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La grande bellezza, di Paolo Sorrentino





La grande bellezza
 
di Paolo Sorrentino
 


con Toni Servillo, Carlo Verdone,
 Carlo Buccirosso, Pamela Villoresi,
Sabrina Ferilli
 

Italia-Francia 2013, 142 min.
 

 



 

A differenza di quanto accade nei suoi migliori lavori precedenti, e in particolare in
L’uomo in più (2001) e nel pressoché perfetto Le conseguenze dell’amore (2004), l’impressione che si ricava da La grande bellezza è che l’ultimo film di Sorrentino, esattamente come il suo protagonista, abbia camminato un po’ troppo, superando un limite ideale che non c’era bisogno di oltrepassare. Per almeno 115 dei suoi 140 minuti abbondanti, il film quasi non fa una grinza, mostrando acuti registici di notevole livello (sia come tecniche di ripresa che come rinvii ad altri cineasti che hanno tentato operazioni analoghe) e momenti di grande suggestione visiva. Ma gli ultimi 20-25 minuti rovinano l’impatto con una superflua, gratuita, del tutto inutile lezione morale che forse aveva lo scopo di precisare – ma senza che ce ne fosse alcun bisogno – in cosa consista la bellezza del titolo, quanto meno nelle sue possibilità non dostoevskijane di redenzione del mondo.

Cominciamo dal principale merito del lavoro, sostenuto da una sceneggiatura ottimamente costruita dallo stesso Sorrentino insieme a Umberto Contarello (già autore per Salvatores, Amelio e Mazzacurati). La quasi totalità degli sforzi messi in atto per almeno il 90% del montato ha uno scopo grandioso e quasi titanico: rappresentare il nulla. Il nulla che noi italiani abbiamo deciso di diventare, oppure scelto di non evitare; il nulla che attende il nostro miserabile paese, giunto da tempo al capolinea del suo percorso storico; il nulla sociale che la postmodernità riempie di parole trattandole come figure mondane. In ogni caso una forma di nulla. Esistono dei precedenti sia letterari che cinematografici, che non è il caso di elencare nei particolari, ma uno sforzo del genere è a dir poco encomiabile, per le enormi difficoltà a cui la sua realizzazione va incontro.

Jep Gambardella, l’acido protagonista di queste passeggiate fra le strade, i palazzi e le feste cafonissime di una Roma che non ha più niente da proporre al mondo all’infuori di decadenti epifanie di oggetti identitari che non sono più; autore di un solo romanzo scritto oltre 40 anni prima e al quale non ha saputo né potuto dare seguito perché, anziché continuare a descriverla da osservatore esterno, ha preferito entrare nella comunità di cui aveva raccontato, e ormai da molto tempo ne fa parte a pieno titolo in qualità di comparsa di primo piano (ma pur sempre comparsa); ebbene, in due momenti del film Gambardella ricorda che Flaubert si era riproposto di scrivere un romanzo che mostrasse il nulla e non era riuscito a scriverlo. In realtà Flaubert, un egolatra che notoriamente amava sfornare frasi ad effetto nel suo immenso epistolario, si era interrogato sulla possibilità di scrivere un romanzo che non raccontasse alcuna storia, che fosse totalmente privo di trama, pura forma senza diegesi, che è una cosa diversa dal rappresentare il nulla. Invece, a questo flâneur interpretato ancora una volta in modo superlativo da Toni Servillo (chissà quando capiterà di poter dire che Servillo ha sbagliato un personaggio!) si adatta alla perfezione un’altra componente molto caratteristica della personalità di Flaubert e che si ritrova in tante sue pagine: la vena speleologica di chi va alla ricerca di forme di umanità superstiti, sopravvissute a quella che, per il grande autore francese morto quasi alla stessa età che ha Jep nel film, era l’immensa volgarità del suo tempo. In una lettera a Louise Colet del 5 settembre 1846 scriveva: «Sotto le belle apparenze cerco i fondi volgari e mi sforzo di scoprire miniere di devozione e di virtù sotto le più ignobili superfici»1. Ebbene, Jep cerca nella miseria sociale di cui fa parte a pieno titolo – anzi, che ha consapevolmente scelto – tracce fossili di umanità, non però allo scopo di farle brillare nei suoi articoli dedicati al demi monde capitolino, ma piuttosto per una pulsione nichilista che gli permette di continuare ad esercitare la sua vana superiorità intellettuale aggredendo la presunta eccezionalità altrui. Bambine che inaugurano la propria sessualità stuprando tele con vernici colorate per poter essere presentate come presunte artiste della nuova era, marionette femminili che rifiutano la loro età e si mettono nelle mani di estetisti per la gioia dei conti bancari di questi ultimi, sopravvissuti delle antiche famiglie patrizie romane diventati cadaveri che vegetano nei loro palazzi sepolcrali, questi ed altri sono i tipi umani che Gambardella sottomette nei suoi giochi dialettici quotidiani, i quali a loro volta rappresentano ciò che resta delle sue antiche e ormai perdute capacità letterarie. C’è senz’altro una componente felliniana in tutto questo, ancor più marcata in sequenze come quelle dell’enorme giraffa che si trova dove non dovrebbe e sparisce con la stessa facilità, oppure nella figura della direttrice nana che per prima gioca sul proprio aspetto e sa usarlo a proprio vantaggio, ma La dolce vita non c’entra niente: non siamo di fronte ad un aggiornamento di quella lezione, nonostante alcuni esterni siano in comune.

Questo immane sforzo ha un solo reale obiettivo: allontanare sine die il momento in cui fare i conti con la propria, fatale irrilevanza, con la propria nullità ontologica. In realtà ogni cosa mostrata è un nulla, non solo Jep: uomini e donne di mezza età che prolungano oltre ogni ragionevole durata la propria middle age, giovani ragazze che sono solo portatrici vacillanti di corpi da esibire, luoghi tetri e perfino spaventosi che i personaggi affollano insistendo con le loro feste patetiche in uno sforzo ipertrofico di rianimazione, e così via. E l’ambiente che ospita questa rappresentazione collettiva del nulla è intriso di morte. Morta è anzitutto Roma, le cui strade sono percorse di notte come di giorno dai vari personaggi in modi che ricordano molto da vicino le passeggiate degli anonimi ospiti dell’albergo di campagna in L'année dernière à Marienbad (1961) di Alain Resnais (sceneggiato da Robbe-Grillet, un altro autore fissato con l’obiettivo di scrivere romanzi privi di ogni tipo di azione), in realtà cadaveri parlanti anch’essi ma che ignorano la propria condizione. Morti sono i giovani esattamente come i vecchi; anzi, i giovani non suscitano nemmeno un minimo di pietas, data la loro ostentata e sintetica superficialità, mentre alcuni anziani hanno almeno la discrezione di rinchiudersi la sera nelle loro abitazioni-tombe e non disturbare ulteriormente. Morto è quel mélangedi spirito sacro/profano che dovrebbe circolare nella ex città eterna, ridottasi ad urbe cimiteriale contagiosa fin dal primo impatto, come ottimamente mostrato nella sequenza iniziale, quando un turista giapponese tenta di catturare un’immagine panoramica di Roma con la sua macchina fotografica digitale e schianta al suolo come folgorato da un’energia oscura e letale proveniente dalla città. L’intero sistema di relazioni individuali, i saturnali notturni, le coltellate dialogiche che tanti personaggi si scambiano sembrano solo giochi infantili svolti sull’orlo di un precipizio al quale tutti sono destinati e che ciascuno tenta solo di tenere a distanza ancora per un po’ di tempo. È la versione all’amatriciana dell’abisso nietzschiano che ti fissa se tu lo osservi troppo, ma che in realtà ti guarda anche se continui a dargli le spalle rendendoti ridicolo con i trenini danzanti o con le labbra gonfiate dal botulino. Anche il fatto che, a dispetto della professionalità con cui prepara Ramona (Sabrina Ferilli), Jep non riesce a trattenere le lacrime nel momento in cui deve caricarsi sulle spalle la bara di Andrea manifesta il medesimo anelito: almeno il figlio di Viola, suicidandosi con la sua auto, ce l’ha fatta, la sua sofferenza è finita, la sua messinscena è terminata, almeno lui non deve più sforzarsi di tenere lontana quella presenza inesorabile di cui aveva letto fra le pagine di Turgenev2. Ma Jep l’esteta immigrato, Jep il dandy fuori stagione, Jep il cinico solo parzialmente riuscito non può permettersi di riflettere troppo su questi dettagli. Come dice quando rimette al suo posto Stefania (Galatea Ranzi), che merita una punizione per l’ostentazione di una sua presunta e infondata superiorità morale, egli è consapevole del fatto che nessuno può porsi al di sopra di questa insana mediocritas, perché in realtà «siamo tutti sull’orlo della disperazione; non abbiamo altro rimedio che farci compagnia, prenderci un po’ in giro». Si adattano perfettamente al suo personaggio le parole usate da Flaubert in un’altra lettera a Louise Colet, datata 23 ottobre 1846: «Non so se sono stupido o arguto, buono o cattivo, avaro o prodigo; come tutti, ondeggio fra tutto ciò. Il mio merito è forse di accorgermene, e il mio difetto di avere la franchezza di dirlo»3. Anche Flaubert esibiva in quelle pagine una sincerità molto parziale, strumentale al suo disegno di circuire la propria corrispondente e quindi in fondo recitava con una certa affettazione. Ma Jep e i suoi compagni di feste recitano continuamente, non fanno altro, non possono fare altro! Recita quando passeggia in stile gagà, quando è seduto nelle sue pose teatrali, quando è impegnato in scontri verbali con gli altri.

Gli unici momenti nei quali la finzione viene del tutto sospesa sono gli istanti che precedono il sonno, quando steso sul suo letto proietta nel soffitto quel mare che, un’infinità di anni prima, aveva circondato il momento in cui davvero gli era stato possibile assistere allo spettacolo della bellezza pura, nelle forme (celate allo spettatore del film) della ragazza che non poté avere, e da allora continua a bramare la condizione amniotica del ritorno in quello stato di grazia durato così poco. Ma sull’impossibilità di questo ritorno si è espresso benissimo Cioran in uno dei suoi libri più celebri: «quando sogniamo mari convertiti in acqua benedetta, è troppo tardi per immergervisi, e la nostra corruzione troppo profonda ci impedisce di annegarvi»4. I deliziosi movimenti della macchina a spalla Arricam LT e quelli della più solida Arriflex 535 seguono il posizionamento dei corpi (in una splendida sequenza, facendo salire le scale allo spettatore e conducendolo nell’alcova del vecchio viveur) nelle loro pose plastiche. Quando si tratta di trovare la sistemazione per dormire, si apre davanti agli occhi di Jep l’impossibile via di fuga in un passato che non può tornare a salvarlo perché ricoperto dalle tonnellate di idiozie dette, fatte e stampate in tanti anni di vita mondana: la soluzione da lui scelta per dilatare la kierkegaardiana condizione estetica oltre ogni limite accettabile. Ma «se con ogni nostra parola riportiamo una vittoria sul nulla, è solo per subirne ancor più il dominio. Noi moriamo in proporzione alle parole che spargiamo intorno a noi»5. Questo è esattamente il caso di Jep Gambardella, gargantuelico dispensatore di parole non sempre richieste e necessariamente superflue.

Ecco, rispetto alla riuscitissima rappresentazione dell’immanenza di questo nulla universale, il film scade nel patetico senza alcuna ragione nei suoi ultimi 25 minuti, quando fanno il loro ingresso sulla scena inutili sante e ancor più inutili cicogne comandate a distanza alitare per ribadire la possibilità di una via d’uscita dall’orrore del nulla trionfante. Era un film che non aveva bisogno di alcuna pars costruens, come non ce n’erano state nel fassbinderiano L’uomo in più e nel kieślowskiano Le conseguenze dell’amore. Da questo punto di vista, almeno per quanto riguarda la messinscena di una certa condizione umana, mi sembra legittimo parlare de La grande bellezza, da un lato, come di una sorta di risposta all’insignificante film-cartolina di Woody Allen su Roma (di cui mi rifiuto anche di ricordare il titolo, per la stima che ho verso mr. Königsberg), e dall’altro come di una specie di spin off dell’idea avviata con Il divo (2008), quanto meno in una diramazione dedicata a mostrare la generazione successiva a quella andreottiana nella volgarizzazione della città eterna: i nuovi potenti, o meglio i nuovi protagonisti delle cronache mondane, non sono meno patetici dei loro predecessori, sono soltanto più rozzi e impreparati.

 


Note al testo

1 «Moi, sous les belles apparences je cherche les vilains fonds et je tâche de découvrir, en dessous des superficies ignobles, des mines irrévélées de dévouement et de vertu»: G. Flaubert, Correspondance, vol. I (1830-1851) , a cura di J. Bruneau, Paris, Gallimard 1973, p. 330, trad. mia.

2 Fermo restando che Turgenev non era in realtà così pessimista, e in opere come Acque di primavera (Вешние Воды, 1872) oppure La canzone dell'amor trionfante (Песнь Торжествующей Любви, 1881) ha saputo creare raffinate tessiture intorno al concetto di speranza come valore esortativo almeno per il singolo.

3 G. Flaubert, Lettere a Louise Colet, a cura di M.T. Giaveri, Milano, Feltrinelli 1984, p. 130.

4 E.M. Cioran, Sommario di decomposizione, a cura di M.A. Rigoni e T. Turolla, Milano, Adelphi 1996, p. 30.

5 Ibidem.