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Il segreto dei suoi occhi, di Juan Josè Campanella





Il segreto dei suoi occhi

(
El segreto de sus ojos)

di Juan Josè Campanella


con Soledad Vilamil, Ricardo Darin

Tornasol Films, 2009










Scrivere è il modo migliore di fare i conti con se stessi e i propri ricordi: rievocare attraverso le parole il modo in cui abbiamo vissuto e condotto certe nostre azioni ci aiuta a capire dalla giusta distanza ciò che è stato, ma anche dove abbiamo sbagliato e come sarebbe stata la nostra vita se avessimo avuto il coraggio di fare ciò che davvero volevamo e non abbiamo scelto.

Il segreto dei suoi occhi (El segreto de sus ojos, 2009, Oscar 2010 come miglior film straniero) del pressochè sconosciuto regista argentino Juan Josè Campanella (che fuori del suo paese ha diretto alcuni episodi delle serie tv House e Law & Order) ci aiuta a comprendere la forza catartica della scrittura, attraverso il lungo flashback (intervallato da flashback più brevi) del protagonista Benjamín Esposito (Ricardo Darín), un assistente del pubblico ministero del tribunale di Buones Aires in pensione, che rievoca in un romanzo che sta scrivendo la parte centrale della sua vita, gli anni Settanta: il suo lavoro, l’incontro con la donna, il nuovo cancelliere Irene Menéndez Hastings (Soledad Villalmin) a cui non ha mai dichiarato il suo amore e l’efferato delitto rimasto impunito che è la causa principale della sua inquietudine di fondo.i

La grande intuizione di fondo del film sta proprio nel rapporto dialettico tra scrittura e immagini di ricordo: mentre la prima parte e la parte centrale raccontano con i flashback quello che nel romanzo è stato scritto (per cui le immagini dipendono dalla scrittura), nella parte finale il rapporto si rovescia, e sono le immagini cinematografiche a costruire il racconto ancora tutto da scrivere con il memorabile colpo di scena dell’epilogo. La scrittura si è resa necessaria per la comprensione del passato, ma serve soprattutto per preparare l’irruzione della vita nel presente (siamo nel 1999) e nel futuro. Il cinema, in altri termini, ha bisogno della scrittura ma alla fine riesce con il suo linguaggio per immagini a determinarne le condizioni di possibilità.

Al centro dell’azione è appunto il caso Morales: una giovane donna molto bella, Liliana Morales Colotto (Carla Quevedo), viene stuprata e uccisa in modo efferato da un amico d’infanzia che l’aveva sempre desiderata senza essere ricambiato. Un collega–rivale di Esposito, Romano, fa accusare ingiustamente due operai che lavoravano nel palazzo estorcendone la confessione con la tortura. Esposito li fa scagionare e riesce ad individuare l’assassino da un dettaglio degno del miglior Montalbano: durante la visita al marito della vittima, Ricardo Morales (Pablo Rago), si accorge, sfogliando gli album delle foto della vittima, che si vede spesso un giovane che la guarda insistentemente, identificato come Isidoro Gómez (Javier Godino), l’assassino che farà subito perdere le proprie tracce.

Determinato dal rapporto scrittura-immagini, il film è dettato soprattutto dall’intreccio dei temi emotivi (l’amore e l’amicizia) e delle riflessioni di ordine giuridico-morale che si sovrappongono ad essi.

 

L’amicizia viene alla luce nel rapporto tra Benjamin e il suo assistente alcolista Pablo Sandoval (Guillermo Francella), che sarà determinante nella risoluzione del caso. Entrambi, senza avere un mandato di perquisizione, entrano di nascosto nella casa della madre di Gómez a Chivilcoy (che è anche la città di origine della vittima) e riescono a sottrarre delle lettere dell’assassino che in un primo momento non daranno indizi importanti per incastrarlo e soprattutto trovarlo (e per questo il caso viene in un primo momento archiviato). Tuttavia sarà proprio Sandoval a scoprire, parlando con gli amici del bar che frequenta, che nelle lettere di Gómez ci sono continui riferimenti a calciatori della sua squadra del cuore, il Racing Club de Avellaneda. «Un uomo non abbandona mai la propria passione», afferma Sandoval, e sarà proprio nella scena memorabile girata in esterno (un long take più che un piano sequenza) allo stadio del Club Atlético Hurácan che l’assassino sarà finalmente catturato. In un interrogatorio a la David Lynch, Irene e Benjamín riusciranno a far confessare Gómez (soprattutto grazie a Irene che, con un audace bluff, ferirà l’orgoglio virile dell’uomo).

Questi sarà processato e condannato all’ergastolo, ma dopo un mese Romano lo farà liberare come collaboratore di giustizia per assoldarlo come guardia del corpo di Isabel Perón. Questo è il primo segnale dell’intentio del regista (e dell’autore del romanzo da cui è tratto il film, Eduardo Sacheri,ii che collabora alla sceneggiatura) di far emergere la denuncia morale e giuridica tra l’applicazione della legge nell’assegnare la giusta pena e l’ineffettualità della stessa per chi si trova al potere (quindi al di sopra di essa). L’assassino in questo caso non solo non è punito per aver commesso un feroce omicidio, ma viene messo nell’assoluta libertà di decidere di disporre della vita degli altri, a partire dai suoi stessi accusatori.

Com’era prevedibile, infatti, alcune settimane dopo Gómez manda dei killer a casa di Esposito per ucciderlo, ma a sacrificarsi è Sandoval che si trova in quel momento a casa dell’amico, che lo ha prelevato ubriaco dal bar mentre sta litigando con un altro cliente. Un indizio importante permette a Esposito di ricostruire la dinamica dell’omicidio: trovando nella stanza le cornici con le sue foto nascoste alla vista comprende che l’amico si è sacrificato per lui, assumendone l’identità di fronte agli aggressori che volevano ucciderlo.

L’amore mai dichiarato esplicitamente (e ricambiato) di Benjamin per Irene si muove parallelamente alla fedeltà assoluta nella memoria di Morales per la moglie morta.

Nella scena-chiave della stazione, quando Benjamin, costretto a lasciare Buenos Aires perché la sua vita è in pericolo, saluta Irene per l’ultima volta, lei rincorre il treno che parte (e le loro mani, separate dal vetro del finestrino del vagone, si toccano idealmente per un attimo), ma questo non è ancora sufficiente per farli stare insieme. È come se lui non fosse pronto per ascoltare i suoi sentimenti, forse perché non si sente adeguato (lei è un suo superiore che sta per sposarsi con un altro e proprio in quel momento sta per iniziare una nuova vita lontano dalla città in un paesino di periferia, Jujuy, dove rimarrà dieci anni prima di tornare a Buenos Aires).

 
Tuttavia, a differenza della vita quotidiana dove quasi sempre restano solo i rimpianti e la nostalgia di ciò che è passato e perduto per sempre, la forza dell’immaginario cinematografico riesce a recuperare quello che non è stato e nella scena conclusiva del film, i due, dopo venticinque anni, potranno finalmente stare insieme (anche se non è detto in che modo e viene soltanto accennato che sarà complicato, in quanto lei è sposata con due figli, a differenza di lui che si è separato dalla moglie). A questo amore volutamente non coltivato si alterna nel film l’amore forzatamente basato sui ricordi di Morales per la moglie defunta, che è la vera chiave del film.
Tornando indietro per un attimo, dopo circa un anno dall’omicidio e la prima archiviazione del caso, Esposito incontra per caso Morales alla stazione ferroviaria e scopre che egli trascorre regolarmente il suo tempo libero in varie stazioni della città nella speranza di poter individuare l’assassino (di cui ha solo una foto). Subito dopo, come abbiamo già detto, il caso sarà riaperto e l’assassino sarà trovato, condannato e definitivamente liberato.

La fine del flashback principale ci riporta all’inizio del film, quando Esposito, che sta scrivendo il romanzo soprattutto perché non ha mai accettato l’impunità dell’assassino nel caso Morales, decide di andare a trovare Morales nella casa di campagna alla periferia di Buenos Aires in cui si è trasferito nel 1975. L’incontro tra i due dopo molti anni determina una situazione paradossale, in quanto il marito sembra rassegnato a non pensarci più e invita Benjamin a dimenticare il passato. Il regista però ci fornisce un primo indizio importante: le foto presenti nella casa della moglie morta suggeriscono, insieme alla solitudine dell’uomo che non si è più risposato, che il passato è tutt’altro che dimenticato. Esposito non può e non vuole dimenticare, perciò costringe Morales a confessare di avere ucciso Gómez dopo averlo sequestrato.

Tuttavia Esposito, dopo aver lasciato la casa comincia a riflettere sulle parole di Sandoval, «un uomo non abbandona mai la propria passione» e si convince che un uomo contrario alla pena di morte e che avrebbe voluto che l’assassino soffrisse per l’omicidio commesso e per il vuoto che gli ha lasciato in eredità, non può avere ucciso. Torna di nascosto alla casa di Morales e attende finchè la sera lo vede che si reca nel fienile. Dietro la porta, vede all’interno una cella oscura in cui si trova prigioniero un ormai invecchiato Gómez.

Ormai è chiaro che accanto e dietro le immagini il film nasconde un piano più alto che riguarda la filosofia morale. Proviamo a leggere il film da questo punto di vista: è giusta o meno la pena di morte? Il marito della vittima in una scena iniziale afferma di essere contro la pena di morte, perché non si punisce davvero chi commette un grave delitto con una semplice iniezione indolore che lo accompagni alla morte nel sonno. Non ci sarebbe alcun indennizzo (perché è solo di questo che si tratta). Il ragionamento è tutto incentrato sulla pena che in ogni caso non può rendere giustizia, in quanto non potrà mai restituire la vittima né lenire il dolore e il vuoto che rimangono per sempre nei familiari. La differenza tra diritto e giustizia messa in luce da Walter Benjamin nel celebre saggio del 1921 Per la critica della violenzaiii appare qui in tutta la sua paradossalità: il modo migliore di punire non è togliere la vita all’assassino ma semmai allungargliela. Solo così si renderà conto, come dice in questa scena memorabile, che saranno anni pieni di niente. La dialettica del ragionamento solo così funziona efficacemente: laddove nel rapporto vittima-assassino non si può esigere giustizia (perché l’ucciso non può essere restituito alla vita, né indennizzato), si può però trovare una forma di riparazione/equiparazione solo nel campo del diritto, ma soltanto tra l’assassino e il familiare della vittima (in questo caso il marito). Essendo stata spezzata definitivamente la felicità coniugale e qualsiasi progetto per il futuro per il marito, allo stesso modo deve essere irrimediabilmente compromesso il futuro dell’assassino, che per legge deve scontare l’ergastolo per il crimine commesso. Qui l’equiparazione assassino-familiare funziona perfettamente soltanto nei termini di un puro rigorismo morale kantiano, e cioè nel puro vuoto dell’esistenza a venire che accomuna entrambi per motivi diversi (il dolore in un caso, la pena nell’altro), che non permette assolutamente violazione alcuna della forma morale/giuridica: il marito non potrà e vorrà riprogrammare il suo futuro nel senso della felicità che si contrappone alla vuotezza della vita (magari con un nuovo matrimonio, con la nascita di figli, ecc.), né l’assassino potrà (e dovrà) sfuggire alla sua pena. In realtà quel che si decide sul piano morale non sempre trova il suo corrispettivo sul piano giuridico. L’assassino condannato all’ergastolo torna in libertà ed acquisisce una certa immunità per la vicinanza al potere politico e giudiziario che lo protegge. Di conseguenza, ciò che la legge non garantisce e che viene richiesto dagli spettatori all’unanimità, deve essere fatto, e qui il film, nell’indimenticabile scena finale, offre l’occasione per un’ulteriore radicale riflessione: è giusto violare la legge per farla rispettare e, soprattutto, per fare giustizia almeno sul piano morale? La risposta è decisamente positiva: il marito infatti ha trovato da solo l’assassino e lo ha imprigionato in una casa di campagna in periferia per venticinque anni. A Esposito che lo guarda stupito il prigioniero chiede soltanto che il suo carceriere gli parli (non c’è mai stata alcuna comunicazione fra loro durante gli anni della prigionia), mentre il marito è perentorio: “Lei mi disse ergastolo”. E così è stato, una vita vissuta inutilmente nel vuoto e nel niente per entrambi senza comunicazione, senza nessun rapporto interpersonale, in piena solitudine. Un determinato punto del passato, il delitto della donna, ha sospeso la linea del tempo in modo irreversibile, senza più presente e futuro per entrambi gli uomini, deciso in termini morali dall’uno e subìto come violenza giuridica dall’altro.iv

 

Note al testo

i  Riporto di seguito un paio di giudizi sul film in generale tratti dal web. Scrive Nicoletta Dose su My Movies (www.mymovies.it ): “Il film di Juan José Campanella è un thriller dalle implicazioni legali, ma è anche un'opera sentimentale sull'amore impossibile, oltre che una storia politica di denuncia morale. (…) Gli avvenimenti si concatenano l'uno con l'altro, scorrono lungo la via del tempo, mettendo a fuoco un particolare momento storico (la dittatura militarista argentina tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta) ma, nell'operazione, si inserisce anche la volontà di rappresentare una storia piccola, tenuta in piedi da pochi personaggi, per riflettere sul comportamento umano universale.
Questo equilibrio tra privato e pubblico è la forza del film, un contenitore di emozioni che rimane nascosto dentro le mura di stanze buie e palazzi squadrati (le scene importanti sono girate in luoghi chiusi, ad esclusione del piano sequenza allo stadio), ambientazioni simboliche - prigioni più che case ospitali - che racchiudono l'ansia del vivere, in attesa di essere raccontata. Anche attraverso la scrittura di un libro”.

Scrive Carlo Cerofolini su Ondacinema (www.ondacinema.it): “Campanella costruisce un'opera in controtendenza, non solo perché racconta una storia d’amore senza scorciatoie né ammiccamenti (la sensualità deriva dallo sguardo e non dall’esposizione delle carni), ma soprattutto per la forza di una sceneggiatura capace di stare in piedi da sola, senza bisogno di distrarre il suo pubblico con i giochi di prestigio della macchina da presa.
Un cinema che riesce ad alludere senza dare la sensazione di farlo – il primo piano degli occhi per fissare una risposta mancata o una prospettiva sfalsata per acuire il senso di angoscia dei protagonisti”.


ii  E.Sacheri, Il segreto dei suoi occhi, BUR, Milano 2010.


iii  Cfr. Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Id. Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1962, pp. 5-30.


iv  Analizzando il film dal punto di vista tecnico, condivido il giudizio di Nicola Di Francesco che su FilmUp (http://filmup.leonardo.it ) scrive: “Campanella dirige un cast convincente e gira con piglio creativo costruendo sequenza dopo sequenza una pellicola dal meccanismo seducente e vi conferisce un marchio stilistico personale, al quale contribuiscono il peculiare uso delle angolazioni, i minuziosi primissimi piani, le inquadrature soventemente decentrate e l’utilizzo icastico della soggettiva. La macchina da presa del regista scruta, ascolta, spia, medita”.