Dal maggio 2022 su questa rivista non sono più accessibili molte immagini d'arte coperte dal copyright dei proprietari, ovvero generalmente musei e collezioni. Nella gran parte dei casi, l'immagine risulta vuota ma è leggibile la sua didascalia, per cui resta possibile la sua visualizzazione nei legittimi contesti.

Redazione e contatti

Cerca nel sito

J. Edgar, di Clint Eastwood

 

 

 

 

 

 

 

J. Edgar

di Clint Eastwood



con Leonardo DiCaprio, Naomi Watts,
Geoff Pierson, Josh Hamilton, Judi Dench

USA 2011, durata 131 minuti

 

 

 

 

Da molti anni a questa parte, l’argomento più spesso affrontato da Eastwood nei suoi film da regista è una sorta di ampia riflessione sul senso e sulle direzioni della giustizia: talvolta affrontata in modo diretto e con una durezza da autore classico di scuola steinbeckiana, altre volte declinata in modo obliquo tramite interferenze con territori-ospiti, intesi come ambienti nei quali non ha avuto modo di esprimersi una forma particolare e circostanziata di giustizia. Appartengono alla prima serie film come Gli spietati (Unforgiven, 1992), A Perfect World (1993), True Crime (1999), Changeling (2008) Alla seconda opere come Bird (1988), per il colpevole ritardo col quale, chi doveva intuirlo, comprese il talento di Charlie Parker; Absolute Power (1996), per la questione schmittiana del conflitto tra l’autorità-non-giudicabile e il primato del diritto; Mystic River (2003), per l’incommensurabilità della sanzione rispetto all’infrazione; il pluripremiato Million Dollar Baby (2004), per l’insistenza sul rapporto tra giustizia e destino; il dittico sulla battaglia di Iwo Jima (2006), nel quale le parti basse della politica di guerra (dal lato americano) e quelle ancor più infime del codice militare (dal versante nipponico) rendono vana l’applicazione della giustizia distributiva e impossibile la sopravvivenza di fattori kantiani tesi ad ancorare l’agire etico alla dignità, dato che i soli valori da cui lo svolgimenti dei fatti dipende sono le esigenze momentanee dell’onore presunto e le oscillazioni dell’opportunità politica.

A partire da Gran Torino (2008), questa riflessione sulle condizioni di possibilità della giustizia ha subìto una svolta significativa, poiché Eastwood sembra aver deciso di concentrare l’oggetto dell’interrogativo su casi singoli di persone che vengono a trovarsi in circostanze dalle quali può dipendere l’azione concreta della giustizia in contesti determinati. E non si tratta ovviamente del pistolero solitario che traduce in fatti la propria volontà: su quel versante, già dopo un capolavoro come High Plains Drifter (Lo straniero senza nome, 1973) non ci sarebbe bisogno di aggiungere nulla, dato che la giustizia è un’altra cosa. Si tratta piuttosto di casi nei quali i profili psicologici dei personaggi si trovano ad ospitare processi decisionali dai quali può dipendere la cosiddetta enforceability of the law. La centralità di questo grumo tematico è stata ammessa anche da Derrida, che in una conferenza americana del 1989 ha detto: 

«L’applicabilità, l’enforceability non è una possibilità esterna o secondaria che si aggiunge o no, accessoriamente, al diritto. È la forza implicata essenzialmente nel concetto stesso della giustizia come diritto, della giustizia in quanto diventa diritto, della legge in quanto diritto»1.

Ma un conto è se, a dover prendere decisioni dalle quali dipende l’enforceability è un organismo collettivo e protetto dagli ordinamenti costituzionali (una Corte Suprema, una corte federale, un Landgericht); un altro conto è quando, magari a causa di una momentanea vacanza dei soggetti previsti dagli ordinamenti, il peso finisce per gravare sulle spalle di una persona singola, per di più in una situazione di sostanziale isolamento o latitanza delle istituzioni, come accade appunto in Gran Torino e, per diverse (ma non troppo) ragioni, anche in Invictus (2009), dove il processo di redenzione è solo parziale e ha un valore puramente consolatorio.

Con J. Edgar il regista fa un notevole passo in avanti in questa direzione, dato che il fondatore dell’FBI – in base alla sceneggiatura stesa da Dustin Lance Black, già autore del Milk di Gus Van Sant e di alcuni episodi del serial TV Big Love – viene presentato come un paranoico ossessivo, proprio in quanto convinto di essere l’incarnazione stessa della giustizia, e non semplicemente un suo agente. Non può esistere un freno al dispiegamento della sua nevrosi né al coinvolgimento degli altri nella sua paranoia, perché Hoover è intimamente certo di fare il bene del proprio Paese, e se gli altri non lo capiscono è proprio perché non hanno come lui le idee chiare su come difenderlo dai pericoli interni. La sua è l’autoconvinzione di un fanatico, ad un passo da una forma di fondamentalismo in cui non scivola del tutto solo perché ha troppi vincoli relazionali con troppe persone che lo costringono a limitare l’esibizione pubblica del suo delirio e a coltivare in privato i comportamenti ritenuti incompatibili con la sua immagine.

 

Uno dei momenti più significativi, da questo punto di vista, è quando nel presente filmico il suo collaboratore di sempre, Clyde, ormai piegato dall’età e dalle malattie, lo invita ad accettare il dato di realtà per cui non può più essere lui a guida l’FBI ed è arrivato il momento di cedere il posto a qualche nuova leva. Hoover non può neanche immaginare di compiere una scelta del genere, perché la sua sindrome gli impedisce di credere che la giustizia possa incarnarsi una seconda volta in qualcun altro: non può esserci parousía, e quindi l’unica fine possibile per lui è proprio in quell’ufficio «che è e diverrà la sua tomba, un mausoleo in vita dove raccogliere la sua sapienza negli archivi e trasmettere la sua storia agli agenti chiamati a fargli da scribi» (F. Gironi2). E va sottolineato come quasi tutte le articolazioni della personalità di Hoover (interpretato relativamente bene da Leonardo Di Caprio, che però risulta molto più credibile nei flashback della sua ascesa giovanile che non nelle sequenze che preannunciano il suo declino) siano all’insegna di un machismo prestazionale ma si svolgano anche quelle all’interno degli uffici, dove obbliga i suoi sottoposti ad inutili esercizi ginnici o ad analisi del look che emulano le rassegne militari.

Un’altra componente interessante è la sindrome del catalogatore, che rappresenta la valvola di sfogo più tranquilla che possa esserci per un Ego ipertrofico, convinto di essere l’incarnazione della giustizia. Hoover inizia la sua carriera facendosi notare per aver ideato un sistema di archiviazione dei titoli presenti nella Biblioteca del Congresso, la continua catalogando tutti i soggetti che possono rientrare nella categoria foucaultiana degli “individui pericolosi”, e la termina quando il catalogo è ormai quasi completo e, per poterlo ampliare ulteriormente, occorrerebbe inventarsi nuove tipologie. Ma a quel punto la politica della Casa Bianca ha ben altre gatte da pelare (la guerra in Vietnam) e non è più disposta a cedere porzioni di sovranità al delirio personale di un soggetto che intanto, senza nemmeno rendersene conto, è diventato egli stesso un problema per chi davvero detiene il potere. Va da sé che solo un Ego distorto e per molti aspetti mostruoso può pensare (e per così tanto tempo) di poter svolgere attività di sorveglianza e controllo su una quantità di persone crescente in maniera esponenziale, tanto che un po’ per volta dovrebbe finire per coincidere con l’intera popolazione degli USA, visto che chiunque potrebbe diventare un pericolo in qualsiasi momento e che solo la mappatura della totalità della popolazione potrebbe forse appagare la pulsione che ha scatenato la sindrome, ma ovviamente quel punto-limite è irraggiungibile. Non deve perciò sorprendere il fatto che, a fungere da asse sintagmatico tra i flashback degli anni Trenta-Quaranta e il presente filmico del 1972, sia la maniera nevrotica con cui l’ormai anziano Hoover detta ad un sottoposto le proprie memorie, alterandole sistematicamente in tutti i momenti in cui le variazioni risultano utili per poter delineare la propria autobiografia ideale. Riuscire ad imporre al mondo un percorso di vita perfetto – e quindi irreale – rappresenta l’estremo opposto rispetto alla tendenza a schedare tutte le vite altrui: la mappatura totale di sé stesso è l’unica alternativa concreta all’irrealizzabile mappatura dell’intera società, ma è determinata dalla medesima nevrosi ossessiva. Credo sia questa la ragione per cui Di Caprio si concentra su espressioni facciali particolarmente crudeli ma quasi bozzettistiche, nei rari momenti nei quali i collaboratori di Hoover gli fanno notare che, in fondo, lui non si sporca mai per davvero le mani, non corre mai dei rischi sulla sua persona, dato che gli arresti li fanno sempre gli agenti e non lui personalmente, anzi spesso non è nemmeno presente sui luoghi in cui l’FBI fa le sue irruzioni. Si tratta di una sorta di afasia comunicativa determinata dal differente significato dato all’azione di controllo e repressione del crimine. Hoover risponde solo con l’espressione del volto, senza usare il linguaggio verbale, perché con quella mimica facciale sta cercando di dire: «Ma certo che c’ero! Io sono quello che li ha schedati tutti, quello che ha cominciato a schedarli e a tenerli sotto controllo anni e anni prima che facessero qualcosa. Quello è il mio modo di esserci!», anche se quelle espressioni scivolano sul piano inclinato dell’emulazione del viso arcigno del James Cagney di G Men (1935) di William Keighley, più volte proposto in modo sempre discreto da Eastwood in momenti-chiave del film come vero precedente cinematografico di riferimento per la personalità in fieri del fondatore dell’FBI3.

A completare il quadro clinico del personaggio, c’è poi la madre ipercastrante dalla quale dipendono sia la totale impotenza affettiva dell’uomo che il culto della personalità con cui egli cerca di compensare le proprie nevrosi. L’omosessualità latente ma mai portata alla luce pare sia un elemento ormai acquisito dagli storici, mentre il travestitismo è una licenza che la sceneggiatura si è permessa, ma che ha anche limitato al momento immediatamente successivo alla morte della madre. Hoover non è in grado di insistere sulla richiesta di matrimonio nei confronti di quella che poi diventerà la sua segretaria, Helen (Naomi Watts), per le stesse ragioni per cui non è in grado di vivere in pieno la curvatura omosessuale della propria personalità. Sono tutte conseguenze della dittatura psichica esercitata su di lui dalla madre onnipresente ed estremamente oppressiva, fin dall’età adolescenziale. In un certo senso, Hoover non è mai diventato per davvero un uomo adulto: è stato sempre e solo una funzione pubblica nella quale ha avuto modo di proiettarsi l’immagine che di lui la madre si era costruita fin dall’inizio e che gli ha imposto nel corso degli anni in un’educazione basata sul lento ma costante enforcement di un’identità. Pertanto, è vero che «J. Edgar è il film di un volontario inaridirsi, del voluto spegnimento sul nascere, da parte del soggetto stesso che le prova, di ognuna delle pulsioni che usiamo chiamare umane (…) in vista di un’illusione salvifica, eletta a unica ossessione totalizzante»4. E la maestria di Eastwood sta nell’essere riuscito (cosa per niente facile!) a mostrare l’intera parabola di questo individuo-funzione senza mai far scaturire nel pubblico le benché minima tentazione di provare una pietas nei suoi confronti. Da questo punto di vista, la crudeltà nel trattamento cinematografico del personaggio è di molto superiore a quella generalmente adottata dal regista in lavori precedenti, e ricorda invece quella dell’addestramento reclute in Gunny (1986), ma senza la componente ironica. Non si deve provare empatia nei confronti di chi ritiene di incarnare la giustizia, perché il processo di civilizzazione dell’Occidente ha impiegato secoli per mettere ai margini soggetti di questo tipo, ma poi li ritrova puntualmente in azione nelle zone d’ombra del potere, lì dove essi trovano il loro humus ideale. Anche il modo in cui Hoover muore sembra coerente con questa intenzione: sul pavimento, a pochi passi dal suo letto ma senza essere riuscito a raggiungerlo, in un momento del tutto irrilevante e soprattutto solo come un cane. In poche parole, è morto come è vissuto.

Dunque è molto riduttivo affermare, come ha fatto Paolo Mereghetti, che «la sceneggiatura di Dustin Lance Black affronta davvero solo un paio di temi – i suoi rapporti con le donne, la sua omosessualità – e scivola via su molti altri»5. Il punto è che Eastwood non voleva realizzare un vero e proprio biopic ma piuttosto delineare il quadro psicopatologico di un personaggio che presumibilmente, dal punto di vista del cineasta, non avrebbe mai dovuto occupare una simile posizione, ma allo stesso tempo era quasi inesorabile che la occupasse perché il potere si nutre spesso di personaggi di questo tipo, salvo disfarsene rapidamente quando non servono più, e in genere proprio con la cinica freddezza con cui il Nixon del film ne sintetizza l’epitaffio ipocrita in chiusura.

 

 Note con rimando automatico al testo

1 J. Derrida, Forza di legge. Il “fondamento mistico dell’autorità”, a cura di F. Garritano, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 52.
3 È vero che si intravedono inizialmente anche sequenze di The Public Enemy (1931), di William Wellman, sempre con Cagney come protagonista, quasi a voler sottolineare l’ambiguità dialettica fra soggetto criminale e soggetto repressore. Ma è piuttosto evidente che solo il personaggio di G Men può rappresentare un riferimento identificativo positivo per chi sta riempiendo agli archivi dell’FBI.
4 A. Cappabianca, Negli interstizi del tempo, in: «Filmcritica», n. 621-622, 2012, p. 25.
5 P. Mereghetti, Eastwood, uno sguardo cupo su segreti e bugie d’America, sul «Corriere della Sera» del 2 gennaio 2012.