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Editoriale del numero 12


Malavita

Perché una rivista di filosofia dovrebbe occuparsi di malavita? E se questa rivista si chiama Kainos, se si pone cioè come obiettivo (oltre che come cifra stilistica) la riflessione su ciò che è attuale, nuovo o insolito, si può oggi pensare la novità, e al contempo la stranezza della malavita? Non è forse la malavita qualcosa di antico, di consueto e familiare, e soprattutto di concettualmente impenetrabile?

Per usare il linguaggio del web, la filosofia è una specie di motore di ricerca che ‘disambigua’ le parole e i concetti senza con ciò perderne la ricchezza, anzi, addirittura valorizzandola. Se ad esempio digitate ‘malavita’ su google, vi apparirà, tra l’altro, il titolo di un cd del gruppo rock Baustelle, l’ultimo video di un neomelodico napoletano, la cronaca e le immagini di un brutale assassinio; se invece la cercate in un dizionario, troverete una definizione asciutta, del tutto insufficiente a coprire la vastità dei fenomeni socio-culturali, economici e politici, che da alcuni anni tendiamo ad associare a questo termine: “vita moralmente deprecabile, contraria alla legge” (Sabatini-Colletti). Una definizione che, alla luce della corruttela capillarmente diffusa tra politici, imprenditori, professionisti, ecc., ci appare ormai un po’ bacchettona, per non dire ingenuamente giuridica (del resto, il Foucault di Sorvegliare e punire l’avrebbe subito modificata: la malavita è coestensiva alla legge, è una specifica forma di illegalismo che fa sistema con la legge, o comunque un ingranaggio del potere), una definizione simile a un sudario vetero-borghese che non riesce neppure a sfiorare la sgradevole tristezza implicata nella prima parte della parola – poiché in latino il sostantivo malum non equivale solo a male, danno, colpa e delitto, ma anche a disgrazia, svantaggio, pena, castigo, disagio, fatica, malattia; a sua volta l’aggettivo include i significati di inetto, incapace, brutto, deforme, disgraziato, funesto, malato – e lascia del tutto inevasa la domanda relativa alla seconda parte – poiché ‘vita’ è un termine così denso da risultare ossimoricamente vuoto e assai vicino alla morte: la vita del camorrista o del mafioso può ridursi a non-vita, qual è quella del latitante, o a vita zombificata, che precede la sua squallida esecuzione.

Potremmo andare molto lontano su quest’ambigua strada semantica, ma torniamo al nostro dizionario, e con esso alla necessità di distinguere, non solo giuridicamente, tra malavita (solitaria, metaforica, quasi romantica) e malavita organizzata (rigidamente codificata, consumista, addirittura conformista): alla succitata definizione, emotivamente neutra ma politicamente corretta, ne segue un’altra, anch’essa molto tradizionale, la cui problematicità storica e sociale salta tuttavia agli occhi se si passa da una concezione formalmente negativa del fenomeno alla sua empirica positività, ossia alla malavita come “forma di vita” dalla struttura complessa e variegata, divenuta sul nostro pianeta una delle più diffuse e radicate: essa non è più soltanto, come recita il dizionario, l’“insieme delle persone che conducono questo tipo di vita; delinquenza; sinonimo di criminalità: combattere la malavita; malavita organizzata”, quindi per estensione “la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta”. Ordalica e primordiale, ma allo stesso tempo profondamente trasformata e normalizzata dalla globalizzazione postmoderna, da almeno trent’anni la malavita è qualcosa di più, qualcosa di diversamente ‘triste’ (mala), un nuovo fenomeno sociale, bio-logico e culturale, problematicamente connesso all’economia politica del tardo capitalismo, un ‘sistema’ che suscita nuovi interrogativi e impone perciò una chiarificazione teorica.

È per questo che abbiamo deciso di dedicargli il dodicesimo numero della rivista, che non a caso segue quello dedicato all’ignoranza e alla cultura degli italiani. Quello della malavita è infatti un tema scivoloso soprattutto in Italia, dove accende gli animi e induce a machiavellici moralismi, come e forse anche più delle questioni bioetiche ed ecologiche. Per ovvie ragioni storiche (si pensi al nesso mafioso che stringe l’Italia agli Stati Uniti a partire dagli anni Venti e culmina nello sbarco in Sicilia della seconda guerra mondiale, o alla rivoluzione giuridico-investigativa realizzata da Falcone e Borsellino prima di essere ammazzati), studi di varia natura sulla criminalità organizzata abbondano da tempo nel nostro Paese, e dopo lo sdoganamento compiuto dal lavoro di Roberto Saviano, il fenomeno malavitoso ha avuto una risonanza mediatica forse mai raggiunta prima. Ma per un curioso chiasmo, se da tanti punti di vista separati – antropologico, sociologico, economico, politico, ecc. – esso sembra ormai pienamente compreso, dal punto di vista filosofico, che dovrebbe essere quello capace di attingere l’universale, non vi sono analisi dedicate esplicitamente al fenomeno e al concetto di malavita, ovvero disamine teoriche della sua innegabile universalità (non solo italiana).

Il nostro intento è allora quello di mettere alla prova il pensiero su questo concetto, e viceversa. Poiché tuttavia non si tratta – in Kainos non si tratta mai – di un numero a tesi, per illustrare il modo in cui vorremmo affrontare un tema così duro e provocatorio, ma anche così spaventosamente inflazionato in ambito scientifico, artistico e mediatico (dalla sociologia al cinema, dalla letteratura alla tv), dobbiamo partire da ciò che il nostro discorso sulla malavita non intende essere. L’obiezione che ci potrebbe essere rivolta è infatti la seguente: cosa potrebbe dire di più un’analisi filosofica della malavita, rispetto a un’analisi sociologica o a un film? Perché, in altri termini, la malavita dovrebbe investire e farsi investire dalla filosofia senza ridursi (e ridurla) a divagazione folcloristica sul male di vivere? Quali categorie filosofiche il suo concetto chiama in causa?

Dal punto di vista propriamente teorico, sappiamo di dover evitare due rischi opposti ma, per così dire, complementari.

Da un lato, non faremo rifluire troppo educatamente e, appunto, riduttivamente la riflessione sulla malavita nei settori accademici della filosofia morale o della psicologia (cioè non speculeremo soltanto sulla prima definizione del dizionario): per quanto alla moda e ampiamente sfruttato dal counseling filosofico, il pensiero della vita buona e felice, l’onto-logia del benessere, la dirittura etica che emerge dalle sue stesse distorsioni, non possono esaurire o appagare l’orizzonte della nostra analisi; allo stesso modo, l’angoscia e il senso di colpa non possono essere concepiti come l’unico correlato psichico del crimine e della sua ‘oggettiva’ diffusione nella società, perché presuppongono una vita ‘soggettiva’ che si fa carico del suo male, mentre la “forma di vita” su cui indaghiamo è per così dire al di là della correlazione soggetto-oggetto.

D’altra parte non intendiamo interpretare la malavita in modo compiaciuto e implicitamente esaltatorio, strizzando l’occhio al modello ormai troppo sfruttato, addirittura ‘classico’, della “trasgressione” batalleana, e neppure introdurre elementi teorici che possano richiamare il registro della giustificazione, dell’eroicizzazione o, come spesso è stato fatto in Italia, dell’estetizzazione, anche mediatica, del malavitoso; oltre ad essere scontato, ciò porterebbe con sé, ancora una volta, una sorta di identificazione ‘soggettiva’ col concetto e col fenomeno della criminalità (o della devianza: in fondo, è quanto successe allo stesso Foucault, quando venne del tutto ingiustamente accusato di guardare al crimine come a un soggetto rivoluzionario).

Abbiamo piuttosto intenzione di mantenerci su un piano prevalentemente fenomenologico (in senso hegeliano1), che abbia in sé anche la valenza critica della genealogia (in senso nietzscheano). Decostruendo i valori della malavita, il suo apparato simbolico e quello della sua rappresentazione artistica o mediatica, cercheremo infatti di isolare le “figure concettuali” del fenomeno malavitoso nelle sue più significative stratificazioni storiche: quella del ‘pirata’ (o meglio della pirateria, per evitare anche il sospetto dell’estetizzazione), del ‘contrabbandiere’ (dunque del contrabbando), del ladro, dell’usuraio, del pappone, del camorrista, del mafioso, dello spacciatore, del killer, del gangster, del ‘cane sciolto’, dell’infame, del pentito, fino alla grande figura della cosiddetta borghesia mafiosa – alla mafia dei colletti bianchi; ma visiteremo anche le figure ambigue o di confine, in cui l’aspetto malavitoso, quello legale e quello morale si combinano e diventano indistinti – si pensi, ad esempio, al pluriperverso Quinlan di Orson Welles (Touch of Evil, 1958) oal Cattivo tenente di Abel Ferrara (1992), riproposto qualche anno fa da Werner Herzog.2

Se insomma le innumerevoli stratificazioni della cultura moderna hanno formato una vera e propria epica della malavita, ai cui valori estetici è stato sin troppo facile appellarsi per biopic come quelli sulla banda della Magliana o su Vallanzasca, noi al contrarioproveremo ad analizzare le caratteristiche esteriori e interiori, comportamentali e intime del malavitoso – come pure del bandito, del bravo, del pirata, o anche del faccendiere – per poter esibire la struttura profonda delle sue relazioni di fiducia/interesse, molto simili ai rapporti feudo-vassallatici studiati dai medievisti. In tal modo apparirà chiaro come la malavita sia, alla lettera, una forma-di-vita, una struttura del bíos storicamente plasmata, che, da un lato, ha condotto a una decisa frammentazione del potere economico-politico in lobbies e gangs che perseguono disordinatamente i loro interessi o attraverso l’accordo o attraverso la violenza, ma che dall’altro ha prodotto, nei termini di Bourdieu, habitus rigidi e altamente codificati: in quanto configura comunque un mondo, un’istituzione, la malavita ‘vive’ paradossalmente ‘bene’ grazie a un ordine del discorso in cui non c’è quasi nessun margine per il deviazionismo, il disassoggettamento o la trasgressione.

Un’analoga paradossalità potrà emergere da un’analisi più decisamente genealogica del fenomeno: quella tra individualità eslege e conformismo gregario, tra l’anti-statualità violenta e il totalitarismo terroristico della malavita. La pirateria è ad esempio la forma iniziale dei fenomeni malavitosi: il pirata è il “nemico di tutti”, ma anche colui che crea nuove relazioni economiche e sociali (si pensi alla ripresa post-apocalittica della sua figura nel film Waterworld di Kevin Reynolds, 1995), una nuova struttura politica grezza e brutale, ma sostanzialmente a-totalitaria e anti-nazionalistica. Se al contrario si seguono le complesse metamorfosi della criminalità organizzata nel ventesimo secolo (dalla mafia russa alla yakuza giapponese, passando ovviamente per le nostre onorate società), sembra che essa abbia parassitato i sistemi di governance atomistici tipici dello stato moderno: includendo gli individui ma interrompendone le relazioni, cioè isolandoli quanto più li lega attraverso la logica del business, la malavita post-bellica rappresenta il capolinea repressivo e conformista dell’evoluzione ideologica occidentale (non solo capitalistica).

Nel 1988, cogliendo tale passaggio dall’arcaismo della mafia alla modernità del ‘sistema’, Guy Debord (espulso dall’Italia nel 1977 perché considerato un sovversivo, dunque un criminale politico) sosteneva che lo spettacolare integrato3 è intrinsecamente malavitoso: “La mafia trova dappertutto le condizioni migliori sul terreno della società moderna. La sua crescita è rapida quanto quella degli altri prodotti del lavoro col quale la società dello spettacolo integrato plasma il suo mondo. La mafia aumenta cogli enormi progressi dei computer e dell’alimentazione industriale, della ricostruzione urbana integrale e delle bidonville, dei servizi speciali e dell’analfabetismo”4. Alla malavita si è dunque “aperto un campo nuovo nel nuovo oscurantismo della società dello spettacolare diffuso5, poi integrato: con la vittoria totale del segreto, l’abdicazione generale dei cittadini, la perdita completa della logica e i progressi della venalità e della vigliaccheria universali, vennero a sommarsi tutte le condizioni favorevoli perché diventasse una potenza moderna, e offensiva. […] Ci si sbaglia ogni volta che si vuole spiegare qualcosa opponendo la mafia allo Stato: essi non sono mai in rivalità […]. La mafia non è un estraneo in questo mondo: ci si trova perfettamente a suo agio. Nell’epoca dello spettacolare integrato, essa appare di fatto come il modello di tutte le imprese commerciali avanzate”.6

Per spiegare questa metamorfosi, non solo economica, abbozzata da Debord, cercheremo di segnare delle soglie storiche, declinando il concetto di malavita nelle diverse forme della sua ‘eccezionale’ sovranità e della sua ‘normale’ diffusione, e quindi analizzando le complesse relazioni che essa intrattiene col diritto e con la politica. Anzi, è proprio dal punto di vista della filosofia del diritto e della filosofia politica che crediamo sia necessario analizzare la malavita, perché in queste discipline l’analisi del fenomeno si presenta quantomai controversa, producendo circoli viziosi di ogni genere. Se in alcuni casi, infatti, la malavita sembra dipendere integralmente dal modo in cui si definiscono, si intendono o si vivono il diritto e la politica, talvolta è invece essa a determinare il normale diritto o la normale politica (come nei cosiddetti miti di fondazione, dove l’ordine è prodotto da un crimine originario o comunque da un gesto rinviabile in ultima analisi al registro del male, o come ancora nelle problematiche shakespeariane, dove regalità e mostruosità coincidono), oppure, più semplicemente, la malavita risulta essere a tal punto intrecciata e strutturalmente congiunta con il diritto e la politica da apparirne indiscernibile. In questo caso andrà sfumando nell’indeterminato ciò che sembrerebbe invece necessario determinare preliminarmente, vale a dire l’individuazione del livello o del concetto di vita (e conseguentemente di diritto e di politica) da cui la malavita è originata, ciò che dovrebbe quantomeno indurre a mitigare o a sorvegliare maggiormente i costanti richiami alla legalità e alla moralità come sola possibile soluzione del ‘problema malavita’. Si tratta infatti di un problema che non si risolve, a nostro giudizio, in una semplice forma di illegalità o di immoralità, ma piuttosto in una modalità strutturale e per nulla eccezionale dei sistemi politici, facente parte della loro stessa costituzione materiale, tanto più a partire dal moderno; ed anche la nostra irriflessa ‘passione’ per la legalità non sarebbe così inflazionata, se si osservassero con più attenzione le strane complicità e le piccole astuzie quotidiane in cui malavita e legge si rilanciano vicendevolmente, tra trasgressioni implicitamente tollerate e malcelate differenziazioni tra crimini.

D’altra parte, se alle cosiddette “bande di briganti” o “società dei ladroni” la filosofia giuridica e politica ha spesso riconosciuto uno statuto istituzionale, politico o economico (senza con ciò legittimarle, ovviamente, né soprattutto naturalizzarle), quello che potrebbe ben definirsi come l’ordine della malavita è in grado di mettere radicalmente in discussione la stessa definizione del potere, del diritto e della politica propria della tradizione giuridico-politica moderna. Il suo funzionamento reticolare, ad esempio, mina la definizione (totalmente ricalcata sul dispositivo concettuale weberiano) che pure ne è stata data come forza concorrente al monopolio della violenza su un determinato territorio (il cosiddetto antistato o stato nello Stato), e implica una più complessa e articolata geografia del potere, spinta ben oltre la sua giuridificazione, nonché un più empirico problema relativo all’identificazione degli effettivi centri decisionali, al di là della loro definizione formale.

Per tutte queste ragioni, riteniamo dunque necessari tanto un’analitica del potere in grado di indagare al livello microfisico i centri di forza strategici e le loro regolarità (unitamente ai loro processi di assoggettamento), quanto un approccio in termini di storia concettuale, che ci metta in grado di cogliere il dispositivo con cui la malavita è abitualmente pensata. È infatti solo a partire da simili operazioni che crediamo sia possibile comprendere la non-necessità e la non-naturalità del fenomeno malavitoso, la sua natura artificiale, escludendo ad esempio dall’ambito del crimine quei fenomeni che vi vengono inclusi del tutto artificiosamente – come accade nel caso dei soggetti individuali o collettivi (soggetti rivoluzionari, forme di ribellismo o di rivolta, di banditismo, ecc.) che cercano o hanno cercato di creare vie di fuga nei confronti di un apparato di cattura promuovendo forme di giustizia sociale, e che rischiano perciò di essere mitizzati o rubricati nel codice della malavita.

È insomma grazie a una genea-logica di ispirazione foucaultiana, che proveremo a illuminare il versante governamentale, biopolitico ed economico del fenomeno, per giungere al presente. Nella società contemporanea, la malavita sembra infatti la nuova, strana forma assunta dall’economia politica, e in questa direzione si muovono i due assi portantidella nostra riflessione sul dispositivo malavitoso che sembra funzionare nel tardo capitalismo, soprattutto in Italia:

1) l’attuale risonanza fra malavita ed economia, intesa non solo come intreccio tra criminalità organizzata e finanza, ma anche come legame perverso tra la negatività del bíos e lo stato patologico – la vera e propria malattia – della sua dimora (l’ecosistema): a dispetto dell’idea jonasiana di un’etica ambientale globale, tale per cui la terra è il luogo di un patto fra uomini volto al futuro, la malavita è la trasgressione ‘sistematica’ e globalmente diffusa di questo patto in nome di un guadagno immediato, cioè di un’economia completamente schiacciata sul presente (si pensi al ruolo della camorra nella crisi dei rifiuti in Campania).

2) l’attuale mitizzazione della malavita, cui fa da specchio la criminalizzazione della politica (dacché assistiamo allo spettacolo di una malavita disinvoltamente praticata dai politici sotto forma di corruzione e violentemente condannata dall’opinione pubblica in forma di anti-politica): quanto più negli ultimi anni il crimine, con il suo gergo e la sua ostentata ricchezza, ma anche con la sua miseria culturale, è stato studiato, radiografato e ‘legalmente’ combattuto, tanto più la malavita è stata ossessivamente raccontata, divulgata e mitizzata (non solo dal cinema, ma da tutti i media), cioè ‘emotivamente’ assecondata; sono gli stessi anni in cui la politica è stata radicalmente demitizzata.

A partire dagli anni novanta, cioè da Mani Pulite e dalla presunta nascita della Seconda Repubblica, abbiamo mediaticamente demitizzato e criminalizzato la nostra politica. Ma il suo volto opaco, ovvero il rapporto stato-mafia-economia, risultava già efficacemente illuminato nella lettura debordiana della società. Se l’economia politica tardo-capitalistica è strutturalmente ma mediocremente mafiosa, perché attraverso la diffusione spettacolare dell’ignoranza (in primis dell’ignoranza politica) impone “ovunque la formazione di legami personali di dipendenza e protezione […,] probabilmente è in Italia che la mafia, reduce dalle sue esperienze e conquiste americane, ha realizzato la forza più grande”.7

Nel nostro Paese, che è sempe stato un laboratorio, la mitizzazione della malavita costituirebbe in tal senso una ‘spettacolare’ distrazione dall’economia (anti-)politica della tarda modernità: all’esaltazione mediatica, in cui il crimine appare consumisticamente organizzato (seriale, sessuale, finto e fulmineo: una pulp fiction, come sintetizzò Quentin Tarantino nel 1994), corrisponde il nuovo, grigio e mediocre nesso politica-mafia, in forza del quale il ‘sistema’ non è più la malavita classica, ma l’organizzazione criminale del consumo, cioè l’ottusa distruzione dell’ecosistema. La spettacolarizzazione della malavita serve a nascondere il suo cupo, profondo conformismo, mentre l’eccezionalità del malavitoso porta a ignorare, cioè a non capire, considerandola normale, per non dire naturale (nel senso di Barthes: mitica), l’illegalità diffusa. È allora nella catena capitalismo > mafia > ignoranza che troveremo il quadro sintomatico della patologia: della vita malata che rappresenta il rovescio oscuro della filosofia.

 

 

Note con rimando automatico al testo 

1 In una prospettiva husserliana, dopo aver reso manifesti tutti gli ambiti in cui intendiamo esplorare il fenomeno, potremmo invece chiederci se la malavita abbia in ognuno di essi, cioè in tutte le sue occorrenze, un carattere strutturale, se lo abbia solo in alcune, o se sia ovunque qualcosa di contingente e singolare. In altri termini, potremmo chiederci qual è l’ontologia della malavita, cercando di capire se la malavita è la semplice occorrenza di un dominio di variazioni possibili all’interno di un campo, o è qualcosa che emerge nella sua irriducibile singolarità.

2 Ma anche agli antipoliziotti di tanto recente cinema coreano o giapponese. Alcuni di questi personaggi possono essere considerati gli abitanti del Parnaso della criminalità moderna, posti in cima a quella piramide ideale la cui base è probabilmente da individuare nei ladruncoli della narrativa picaresca come il Buscón di Quevedo (Vita del pitocco, 1626), con la loro sete plebea di un accaparramento immediato e rapace ai margini di una legalità che non ha ancora ricevuto la sua codificazione illuministica.

3 Le cui caratteristiche, lo ricordiamo, sono il continuo rinnovamento tecnologico, la fusione economico-statale, il segreto generalizzato, il falso indiscutibile, un eterno presente: cfr. G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, in Id., La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, p. 196.

4 G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, cit., p. 231. Per Debord si tratta dell’analfabetismo di ritorno. Riportando un comunicato stampa dell’epoca, egli nota inoltre come i mafiosi colombiani – i quali almeno rischiano la vita – non vogliano essere confusi con i nuovi mafiosi burocratico-politici, coi banchieri, i finanzieri, i milionari, i petrolieri e i padroni dei mezzi di comunicazione (cfr. ibidem).

5 Per Debord lo spettacolare diffuso è quello del capitalismo statunitense e poi occidentale tout court, contrapposto a quello concentrato, totalitario e poi sovietico.

6 G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, cit., p. 232.

7 Ivi, p. 235; 233.