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The Master, di Paul Thomas Anderson




THE MASTER


di Paul Thomas Anderson


con Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Laura Dern.


USA 2012, 136 min.

 








La dialettica servo-padrone è stata ripetutamente toccata nella cinematografia moderna, alle volte con picchi artistici notevoli seppur nel rigore delle forme tradizionali (The Servant di Joseph Losey, 1963), altre volte con elaborazioni più o meno estreme e che spesso insistono (è il caso di tanti film di Wakamatsu Koji, ma anche di lavori come Lunes de fiel di Roman Polanski, 1992) sulle sue irruzioni nel campo della dominazione psicologica e sessuale. Sebbene allo spettatore europeo venga spontaneo associare questo rapporto alla ben nota figura della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, dove a distinguere i ruoli è principalmente il fattore del lavoro – l’atto molto concreto ed estremamente prussiano dello sporcarsi le mani con il mondo, che genera quell’emulsione liberatoria del Dienst che conduce all’Aufhebung hegeliana del binomio –, in realtà l’argomento è molto più antico ed è stato toccato anche da civiltà poco occidentali e in epoche estremamente remote. Un testo accadico del periodo cassita (XIII-XII sec. a.C.) che è stato intitolato Dialogo pessimistico è costruito su un breve, serratissimo dialogo tra uno schiavo e il suo signore, dove quest’ultimo, messo in difficoltà dai ragionamenti del servo, quando non ne può più minaccia di ucciderlo e lo schiavo gli risponde fulmineo: «E potrà il mio signore sopravvivermi per tre giorni?»1, interrogativo con il quale il testo si chiude. Anche diversi decenni prima che Hegel inserisse nella sua opera questa celebre figura, Diderot aveva giocato sulla fissità solo apparente dei due ruoli nella sua satira Jacques le fataliste et son maître (1771), in particolare laddove Jacques si permette di accusare il suo padrone di essere, alla fin fine, solo un burattino nelle sue mani. Ma di esempi del genere se ne potrebbero fare molti, solo per sottolineare come questa coppia concettuale sia oggetto di riflessione e di rielaborazione artistica da sempre.

Paul Thomas Anderson, nel suo sesto lungometraggio presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2012, dove si è aggiudicato il Leone d’argento per la migliore regia, ha voluto calare questa dialettica in un contesto storico ben preciso: l’incertezza identitaria della borghesia statunitense nei primi anni ’50, un periodo di forti e rapidissimi mutamenti che aprì spazi anche ad arrampicatori sociali di vario genere e con discutibili velleità. Da anni si sapeva della sua intenzione di realizzare un film basato, almeno parzialmente, sulla biografia di L. Ron Hubbard (1911-1986), il fondatore di Scientology, che proprio nel 1950 pubblicò Dianetics: The Modern Science of Mental Health2 e nel 1952 battezzò col nome di Scientology il suo movimento. Le testimonianze del tempo ci raccontano che il contatto con il “maestro” avveniva in sedute basate sul principio dell’auditing profondo, che tra le altre cose aveva lo scopo di raccogliere le tracce delle proprie vite precedenti per rafforzare l’identità del neofita, ed era possibile per la non modica cifra di 500 dollari, il che significava due sedute per 1.000 dollari, quattro sedute per 2.000 dollari e così via (nel 1952 una Packard decappottabile mod. 250 costava 1.850 dollari, una Chevrolet due porte cromata non superava i 1.600 dollari). Al controverso fondatore di questo movimento religioso, che nel film prende il nome di Lancaster Dodd ed è interpretato in modo eccellente da Philip Seymour Hoffman, il regista contrappone un doppio di fantasia per sviluppare la coppia servo-signore: l’ex marinaio ed alcolista estremo Freddie Quell (Joaquin Phoenix, un po’ eccessivo nelle sequenze in cui mostra dei tic gestuali per enfatizzare i suoi problemi)3, probabilmente pensato tenendo presente il fatto che, tra i pochi dati certi sulla vita di Hubbard, c’è la sua lunga permanenza nella U.S. Navy, terminata nel 1950 in modo poco chiaro ma comunque al culmine di una pressoché irrilevante carriera da ufficiale di marina. I due si incontrano sull’imbarcazione di Dodd, dove il sedicente guru è circondato dalla sua corte, e da quel momento ha inizio questo rapporto di compensazione reciproca che mette progressivamente a nudo i grumi nevrotici delle rispettive personalità: il furore anticomunista e la sindrome paranoico-persecutoria nel maestro (due fattori che realmente hanno accompagnato Hubbard nella sua carriera, in particolare la paranoia da accerchiamento costante), l’iperattività sessuale e una sorta di alcolismo compulsivo nel discepolo. Su questi disturbi della personalità si basa il gioco dialettico servo-padrone, che nel film assume le sembianze di un rapporto morboso maestro-allievo, sebbene sia evidente che Freddie possa essere solo in minima parte un allievo, data la sua natura vulcanica, e che Dodd – a differenza dello spietato Daniel Plainview, il protagonista di Il Petroliere (2007) – non sia mai abbastanza sicuro di sé da potersi presentare come maestro compiuto in ogni singolo aspetto del rapporto, requisito necessario per le sue aspirazioni leaderistiche.

Quel che Freddie può dare a Dodd, a parte il proprio distillato artigianale ad elevato tasso alcolico, è soprattutto la sua fisicità violenta, tanto che le uniche azioni concrete che svolge per lui sono da guardia del corpo e da brutale vendicatore di presunti affronti subiti dal master. Quel che Dodd può dare a Freddie, il quale ha vissuto buona parte della sua squallida esistenza da underdog, è una patente di integrazione, la certezza dell’appartenenza ad una collettività, che è poi una delle principali strategie di Scientology ancora oggi: il conferimento di un’identità come membro di un gruppo che ti accetta all’istante e che cerca di farti sentire importante fin dai primissimi contatti, strategia tipica di tante sètte religiose. Una volta «attirati dalla “setta” in un momento di debolezza, gli adepti vi rimarrebbero e finirebbero per aderire a dottrine bizzarre e prive di fondamento, in quanto sottoposti a pratiche di manipolazione mentale»4. Ma la permanenza nel gruppo è ovviamente subordinata all’accettazione indiscussa dell’autorità del leader e delle sue regole. E se la prima condizione risulta a Freddie più o meno tollerabile, dato il suo rapporto personale e privilegiato con Dodd, la seconda gli sta decisamente troppo stretta e contribuisce al suo allontanamento. Il gioco psicologico tra i due termina – o meglio, salta brutalmente – proprio quando il maestro è costretto ad ammettere che il suo allievo non rispetta più quella protesi della sua autorità che è l’insieme delle regole da lui imposte (tra le quali c’è l’astinenza dall’alcool), ossia che non si presta all’operazione del riconoscimento per mezzo di quella che è stata definita da Axel Honneth come la “reificazione intersoggettiva”5, necessaria in questi giochi dialettici squilibrati.

Va notato che il film è ambientato esattamente nello stesso periodo e nella stessa America della sesta parte di Underworld di Don DeLillo, la sezione intitolata Composizione in grigio e in nero. Autunno 1951 - Estate 1952. In questo mastodontico romanzo, il grande autore italoamericano mette in scena un’infinità di personaggi, alcuni dei quali sviluppano delle relazioni molto simili a quelle che Anderson ha pensato per il suo lungometraggio. In particolare la coppia formata dal giovane disadattato Albert e dal sacerdote sui generis Paulus, che ogni tanto si sfidano a scacchi, è accostabile a quella del film ed è significativa la risposta che il sacerdote dà ad un dubbio di Albert sul valore del gioco nel processo di raggiungimento di un livello di potere: «Il gioco è questione di posizioni, di situazioni e di memoria. E il bisogno di vincere è fondamentale. La psicologia è nel giocatore, non nel gioco. Il giocatore deve amare il pericolo. Deve avere un istinto omicida»6. Ecco, questo istinto, che malcela una forte pulsione di morte, nel film di Anderson è solo in apparenza presente più in Freddie che in Dodd.

Ma col procedere dello scontro dialettico tra i due si delinea uno sbilanciamento del rapporto dalla parte di chi detiene il carisma, l’aura riconosciuta da un pubblico, con progressiva erosione di quell’elemento di fascinazione che Dodd vede in Freddie, fino a giungere all’ostracismo di quest’ultimo. Dunque, non si verifica (e come potrebbe?) la sintesi hegeliana del rapporto in direzione del superamento dell’opposizione tra i membri. E non si verifica anche perché Dodd, nel suo delirio leaderistico, sente per davvero di avere una sorta di missione: quella di moltiplicare le sue “chiese” per creare una collettività di seguaci sempre più ampia e ben addomesticata, basata su quella sete di autorità da parte del gruppo tradizionalmente espressa da certi Think Tank americani e racchiusa in una battuta pronunciata da Dodd: «Tutti hanno bisogno di un maestro». Da questo punto di vista, esattamente come nello splendido Magnolia (1999), il regista californiano ha voluto portare avanti la sua riflessione sul desiderio di personalità “forti” diffuso tra masse relativamente benestanti, un tema che evidentemente gli sta a cuore e che può essere inquadrato come un esperimento controllato di quella forza oscura che spinge milioni di americani a votare con una certa leggerezza individui che si presentano avvolti da un alone di profondità e di carisma, purché soddisfino la condizione whitmaniana di proporsi come incarnazioni paradigmatiche «di una personalità-tipo americana (…) che stabilisca una possibilità di corrispondenza entro schemi comuni a tutti»7, ma che in molti casi, proprio come in questo film, si dimostrano del tutto inconsistenti.

Note con rimando automatico al testo

1 Testi sumerici e accadici, a cura di G. Pettinato, Torino, UTET 1977, p. 508.

2 L. Ron Hubbard, Dianetics. La forza del pensiero sul corpo, Milano, New Era 1986 e segg. Sulla quarta di copertina dell’edizione italiana il volume, che è solo il primo di una tetralogia, è presentato come l’opera che permette di: «recuperare il vero potenziale della mente; conoscere meglio se stessi e gli altri; avere più fiducia in se stessi; accrescere la propria forza interiore e personalità; sviluppare la propria personalità». Evidentemente gli ultimi due obiettivi hanno bisogno di restare separati per qualche ragione.

3 Va ricordato che entrambi gli attori sono stati premiati ex aequo con la coppa Volpi a Venezia 2012 per la migliore interpretazione maschile, ma anche pochi mesi dopo al Bafta come miglior attore protagonista (Phoenix) e non protagonista (Hoffman).

4 J. Gordon Melton, La Chiesa di Scientology, Torino, Elle Di Ci 1998, p. 75.

5 Cfr. A. Honneth, La reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento, a cura di C. Sandrelli, Roma, Meltemi 2007.

6 D. DeLillo, Underworld, a cura di D. Vezzoli, Torino, Einaudi 2000, p. 720.

7 Democratic Vistas (1871), in: W. Whitman, Giorni rappresentativi e altre prose, a cura di M. Meliadò Freeth, Vicenza, Neri Pozza Editore 1968, p. 598.