. I due si rivedono e questa volta scocca la scintilla anche in lei. A questo punto Joe passa dall’altra sponda e convince Webb e la sua banda a realizzare un grosso colpo rubando una notevole quantità di denaro che sta per arrivare in città con un treno i cui spostamenti sono ben noti a Joe grazie al suo lavoro. Nel momento in cui Diane gli rivela di avere voltato le spalle alla sua vita precedente e di voler stare con lui senza badare ai soldi, Joe si rende conto di essere stato risucchiato nel vortice del meccanismo criminale e di non potersi più tirare indietro. La rapina si verifica proprio mentre Joe e Diane sono in luna di miele, il che dà a lui un alibi ma non risolve il suo dilemma morale. Solo a questo punto lui le rivela ciò che ha fatto, e lei capisce all’istante perché lo ha fatto. Pochi giorni dopo arriva a Joe la sua parte del bottino, simbolicamente nascosta in un grosso estintore. Tramite la radio, Joe viene a sapere che durante la rapina uno degli impiegati delle ferrovie è morto (quindi al reato di furto si aggiunge ora l’omicidio colposo aggravato) e che uno dei rapinatori è stato identificato e arrestato. Questo gli fa perdere la testa: nel timore che si possa risalire a lui, Joe rintraccia Webb, lo uccide e tenta di simulare un incidente. Proprio il suo partner Harry mette insieme gli indizi e risale alle responsabilità di Joe che, ormai scoperto, prova a scappare in Messico con Diane ma non riesce nemmeno ad uscire dalla città e viene ucciso dalla polizia al termine di un inseguimento.

La componente più interessante del film, che da qualcuno è stato ingiustamente criticato come «a mixed bag with a few twists and turns, one of which almost derails the film’s impact»6, è la freddezza con la quale viene mostrata la metabolé di Joe, che da onesto investigatore diventa criminale per passione ma poi resta criminale per scelta, incarnando in tal modo una classica parabola tragica. Il fatto che sia una donna a far scattare il meccanismo appartiene ovviamente al repertorio del noir, ma il particolare che vede nel denaro il punto di non ritorno nella caduta del protagonista è invece tipico dell’hard boiled. Da questo punto di vista, non c’è molta differenza fra un film a budget ridotto come Roadblock e un lavoro maggiormente conosciuto come Sciacalli nell’ombra (The Prowler, anch’esso del 1951, commissionato dalla United Artists) di Joseph Losey, nel quale un poliziotto diventa un feroce assassino più per sete di denaro che per le malìe di una donna. Con questi film ha inizio un’opera di decostruzione dell’integrità morale del poliziotto, privato o pubblico che sia, che pochi anni dopo sfocerà nel mefistofelico Quinlan di Orson Welles. Ormai il criminale non è più l’“altro” da noi e, come gli ultracorpi del coevo film di Don Siegel, può in ogni momento sgorgare anche da un tranquillo borghese che addirittura lavora sul versante opposto dell’ordine sociale, quello della legge, e prendere il suo posto. In piena guerra fredda, dunque, è già in atto quel mutamento storico che stacca questa figura da un improbabile cielo di stelle fisse e la colloca fra quelli che Foucault definì gli «oggetti essenzialmente urbani [che] costituiscono un problema e riguardano la polizia»7 o comunque quei soggetti deputati alla tutela dell’ordine pubblico.

Ancora la RKO, alla fine di quello stesso anno, sforna un altro splendido film: The Racket (tit. ital. La Gang), per il quale si affida alla regia del veterano John Cromwell e ingaggia due solidi maschi alpha come Robert Mitchum e Robert Ryan. Si tratta in realtà di un remake dell’omonimo lungometraggio realizzato oltre vent’anni prima da Lewis Milestone e tratto da una pièce teatrale di Bartlett Cormack, che però in questo adattamento cresce molto di densità narrativa grazie alla sceneggiatura affidata a William R. Burnett, l’autore di Giungla d’asfalto. Stavolta la zona grigia che il film cerca di illuminare è quella che ipotizza l’esistenza di continuità occulte tra le organizzazioni criminali strictu sensu e le lobbies in grado di controllare il potere amministrativo in modi legali (non a caso, il titolo della versione tedesca del lungometraggio è Das Syndikat). L’azione si svolge lontano dalle megalopoli, in una cittadina del Midwest, dove è più facile che questi fattori di continuità trovino modo di esprimersi e ramificarsi senza incontrare troppe resistenze. Uno spietato gangster locale, Nick Scanlon (Ryan), specializzato nell’eliminazione fisica degli avversari dell’organizzazione, ha ormai a tal punto ecceduto con i suoi metodi, che comincia a dare fastidio anche ai potenti della rete per la quale opera. Il capitano di polizia McQuigg (Mitchum), che da anni indaga senza successo sull’organizzazione, coadiuvato da un poliziotto fidato (William Talman) si imbarca in una lunga sfida personale contro Scanlon, basata molto sulla fisicità dei due attori, resa particolarmente urgente dal fatto che la popolazione sta per votare il nuovo procuratore distrettuale, posto per il quale la rete criminale ha un suo candidato prediletto8. Dunque, potere legale e illegale sono presentati senza troppi scrupoli come del tutto contigui, se non complementari. Restano sul terreno numerosi cadaveri9 ma non quello di Scanlon, che alla fine sarà eliminato dalla stessa organizzazione. Cromwell, che rispetto a cineasti più giovani come il suddetto Daniels o Roger Corman ha una visione più classica delle tecniche di ripresa, preferisce la dialettica campo/controcampo e l’uso frequente del piano americano per riprendere sia i tutori dell’ordine che i malavitosi, cosa che però ci permette di apprezzare meglio la sostanziale specularità dei personaggi: abiti, sguardi, movimenti del corpo, perfino le acconciature (come si può notare dall’immagine qui riprodotta) sono pressoché identiche e non permettono allo spettatore di avere dei punti di riferimento certi per separare secondo uno schema dualistico chi difende la legge da chi se ne fa beffe. È ormai iniziata la nostalgia del criminalmente altro, che farà la fortuna del genere ancora per tutto il decennio e tornerà in modo prorompente dopo la crisi del gangster movie negli anni ’60-’70.

L’interferenza fra la grande politica e la tranquilla vita nella provincia americana come evento detonatore di grandi potenzialità criminali è al centro di Suddenly (Gangsters in agguato, 1954), di Lewis Allen, che aveva già firmato noir celebri come The Unvited (La casa sulla scogliera, 1944) e Chicago Deadline (Ultimatum a Chicago, 1949). Una placida ed immaginaria cittadina californiana, Suddenly, vede sconvolta la propria armonia dalla notizia improvvisa (Suddenly: nomen omen) che il corteo del presidente degli USA è destinato a passare di lì entro pochi giorni. Tre killer reclutati da non si sa chi, ma presumibilmente da qualche altro potente syndicate, si recano sul luogo e individuano nella casa della famiglia Benson la postazione ideale per realizzare il loro compito: uccidere il presidente sparando dal primo piano della casa all’arrivo del treno in stazione10. A capo del gruppo c’è un reduce di guerra, John Baron (Frank Sinatra), con la mente devastata dall’esperienza bellica e che manifesta diversi segni di squilibrio ma è estremamente lucido nell’organizzare l’azione. Lo sceriffo Tod Shaw (Sterling Hayden) si trova a passare per caso per l’abitazione dei Benson e viene sequestrato anch’egli, ma la sua ferrea dialettica contribuisce a rallentare la realizzazione dell’attentato finché, dopo un incidente di natura elettrica che elimina uno dei killer, Baron torna in sé e con grande freddezza si prepara a sparare, ma inutilmente perché il treno non si ferma in quanto era arrivata comunque una segnalazione alla sicurezza interna. In uno slancio di iperprotezione domestica, è la signora Benson (Nancy Gates) a sparare a Baron nello stomaco, e subito dopo lo sceriffo gli dà il colpo finale. Il film di Allen, prodotto dalla United Artists, è particolarmente interessante perché è uno tra i primi lavori cinematogarfici a proporre la relazione fra la sindrome da stress post-traumatico dovuto alla guerra e l’avvio di una carriera criminale che può sfociare in eventi clamorosi come l’uccisione del presidente degli Stati Uniti. Il reduce di guerra è il killer perfetto perché, come nel caso del personaggio interpretato da Sinatra, gli è del tutto indifferente chi deve uccidere, perché e per conto di chi: sotto le armi gli è stato insegnato a sparare, ha imparato a farlo bene e vuole continuare a farlo a condizioni utili per un’ascesa sociale rapida e senza troppe formalità burocratiche. In una nemesi storica piuttosto coraggiosa per un periodo in cui il Comitato per le attività anti-americane del senatore McCarthy era ancora in azione, la sceneggiatura di Richard Sale osa dunque suggerire come lo Stato possa produrre il criminale per i propri scopi e come il criminale possa ritorcere la sua abilità contro lo Stato per i propri interessi personali, entrambi sembrando del tutto indifferenti alla distinzione weberiana tra ragione dei mezzi e ragione dei fini.

La grande città, ma stavolta Los Angeles, torna in primo piano in Crime Wave (La città spenta, 1954, circolato anche col titolo The City is Dark), prodotto dalla Warner Bros. e diretto da André De Toth. La trama è piuttosto semplice: tre evasi dal carcere di San Quintino, nella loro fuga, uccidono un benzinaio e cercano rifugio in casa di un ex membro della loro gang, Steve (Gene Nelson), che ormai da tempo ha chiuso con il crimine. Qui uno degli evasi, che era rimasto ferito durante la fuga, muore e gli altri due minacciano in modi molto bruschi la moglie di Steve per imporgli, dapprima di mantenere il silenzio, e quindi di unirsi a loro per un ultimo grosso colpo in una banca. Terrorizzato, Steve prova a far sapere ciò che sta accadendo al tenente Sims (Sterling Hayden, anche stavolta dal lato della legge), suo agente di custodia cautelare, ma questi non gli crede e, al contrario, è convinto che stia tornando a violare la legge. Con uno stratagemma, Steve riesce comunque a far sapere al tenente dove sarà effettuata la rapina e la polizia fa irruzione nella banca al momento giusto, massacrando l’intera gang. Si salvano solo Steve e la moglie.Tra i meriti del film – oltre ad un utilizzo molto efficace e quasi gotico delle riprese notturne in esterni effettuate anche a Burbank e a Glendale, locations che piacquero moltissimo a Stanley Kubrick, il quale le imitò per il suo The Killing (1956) – c’è quello di proporre una sostanziale equivalenza tra i metodi usati dalla polizia e quelli tipici dei gangsters: sia gli uni che gli altri rifiutano fermamente il principio antropologico del cambiamento del soggetto e contribuiscono ad un’anacronistica cristallizzazione dei ruoli (criminale una volta, criminale per tutta la vita), sicché il film «insinua l’idea che sia impossibile sfuggire alla violenza della società circostante»11 e riesce allo stesso tempo a mostrare come tale violenza sia diffusa dappertutto e corrisponda, sebbene per ragioni apparentemente opposte, ad un’esigenza collettiva.

Ciò nonostante, il personaggio del gangster perfetto, completamente imbevuto di violenza criminale e quindi totalmente altro rispetto alla società borghese, continua ad esercitare il suo fascino, anche se diventa sempre più il fascino di un tipo umano che sta ormai sparendo dalla scena sociale, e forse soprattutto per questo motivo. Sempre più spesso, infatti, viene proiettato in un passato che, per quanto recente, comincia ad essere idealizzato e ad assumere coloriture sfocate, oppure si avverte l’esigenza di complicarne la struttura psichica con l’inserimento di fattori inusuali. È il caso del ferocissimo Machine-Gun Kelly (1958) di Roger Corman, biopic di un gangster realmente esistito, George R. ‘Machine-Gun’ Kelly, vissuto negli anni ’30 e qui interpretato dal trentaseienne Charles Bronson. Vittima di strane superstizioni e affetto da un evidente Edipo irrisolto, dopo una serie di azioni molto brutali – tra le quali l’indimenticabile sequenza in cui fa divorare da un puma il braccio di un socio che gli ha mancato di rispetto – si arrende alla polizia come un bambino tra le braccia dell’autorità paterna finalmente trovata. Anche il coevo Al Capone (1959) di Richard Wilson stilizza il periodo tra le due guerre come un Eden del crimine che ormai non esiste più. Ma ancora più interessante è Odds against tomorrow (Strategia di una rapina, 1959) del poliedrico Robert Wise, sempre per la United Artists. Tratto da un romanzo di William McGivern, la sceneggiatura è del grande Abraham Polonsky, il cui nome era nella black list del senatore McCarthy per le sue posizioni dichiaratamente di sinistra, e infatti il suo nome non appare fra i credits. Più che la rapina che si desidera realizzare, a cui infatti il film dedica solo pochi minuti nel suo epilogo, qui conta l’identità dei tre soggetti che si riuniscono per compierla, che incarnano tre aspetti “disturbati” della società americana alla fine degli anni ’50. Uno (Ed Begley) è un ex poliziotto sospeso dal servizio per corruzione e che vuole una rivalsa per la sua nuova condizione di emarginato, dalla quale sta ricavando solo un disturbo paranoide della personalità. Un altro (Harry Belafonte) è un cantante afro-americano totalmente posseduto dal demone del gioco. Il terzo (Robert Ryan) è un reduce di guerra che non è riuscito a trovare un lavoro da quando è tornato a casa e la cui psiche ha un enorme bisogno di nemici. La nevrosi da controllo del primo si scontra con l’irrequietezza degli altri due, e il razzismo palese del reduce nei confronti di Johnny (Belafonte) si scatena al punto da vanificare il tentativo di portare a compimento la rapina. Non esiste più alcun riscatto possibile, in una società che non vuole affrontare i propri demoni interni e non sa più mantenere, come nel passato, la sua promessa di offrire a tutti una seconda possibilità. Con un film come questo si può considerare a tutti gli effetti chiusa l’età dell’oro del gangster movie. Gli anni Sessanta, con le marce per i diritti civili, il kennedismo e il disgelo con Mosca, costringeranno la cultura americana sia mainstream che popolare a misurarsi con i propri limiti e ad elaborarli anche cinematograficamente.

 

4.

Il periodo che va grosso modo dal 1960 al 1973 è caratterizzato da un ripensamento complessivo del paradigma della crime story che l’industria americana del cinema aveva messo insieme nel corso del tempo. Il genere del gangster movie in senso stretto conosce perciò una fase di riflusso a favore di un lento processo culturale che ripensa alla detective story e al procedural come chiavi di accesso alla comprensione dei mutamenti sociali necessari a lasciarsi dietro le spalle il marcio del passato. Ciò accade anche di fuori dell’ambito cinematografico: tra il 1968 e il 1970 appaiono significative raccolte di saggi e racconti che spaziano dall’hard boiled alla speculazione critica sulle ragioni sociali della violenza criminale; nel 1969 fa il suo esordio uno specialista come James Crumley con One to Count Cadence (Uno per battere il passo), mentre Joyce Carol Oates pubblica il suo grandioso thriller sociologico Them; nelle università progressiste si discutono tesi di laurea o di dottorato su questi argomenti, fino ad allora snobbati dalla cultura accademica. La figura dell’investigatore inizia ad essere circondata da una nuova serie di aspettative e di ambiguità, che culmineranno nell’ispettore Klute (1971) di Alan J. Pakula, nel Marlowe di The Long Goodbye (1973) di Altman e nel J.J. Gittes di Chinatown (1974) di Polanski. Tutto ciò aiuta la formazione di nuovo humus sul quale eventualmente far crescere la terza generazione di gangster movies, ma ancora non basta per realizzare qualcosa di nuovo. C’è bisogno, come spesso accade in questi circostanze, di fare i conti con i fantasmi del passato per spingersi verso nuovi obiettivi. E non solo, occorre anche dimostrare che i nuovi formati di ripresa e l’uso del colore sono in grado di reggere la sfida e di non far rimpiangere il bianco e nero e i movimenti di macchina tradizionali.

In buona parte, questo è ciò che accade con Bonnie and Clyde (Gangster Story, 1967), di Arthur Penn, dove gli anni Trenta sono riproposti come cartolina rurale che raffigura un mondo inesorabilmente lontano, che galleggia in uno spazio-tempo ovattato e si dissolve sui propri contorni proprio come alcuni personaggi nei momenti in cui sono ripresi col procedimento flou. Molti temi presentano delle chiare allusioni alle questioni sociali di quel periodo: la coppia licenziosa (Warren Beatty e Faye Dunaway) che porta con sé il giovanissimo C.W. (Michael Pollard) e il padre del ragazzo che denuncia il figlio, temendo la sua metamorfosi in outsider sociale, fanno chiaramente pensare ai genitori che denunciavano alla polizia durante la Summer of Love i loro figli che andavano via di casa per unirsi alle comuni hippy; lo sfrecciare frenetico di Stato in Stato alla ricerca di una libertà che presenta una chiara valenza di rottura generazionale; il capitano di polizia Hamer (Denver Pyle) che si lascia affascinare dal comportamento della coppia e, dopo essere stato umiliato in modo piuttosto clamoroso, si fa fotografare insieme a loro perché desidera «to get my picture took with them two one more time»; la spropositata quantità di proiettili che raggiunge l’auto della coppia nel finale e che fa pensare, da un lato, alle raffiche sparate ogni giorno dai soldati americani in Vietnam e, dall’altro, alla volontà di chiudere i conti con le figure storiche della mitologia criminale, in modo da poter tornare a raccontare il presente. È stato inoltre notato dalla critica recente che il film di Penn ha inaugurato la tendenza a «rappresentare la violenza con lunghe scene al rallentatore, una moda in cui non è chiaro se prevalga la presa di distanza dalla violenza o invece la sua compiacente esaltazione»12 e che diverrà uno standard molto praticato negli action movies odierni, soprattutto da quando è stato introdotto l’otturatore ad alta velocità. Per la Warner Bros., che inizialmente non credeva neanche un po’ nel film, fu un successo clamoroso: costato circa due milioni e mezzo di dollari, il film ne incassò più di settanta in cinque anni di programmazione internazionale. A questo punto, i conti con il passato erano (quasi) del tutto regolati. Non a caso, in quello stesso 1967 viene girato anche un film come Point Blank (tit. it. Senza un attimo di tregua), di John Boorman, che sperimenta strutture narrative innovative, con una confusione temporale inedita per il genere e tecniche di ripresa nevrotiche opposte a quelle classiche come del film di Penn. Tutto questo per raccontare una semplice storia di vendetta di un rapinatore (Lee Marvin) finito ad Alcatraz perché tradito dal socio (John Vernon) al quale, una volta uscito dal carcere, restituisce il torto a modo suo coadiuvato dalla sorella (Angie Dickinson).

La coppia classica protagonista/deuteragonista, che nelle crime stories convenzionali tende ad incarnarsi del criminale che dilaga e nel poliziotto che gli si oppone (o viceversa), si aggiorna con un film come il Dillinger (1973) di John Milius, che pure rivisita gli anni della grande depressione ma cercando di esportarvi dinamiche più moderne, tanto che il cineasta avverte il bisogno di una voce off per tenere le redini della narrazione. Le vicende del rapinatore John Dillinger (Warren Oates) si intrecciano con quelle del cinico agente dell’FBI Purvis (Ben Johnson) secondo un’idea kharmica che li vuole come coppia inesorabile, costruzione applicata tante volte anche al western e utile a conferire un tono epico alla storia. Ognuno dei due è portatore di un codice di comportamento rispettoso dell’altro e che evidentemente ha bisogno del passato per esprimersi, non essendo più attuale, ma che dal presente trae quella forza motrice che esplode nei rispettivi episodi di violenza, che alludono ai metodi brutali della polizia americana negli anni ’70 e a quelli, altrettanto estremi, dei criminali dalla pistola facile. Tutto ciò proprio nell’anno in cui il GSS (General Social Survey) stila il primo censimento ufficiale sulla detenzione di armi da fuoco nelle case degli americani e così l’opinione pubblica scopre che circa il 50% dichiara di possederne13, mentre oggi la percentuale è scesa al 32%. Da un punto di vista strettamente cinematografico, va sottolineato il debito di Milius nei confronti del suddetto Machine-Gun Kelly di Roger Corman nella sequenza che mostra l’arresto del gangster, riproposta praticamente immutata; ma il merito maggiore del film sta nella totale assenza di limiti nel riprendere con la mdp Eclair NPR in posizioni variabili i momenti di maggiore violenza, nonché nell’inserire sequenze in bianco e nero per generare un distacco temporale con il presente narrativo a colori. Gli anacronismi che sono stati sottolineati dalla critica contano molto meno dei pregi, nel primo lungometraggio importante firmato da Milius, cosa che difficilmente può essere detta della recente riproposizione del personaggio di Dillinger realizzata da Michael Mann con Public Enemies (2009), in parte remake del film di Milius.

Ma probabilmente la “perdita dell’aura” di cui l’epoca della Great Depression era stata circondata nelle sue rielaborazioni culturali, in realtà, era già avvenuta l’anno prima con Boxcar Bertha (1972) del quasi esordiente Martin Scorsese, film che nella sua versione italiana ha dovuto rassegnarsi a subire un titolo da cartone animato come America 1929: sterminateli senza pietà. Analogamente, la brutalità dei poliziotti affetti da delirio di onnipotenza era già stata esibita in modo magistrale da William Friedkin in The French Connection (Il braccio violento della legge, 1971). Pur non essendo due crime stories in senso stretto, questi due lungometraggi aggiornano la lezione sulla condizione degli outlaws espulsi dalla macchina sociale durante le crisi economiche e sulla metropoli come inferno criminale a cielo aperto che produce disagio a getto continuo. Ed è per questo che il passo successivo non può che consistere nel ritorno brutale al presente, che possiamo considerare iniziato in modo spettacolare con Mean Streets (1973) di Martin Scorsese: vero e proprio studio antropologico sul conflitto norma-trasgressione nella Little Italy newyorkese in cui il grande regista è nato e cresciuto. Le riprese per le strade di Manhattan fatte soprattutto con macchine a mano Arriflex, la scelta di interpreti (De Niro, Richard Robinson, etc.) che sono allo stesso tempo dei tipi umani ben noti al regista (gli spacconi di strada e i gregari dementi che li seguono come pecore), quando non sono il suo immediato alter ego (Harvey Keitel, che viene da una famiglia di ebrei polacchi trapiantati a Brooklyn), la scelta di non lasciarsi dominare né dall’autorità della Warner né dal dogma della sceneggiatura, pure firmata dal regista stesso, conferiscono alla pellicola una dinamicità che altri registi avrebbero pagato per ottenere. «Gran parte delle improvvisazioni del film furono registrate durante le prove e inserite nella sceneggiatura trascrivendole da quelle registrazioni. Alcune scene, come quella nella quale De Niro e Keitel lottano scagliandosi conto i bidoni della spazzatura, furono improvvisate durante le riprese»14, ha raccontato il regista. Questa irriverenza nei confronti dei metodi tradizionalmente usati dagli studios (dettati da sempre dalla loro ansia da controllo sul lavoro del regista), unita ad un citazionismo naïf che insiste soprattutto su immagini tratte da film di Roger Corman e di Fritz Lang, dà a Mean Streets una freschezza rara anche per gli anni Settanta. Allo stesso tempo, fa scoprire a Scorsese quanto l’improvvisazione possa essere un valore aggiunto nella realizzazione di una pellicola e non necessariamente un demone da legare. Sicché, pur non essendo un gangster movie, Mean Streets – con il suo celebre esergo di sapore biblico: «You don’t make up for yous sins in church. You do it on the streets» («I peccati non si scontano in chiesa. Si scontano per le strade») – può essere considerato il film che imprime alla genealogia di questo genere cinematografico la sua terza svolta, per il modo in cui propone un nuovo tipo di umanità in grado di generare nuove forme criminali. Da questa esperienza filmica in poi, lo spettatore sa che esistono (per parafrasare il plurale del titolo) strade non ancora battute in grado di mostrare il marcio della società con soluzioni stilistiche di ogni tipo e senza inventarsi tipi umani troppo lontani dalla realtà. Allo stesso tempo, sente che si aprono nuovi scenari per l’esibizione della violenza come fattore attrattivo ed estetico, che può tranquillizzare catarticamente o al contrario insinuare tremende perplessità sui fondamenti stessi del nostro vivere collettivo. Come Žižek ha giustamente notato, anche se con riferimento ad un altro contesto, «dovremmo sempre tenere a mente l’effetto enormemente liberatorio di questa violenza, che ci fa sperimentare il nostro stesso background culturale come contingente»15 poiché, quanto più lo avvertiamo come contingente, tanto più reagiamo a tale fragilità, magari in modi anche opposti, ma di sicuro questa sensazione coinvolge e catalizza generando Spannung narrativa, curiosità morbosa, perfino collante sociale.

Lo stesso tipo di dinamica riguardante l’esplosione ipertrofica della violenza può essere riscontrato nello Scarface di Brian De Palma (1983), sceneggiato (è il caso di ricordarlo) da Oliver Stone e realizzato per la Universal Pictures. Le colossali differenze esistenti rispetto all’originale di Howard Hawks del 1932 non dipendono solo dalle diverse epoche, ma dal fatto che il cinema ha 50 anni di storia in più, quando De Palma decide di trasformare una crime story in una grandiosa epica della malavita. Sicché, mentre Hawks avvertiva l’esigenza di moltiplicare rinvii esterni alla storia che voleva raccontare per darle più sostanza (tanto da dichiarare che non voleva affatto «fare un film di gangster ma descrivere la famiglia Capone come se si trattasse dei Borgia di Chicago»16), De Palma può invece ricorrere ad innumerevoli esperienze e suggestioni tutte interne alle conquiste cinematografiche degli anni ’60 e ’70, posizionandosi così anche da una prospettiva inconsapevolmente postmodernista. L’enorme, colossale, fumettistica dilatazione delle scene dedicate all’eliminazione degli avversari e in generale alle sparatorie, in particolare la memorabile sequenza finale, mostrano come nei 170 minuti di questo lungometraggio il cinema criminal abbia raggiunto una maturità sintattica, stilistica ed iconografica impensabile fino a pochi anni prima e nella quale confluiscono anche numerose soluzioni adottate dai serial TV polizieschi degli anni ’70 o da altri codici espressivi mutuati dalla cultura pop di quel periodo. C’è poi un valore aggiunto, che riguarda il sistema dei personaggi più o meno canonico in questo tipo di film. Fino a tutti gli anni ’60, un po’ per esigenze interne al genere, un po’ per il debito storico contratto con il più prestigioso noir, le figure femminili avevano sempre occupato un posto relativamente marginale e funzionale alla narrazione della parabola del boss. Invece l’Elvira (Michelle Pfeiffer) di Scarface produce degli effetti diversi dal solito e non adeguatamente valutati dalla critica. È sempre la donna del capo che il parvenu del crimine non dovrebbe nemmeno guardare negli occhi e per la quale invece perde la testa, ma in particolare la lunga sequenza a bordo piscina nella quale contano più i silenzi che i dialoghi testimonia di un Selbstbewußtsein che agisce nella mente di Tony Montana e che è inedito in questo tipo di personaggio: egli “sente” benissimo che, qualunque cosa riuscirà a fare nella sua carriera criminale (compresa l’uccisione proprio di Frank Lopez, che non è solo il suo capo ma un freudiano padre simbolico nelle gerarchie del mondo criminale) non potrà mai essere degno di lei. In quella sequenza, Tony si rende conto che potrà anche riuscire a creare un sistema di potere tale da calamitarla al proprio fianco per un periodo, ma resterà un cafone cubano eternamente indegno di lei. E da questo dipenderà in modo decisivo la sua καταστροφή personale. In parte, già Milius aveva tentato di introdurre questo meccanismo nel suo Dillinger, ricorrendo alla splendida Michelle Phillips (ex californian girl dei Mama’s & Papa’s che negli anni ’70 interpretò alcuni film) per il ruolo di Billie Frechette, ma mancava ancora quella pulsione nichilista che spinge invece Tony Montana verso la propria morte come liberazione da questo tormento interiore che né i soldi né le armi né tanto meno il lusso ultrakitsch conseguito col traffico della cocaina avrebbero potuto risolvere.

Il passo successivo, e a tutt’oggi l’ultimo che abbia dimostrato di poter ulteriormente rinnovare il gangster movie17, lo compie Quentin Tarantino con Reservoir Dogs (Le iene. Cani da rapina, 1992). Qui il film basato sulla rapina come atto di emancipazione sociale, quello che in termini tecnici è definito Hold-Up, si arricchisce di apporti linguistici ancora non utilizzati in questo genere cinematografico: la graphic novel, la compiacenza splatter, il citazionismo autoreferenziale, la struttura a mosaico formata da flashback distribuiti con grande sapienza, un uso della musica pop da vero cultore. Lo humour nero con cui i dialoghi introducono nel film elementi di estrema drammaticità trasformandoli in battute affilate come lame di coltelli, alternate a scontri verbali che invece sembrano voler ribadire allo spettatore che pur sempre di finzione si tratta, è uno dei motori portanti del meccanismo tarantiniano. L’onomastica dei personaggi (mr. White, mr. Orange, mr. Blonde etc.) è talmente fumettistica ma allo stesso tempo così efficace da dare l’impressione di essere usata da sempre, mentre il geniaccio di Knoxville la mutua dall’unico precedente noto, The Taking of Pelham 1-2-3 (1974) di Joseph Sargent; e anche quella minima parte è tale solo in chiave di autoreferenzialità filmica, di gioco comunicativo, quindi come clausola postmodernista di un cinefilo ossessivo-compulsivo che ha trascorso la sua adolescenza fra le videocassette e le sale cinematografiche elaborando spunti che, opportunamente concertati tra loro, avviano quella nuova “estetica delle modalità di rappresentazione cinematografica” di cui parla Laurent Jullier18. Perfino l’idea del completo nero identico per tutti i membri della squadra-gang e al quale il regista aveva pensato fin dallo storyboard che ha preceduto le riprese, è anch’esso solo in minima parte debitore di un cult movie come A Better Tomorrow II (1987) di John Woo, come pure giustamente è stato notato19, ma anzitutto manifesta in forme nuove quella nostalgia della figura criminale come socialmente e visivamente altra, che appartiene ad un passato ormai lontano ma che può continuare ad esistere se opportunamente aggiornata nel suo repertorio di base: idioletto, gestualità, abbigliamento, spregiudicatezza e (il particolare a cui forse Tarantino tiene maggiormente, visto che ritorna anche in Pulp Fiction e in Jackie Brown) una professionalità che lascia a bocca aperta lo spettatore borghese terrorizzato, sia quando riesce in modo spettacolare che quando fallisce miseramente. Il completo nero dipende da quello: dalla professionalità tecnica del criminale che, in un mondo di improvvisatori e dilettanti (ad ogni livello dell’edificio sociale), sa il fatto suo e non ha bisogno dell’approvazione pubblica. Dunque, nel suo terzo ed ultimo paradigma storico, il gangster del cinema americano ha smesso di soffrire di sindromi da comparazione con il capitalista ed è diventato indifferente anche nei riguardi delle forze dell’ordine, che ancora insistono su un codice linguistico superato. Il suo fattore di distinzione sociale è dentro di sé ed è reso possibile da una fisionomia ormai adulta, con i suoi cento anni di storia che in queste pagine abbiamo cercato di ripercorrere quanto meno nelle sue tappe salienti.

 

Note con rimando automatico al testo

1 R. Warshow, Movie Chronicle. The Western, in: «Partisan Review», n.2 / 1954.

2 Cfr. J. Shadoian, Sogni e vicoli ciechi. Il cinema gangsteristico americano, a c. di P. Portoghese, Edizioni Dedalo, Bari 1980.

3 L’immagine qui scelta è tratta da Drunken Angel (1948), di George Anastasia.

4 H.M. Enzensberger, Politica e crimine. Nove saggi, a c. di D. Zuffellato, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 25.

5 R. Venturelli, Gangster e detective. Il cinema criminale , in: AA.VV., Storia del cinema mondiale, II, vol. 2, Einaudi, Torino 2000, p. 1199. Su questo argomento, cfr. anche AA.VV., Lampi metropolitani. Generi e città nel cinema americano, a c. di F. Moro e P. Romano, Cierre Edizioni, Verona 1994.

7 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione (corso al Collège de France 1977-1978), a c. di F. Ewald e A. Fontana, Feltrinelli, Milano 2005, p. 241

8 In quegli stessi mesi, il senatore democratico Estes Kefauver – che aveva appena terminato il suo incarico di capo della Commissione Speciale del Congresso sulla delinquenza – aveva pubblicato un libro, Crime in America, basato sui dati raccolti dalla Commissione e poi tradotto anche in italiano, nel quale aveva insistito moltissimo sulla continuità tra apparati legali dello Stato e organizzazioni criminali: cfr. E. Kefauver, Il gangsterismo in America, Einaudi, Torino 1959.

9 Nella sequenza che mostra l’incidente dell’auto di Scanlon, una Chrysler Crown Imperial del 1949 – autovettura di gran lusso – viene sostituita nelle riprese ravvicinate da un modello più vecchio e molto meno costoso, sacrificato per la causa filmica. Anche se alcune inquadrature ravvicinate mostrano le non numerose differenze fra i due modelli, e il regista ne era perfettamente consapevole, accorgimenti di questo tipo erano necessari in quegli anni e oggi fanno una certa tenerezza.

10 Per molti anni è stato detto che Lee Oswald avrebbe visto più volte questo film e ne avrebbe ricavato lo spunto per l’agguato di Dallas, ma non esistono conferme di questa ipotesi.

11 R. Venturelli, Gangster e detective. Il cinema criminale , cit., p. 1204.

12 J.-L. Bourget, Il cinema americano da David W. Griffith a Francis Ford Coppola, a c. di R. Licino, Edizioni Dedalo, Bari 1985, p. 154.

13 Cfr. l’articolo di John Sides: The Declining Culture of Guns and Violence in the United States, in rete al seguente url: http://themonkeycage.org/blog/2012/07/21/the-declining-culture-of-guns-and-violence-in-the-united-states/.

14 D. Thompson e I. Christie (a cura di), Scorsese secondo Scorsese, Ubulibri, Milano 1991, p. 69.

15 S. Žižek, La violenza invisibile, a c. di C. Caporato e A. Zucchetti, Rizzoli, Milano 2007, p. 149.

16 Dichiarazione che appartiene ormai al folklore cinematografico; cfr. anche P. Mereghetti, Dizionario dei film 2011, B.C. Dalai Editore, Milano 2010, p. 2950.

17 Il motivo per cui tralasciamo da questa analisi opere come Il padrino, Quei bravi ragazzi o anche Gli intoccabili dipende dal fatto che qui ci interessa il gangster movie nelle sue diverse articolazioni possibili, mentre i film sulla mafia sono un mondo a sé. Pur ospitando dinamiche tipiche della crime story, la mafia è un soggetto cinematografico autonomo che finisce per offuscare queste dinamiche.

18 Cfr. L. Jullier, Il cinema postmoderno, a c. di C. Capetta, Kaplan, Torino 2006.

19 Cfr. D. Terribili, Quentin Tarantino. Il cinema “degenere”, Bulzoni, Roma 1999.