Dal maggio 2022 su questa rivista non sono più accessibili molte immagini d'arte coperte dal copyright dei proprietari, ovvero generalmente musei e collezioni. Nella gran parte dei casi, l'immagine risulta vuota ma è leggibile la sua didascalia, per cui resta possibile la sua visualizzazione nei legittimi contesti.

Redazione e contatti

Cerca nel sito

Yakuza come potere

download del file DOC

Roberto Saviano una volta ebbe a dichiarare che la camorra non va considerata come un fenomeno criminale ma come un fenomeno di potere. Ho trovato subito quest’osservazione di impronta prettamente foucaultiana, in quanto essa ci sposta dalle tradizionali retoriche moralistiche sulle mafie (che comunque hanno le loro ragion d’essere) e dalle estetiche alla gangster movie verso il terreno dell’analitica dei poteri. Parlare di potere però apre tutta un’altra serie di problemi su cosa intendiamo con questo concetto. Qui non possiamo dissipare questa questione ma non possiamo neanche limitarci a dire che seguiamo l’impostazione di Foucault perché, pur essendo in gran parte condivisibile, soffre di alcuni limiti. In particolare la sua visione del corpo come estrema e sorda resistenza al dominio, è criticabile in quanto proprio le mafie ci insegnano che la rivalsa primaria sui corpi è proprio uno dei criteri di intelligibilità e di funzionalità delle macchine di potere1. Foucault ha comunque il merito di aver sottolineato gli aspetti “positivi” del potere ovvero quelli “costruttivi” a dispetto di quelli “costrittivi” della teoria classica. Questo però non deve farci dimenticare che i primi non esistono senza i secondi. Sarebbe stata preferibile un’analisi più coerente con le sue implicazioni strutturali, come ad esempio ci si sarebbe potuto attendere dalla teoria dei sistemi. Ma il tentativo su questo fronte, compiuto in quegli stessi anni da Luhmann è stato ancora più deludente, in quanto non si tratta di approccio realmente sistemico ma più limitatamente relazionale, il che non è equivalente. Non posso in questa sede dilungarmi su una questione così importante. Diciamo semplicemente che faremo qualche riferimento anche all’ambito della teoria dei sistemi, lasciando però necessariamente il discorso sul potere in sospeso e rimandando il lettore a un eventuale futura pubblicazione su questo argomento.

In ogni caso in questa sede non parleremo dell’estetica violenta della yakuza ma della yakuza come fenomeno di potere e ci chiederemo quale sia il rapporto che essa intrattiene con le popolazioni giapponesi che vi hanno a che fare e che tipo di rapporto intrattiene con le strutture di potere istituzionali legate al governo democraticamente eletto della nazione nipponica.

Il gioco del bene comune

Un ricercatore tedesco studioso della teoria dei giochi e delle decisioni, ha fatto nel 2004 un esperimento inventando un gioco che lui ha battezzato “gioco del bene comune”. Le implicazioni di questo gioco sono state apprezzate anche nell’ambito della teoria neodarwiniana della cultura tanto che Peter Richerson e Robert Boyd autori di un famoso saggio in materia hanno considerato (forse eccedendo) che le implicazioni di questo semplice gioco potessero essere una chiave di spiegazione per l’ordinamento sociale generale dell’uomo. Il gioco consiste semplicemente nel dare ad ogni giocatore differenti quantità di gettoni che possono essere impiegate per comprare cose ma anche per essere messi insieme in una cassa comune per comprare cose a beneficio di tutti paritariamente. Il gioco ha mostrato che inizialmente i giocatori hanno elargito volentieri delle somme a beneficio di tutti, ma in un secondo momento si sono accorti che, non essendo obbligatorio, qualcuno non aveva fatto elargizioni e che quindi stava usufruendo dei beni comuni senza aver contribuito. A questo punto è interessante notare che non potendo fare niente contro costoro, i giocatori contribuenti si sono disincentivati e hanno finito quasi tutti per smettere di contribuire. In altre parole il comportamento dei furbetti non potendo essere represso è diventato paradigmatico. Allora lo sperimentatore ha aggiunto una clausola che prevedeva che i contribuenti potessero, pagando una piccola quota, denunciare e costringere i non contribuenti a pagare. In questo modo il contributo sociale ha ripreso quota ed è rimasto lo standard. Ora personalmente sono contrario a trarre da questo gioco conclusioni a livello universale perché i suoi risultati possono variare a seconda della cultura di partenza per cui non sappiamo se questo gioco darebbe gli stessi risultati in ogni cultura. Nonostante tale limite, questo gioco è interessante e ci dice qualcosa di molto chiaro in termini cibernetici e cioè che la possibilità di mantenere un’istituzione comune basata sul contributo dei giocatori dipende da una questione di feedback. In mancanza di feedback questa istituzione sociale minimale, si scioglie come neve al sole. In presenza di un feedback che permette di agire sui non contribuenti (quelli che i darwiniani chiamano “gli egoisti”) censurandoli o punendoli, allora l’istituzione può reggere. Il feedback inoltre è una cerniera che funziona su due livelli: ad un livello materiale, in cui il feedback è lo strumento degli individui che agisce sugli individui e ad un livello formale, in cui tale feedback è generalmente lo strumento del sistema “fondo comune” che mantiene in equilibrio se stesso. Ma da questo semplice gioco emerge anche un’altra semplice verità del potere, che riguarda anche quello che non si regge sul consenso e sul contributo volontario e cioè che senza feedback non c’è potere o meglio ancora senza la costituzione di un sottosistema di feedback non c’è sistema di potere.

Ora, da un certo punto di vista questo gioco sembra stato scritto per illustrare il caso italiano. È tema anche di attualità il fatto che lo stato non riesca ad esigere la gran parte dei contributi che gli sono dovuti e non a caso lo stato ha un forte problema di feedback anche perché tra l’altro (riportando il discorso al gioco in questione) non permette ai cittadini di denunciare gli “egoisti” e di imporgli la contribuzione. Quindi senza feedback possibile è (sempre secondo il gioco) necessario che il comportamento degli “egoisti” diventi maggioritario o addirittura paradigmatico. Questo però sembra un discorso fatto per la questione dell’evasione fiscale ma cosa c’entra con le mafie? Il punto è che le organizzazioni mafiose hanno al centro del loro operare un forte, capillare e maniacale uso del feedback, ragion per cui anche se il contributo non è volontario e non è per il bene comune ma è imposto come pratica di dominio esso funziona molto meglio di un organo teoricamente volontario (perché teoricamente basato su un consenso volontario espresso liberamente attraverso l’elezione democratica dei propri rappresentanti). Mettiamo da parte quanto le cosiddette istituzioni democratiche siano l’effettiva espressione della volontà dei singoli cittadini, la qualcosa è importante, ma va discussa in altra sede. Il problema in questa sede è un altro, in quanto, quando un’organizzazione mafiosa chiede il cosiddetto “pizzo”, questo “contributo” viene pagato tanto da quelli che si sentono rappresentati dalle istituzioni (magari più malvolentieri) che da quelli che non lo sono. Il problema, in quello che potremmo chiamare il “gioco del fondo dei dominatori”, è allora diverso. In questo caso non si tratta di un contributo volontario di tutti, né di un contributo deciso a maggioranza ed imposto alla minoranza, bensì di un contributo deciso da una minoranza ed imposto alla maggioranza. Stante il fatto che teoricamente i rapporti di forza dovrebbero giocare a favore della maggioranza com’è possibile che una minoranza riesca ad imporsi con la forza a una maggioranza? Esistono quindi delle precondizioni per cui questo tipo di gioco possa funzionare. La prima di queste è che la maggioranza non sia coesa in una vera trama di alleanze, perché altrimenti questo gioco non potrebbe cominciare mai. Se, appena una minoranza prova a ricattare qualcuno, si trovasse di fronte la reazione compatta di tutta la maggioranza, il suo potere di penetrazione si annullerebbe. Quindi ci deve essere una situazione in cui la persona ricattata non riesce e non riuscirebbe a convogliare una reazione a sua difesa sufficiente a fronteggiare e a sovrastare quella del ricattatore. A queste condizioni un’organizzazione mafiosa intesa ancora limitatamente come racket può formarsi e diffondersi e radicarsi come se fosse un’istituzione. E in un certo senso lo è. Sono solo pochi e soprattutto recenti i casi in cui le istituzioni vengono fondate almeno teoricamente sul consenso e meno ancora quelle fondate sull’iniziativa volontaria della comunità. La maggior parte della storia ci illustra situazioni di dominio e in cui le istituzioni sono quelle imposte dai dominatori. Da questo limitato e parziale punto di vista (che sicuramente non tiene conto di tanti altri importanti fattori) le organizzazioni mafiose nascono e proliferano dove i poteri istituzionali preesistenti (siano essi democratici o dispotici) non riescono ad esercitare un feedback metodico, capillare e continuativo, tanto nel prelievo quanto nella tutela di chi subisce il prelievo. Questa tutela, infatti, non dovrebbe essere una buona azione nei confronti della popolazione ma una reazione vitale per la sopravvivenza del sistema di potere stesso. Quindi nella situazione italiana le mafie hanno rappresentato l’affermazione di una forma di potere forte e rapace, che si è insediato e formato in una situazione di potere vago, disordinato, a-sistematico. Questa situazione è una sorta di produzione neghentropica di potere che avviene a scapito delle forme preesistenti e anche però in modo tale da impedire la reattività delle stesse, mettendo in crisi il loro sistema immunitario. Nel caso della democrazia italiana questa crisi immunitaria viene creata attraverso la capacità di queste forme di potere neghentropico di gestire e quindi di condizionare la base stessa della legalità istituzionale condizionando il consenso elettorale e bloccando quindi alla base la capacità reattiva del macrosistema, che alla lunga non può che soccombere o resistere in maniera del tutto svuotata, essendo tenuto in vita come base di proliferazione dallo stesso sistema di potere parassitario e neghentropico.

In che modo si pone la situazione giapponese rispetto a quella italiana?

 

 

Le radici storiche della yakuza

Alle origini della yakuza giapponese troviamo una situazione strutturale non molto diversa da questa. C’è cioè un sistema preesistente che non è in grado di esercitare un controllo organizzato e coerente e che quindi contiene al suo interno sacche e lacune caotiche. La yakuza infatti affonda le sue radici in un Giappone feudale in cui si verificavano molti scontri e guerre intestine che lasciavano soprattutto le componenti deboli della società scoperte e alla mercé di vari tipi di attacchi. Nei testi sulla yakuza si trovano tre tesi sulle sue origini. La prima e la più diffusa è che la yakuza nasca nella parte più debole e degradata della popolazione urbana. La società giapponese fino alla restaurazione Meiji ha vissuto in un complesso sistema di caste, con una gerarchia di livelli di nobiltà, che differenziava anche i vari tipi di samurai, fino ai samurai più poveri che costituivano la fascia più bassa del mondo aristocratico. Poi c’erano i contadini, poi gli artigiani e infine i commercianti che erano i meno apprezzati all’interno del sistema delle caste. La gerarchia però non finiva qui perché al di sotto delle caste esistevano come in India dei “fuori casta” che in quanto tali erano “hi-nin” e cioè letteralmente “non-umani”. Questi intoccabili del Sol Levante sono meglio noti con un altro nome, quello di “burakumin”.

La questione dei burakumin è una di quelle su cui i giapponesi tendono in generale ad essere piuttosto reticenti, sia per vergogna, sia perché il termine stesso non è ritenuto politically correct (tanto che la parola non compare in molti dizionari), sia infine perché essa rappresenta una piaga ancora aperta nella società giapponese, ma dall’altra parte è una delle questioni che più stuzzicano la curiosità degli stranieri essendo il modo in cui cominciano a presentarsi le ombre dell’apparente paradiso giapponese. “Buraku” letteralmente significa piccolo villaggio di campagna, ma nel termine “burakumin” (gente di campagna) ha assunto un tono dispregiativo, com’è accaduto in Occidente a termini quali “pagus” nella Roma cristiana, o “villa” (nel senso di villaggio) in quella rinascimentale e moderna, dando origine ai termini “pagano” e “villano”, che hanno parimenti lo scopo di escludere e condannare una parte della popolazione. Questo lo dobbiamo dire per non farci facilmente insuperbire di fronte agli aspetti cruenti della società giapponese visto che aspetti simili si sono manifestati anche nella nostra società sebbene in epoche più remote.

I “burakumin” sono dei contadini inurbati provenienti dai territori più poveri2 in un momento in cui la città non è più pronta ad accogliere produttivamente nuovi soggetti e che quindi finiscono tra le schiere degli emarginati, di quella che Pasolini con un linguaggio marxista avrebbe chiamato il “sottoproletariato urbano”.

Sembra che sulle prime questi “villani” abbiano cercato di guadagnarsi da vivere organizzando delle bancarelle estemporanee davanti ai luoghi religiosi, un po’ come fanno gli extracomunitari oggi. In un secondo momento invece sappiamo che la situazione va stabilizzandosi e che in questo quadro di perdurante esclusione vengono relegati ai mestieri ritenuti contaminanti ovvero a quei mestieri che hanno a che fare col sangue e con la morte. Si tratta di mestieri come il conciatore di pelli e il becchino. Questo loro contatto con elementi impuri li stabilizza ma li segna definitivamente come impuri. È per questo motivo che vengono contrassegnati di un marchio di sub-umanità. Per tutto il periodo Edo questa minoranza sociale è stata schivata e disprezzata anche dai ceti bassi. E anche dopo l’abolizione delle caste alla fine dell’Ottocento è rimasto un sistema di segregazione e di apartheid sentito dalla popolazione anche se ormai i burakumin non erano più solo conciatori, bancarellieri e becchini. Ancora nel Giappone ormai democratico della rinascita economica postbellica le maggiori aziende del paese compilarono di nascosto un libro con i cognomi di tutti i burakumin in modo che questi non venissero assunti e ancora oggi, sebbene tutti condannino la discriminazione verso i burakumin la maggior parte dei giapponesi non vorrebbe che il loro figlio o ancor di più la loro figlia andasse in sposa a un burakumin. In seguito alle proteste da parte di questi per le perduranti discriminazioni sociali ancorché non istituzionali, i burakumin ottennero di poter richiedere degli indennizzi economici, ma la maggior parte di loro non li richiesero perché in tal modo si sarebbero fatti riconoscere come tali, mentre il loro principale desiderio è ancora oggi quello di far perdere le tracce delle loro origini e di esser semplicemente trattati da persone normali.

Una volta chiarito chi fossero, cerchiamo di capire in che modo questi sarebbero stati all’origine della yakuza. Trattandosi di un gruppo sociale discriminato ed emarginato il problema dei burakumin era quello di organizzarsi per resistere alle angherie e ai soprusi di cui erano facile bersaglio. Per questo motivo probabilmente hanno organizzato una sorta di corpo militarizzato volto alla difesa del gruppo. Questa tesi della semplice difesa però, proprio in ragione delle argomentazioni esposte all’inizio dell’articolo mi sembra poco convincente. Infatti le organizzazioni di tipo mafioso non sono dei semplici difensori degli oppressi o dei Robin Hood, ma sono a loro volta degli esattori e dei dominatori che cercano di imporre il loro controllo su un territorio. Nel caso dei burakumin questi territori erano da identificarsi in alcune zone delle città. Inoltre va specificato che il fenomeno dei quartieri dedicati ai burakumin e quindi il fenomeno in generale dei burakumin non riguarda tutto il Giappone e tutte le sue città. Si tratta invece di zone particolari del paese. Ora, dato che il Giappone ha un po’ la forma di un arco disposto in diagonale, in termini italiani potremmo dire che questo fenomeno interessa il centro-sud del paese, ma i giapponesi preferiscono parlare in termini di Est-Ovest e quindi direbbero che interessa il Giappone occidentale. Per essere più precisi si trattava in particolare (partendo da sud-est) delle città di Hiroshima, Kobe, Osaka, Kyoto, fino a Nagoya. Diversamente tutto il nord-est ne era privo. In città come Kobe patria della Yamaguchi-gumi, il più grande clan della yakuza del Giappone e anche in città come Kyoto è chiaro che esisteva un rapporto tra yakuza e controllo del territorio. Noi possiamo immaginare inoltre che in queste situazioni di povertà, discriminazione e frustrazione, la pressione ad affermarsi nell’illegalità fosse particolarmente forte e motivata. Infine a favore di questa prima teoria gioca il fatto che ad esempio sempre nella Yamaguchi-gumi, il 70% del componenti provengono da famiglie burakumin.

Un’altra teoria sull’origine della Yakuza invece si rifà alla crisi della classe dei samurai specialmente nelle sua fasce più basse.

Si racconta che fin dall’epoca Muromachi (XVI sec.), che fu un’epoca di grandi scontri all’interno del Giappone tra forze rivali che si contendevano il dominio di tutto il paese, ma anche dopo l’inizio dell’epoca Tokugawa nel XVII secolo, si aggirassero per il paese delle gang di samurai dedite alle razzie, che amavano vestirsi in modo appariscente, ed esagerato ma anche ricercato. Questi ronin o samurai senza padrone, non si ponevano contro l’ordine costituito e non contestavano l’autorità dello shogun ma semplicemente si avvalevano in modo esagerato dei loro privilegi di samurai per commettere angherie, prepotenze e addirittura uccisioni. Essi però amavano frequentare anche i quartieri di piacere come Gion a Kyoto. Questi ronin venivano giudicati pericolosi, molesti e stravaganti e venivano chiamati “kabukimono” o “hatamoto yakko”, erano anche il tipo di samurai che praticava lo tsujigiri, che era l’uso di uccidere una persona solo per provare il taglio della katana nuova che avevano comprato o che gli era stata donata. Questo atto ben esemplifica tutta la loro tracotanza nei confronti dei ceti gerarchicamente più bassi. Però questi gruppi che ci vengono dipinti come dei presuntuosi filibustieri erano molto lontani cronologicamente dalla nascita della yakuza. In ogni caso, a sostegno della seconda tesi, resta il fatto che questo tipo di atteggiamento, arrogante, prepotente e allo stesso tempo amante dei piaceri, appartiene a una tipologia umana che nel Giappone contemporaneo trova similitudini solo in due casi: quella dei bosozoku (le bande di motociclisti, alla Hell’s Angels, che scorrazzano sfidando la polizia) e appunto quello degli yakuza.

La terza teoria infine sostiene la combinazione delle due teorie precedenti e in particolare il fatto che questi fuori casta siano stati tiranneggiati ma anche protetti da queste bande di samurai facinorosi. La tesi dei samurai protettori dei poveri contadini è ad esempio illustrata da un celebre film di Kurosawa, I sette samurai, in cui però il prototipo dello yakuza viene identificato nel personaggio un po’ farsesco ed esagerato impersonato da Toshiro Mifune.

 

Origini della yakuza propriamente detta

Intanto dobbiamo ricordare che questi fenomeni mafiosi, come anche quelli italiani, hanno in realtà origini piuttosto recenti, anche se probabilmente, pur emergendo come fenomeno conclamato in tempi recenti, essi hanno in realtà radici profonde in una storia della vita marginale e delinquenziale non raccontata e che come abbiamo visto va ben più indietro. Secondo questa teoria il momento di crisi che ha innescato questo processo sarebbe da ricondurre alla crisi dello shogunato e alla guerra civile tra forze dell’imperatore e forze dello shogun che ha infiammato tutto il Giappone dalla metà del XIX secolo, e anche al periodo di shock e di sbando che è seguito alla restaurazione Meiji con l’abolizione del sistema delle caste, dei titoli nobiliari, la riorganizzazione dello stato, l’industrializzazione e l’apertura ai paesi stranieri. Per chi non conosce la restaurazione Meiji dobbiamo ricordare che si tratta di un fenomeno storico molto particolare. In Giappone, dopo i primi contatti con gli spagnoli che approdarono nel meridione (che furono chiamati per questo nanbanjin = “barbari del sud”) e che tentarono di diffondere il cristianesimo come mezzo per impossessarsi del potere, lo shogun scatenò una persecuzione anticristiana e si chiuse ai commerci con gli occidentali per tre secoli fino a quando, dopo vari tentativi fatti dalle potenze straniere per indurre il Giappone a riaprirsi ai commerci internazionali, una nave americana da guerra minacciò lo shogun di aprire il fuoco se non avessero accondisceso all’apertura di regolari rapporti commerciali. Lo shogun si rese conto che il livello tecnologico del Giappone non gli consentiva di opporsi con le armi a questa minaccia e quindi dovette accettare quella che aveva l’aria di un’invasione straniera. Per fronteggiare l’influenza straniera si verificò una singolare sintesi di emulazione e opposizione dell’Occidente, in cui al grido di “fuori i barbari (occidentali)” si combatté prima lo shogun per il ritorno al potere imperiale e poi si chiese addirittura aiuto agli stessi occidentali per vincere la guerra civile. Inoltre proprio gli anti-barbari furono i primi a rendersi conto che per fronteggiare il nemico occorreva porsi al suo livello studiando la scienza, la tecnologia e le istituzioni occidentali. Quindi proprio i conservatori per non soccombere agli occidentali furono quelli che si occidentalizzarono di più e che divennero politicamente i più riformatori e progressisti importando le costituzioni dei paesi liberali in Giappone. Questa necessità di un’opposizione mimetica all’Occidente portò la classe neo-imperiale a guidare il paese verso una rivoluzione culturale scioccante e traumatica, in cui venne sovvertito tutto il sistema di vita giapponese a eccezione dell’istituzione dell’imperatore che ne divenne il perno e che si pose come l’unica ancora di salvezza per lo smarrito popolo giapponese. A mio avviso è proprio in questo vuoto di potere e nello smarrimento ad esso connesso che vanno cercate le radici dell’organizzazione della yakuza che in modo kitsch e forse anche grottesco cerca di scimmiottare l’ordine militare della classe dei samurai (esautorata dall’imperatore) e la sua etica guerriera: il bushidō. Questo scimmiottamento del bushidō si può rintracciare in varie dichiarazioni e slogan di famosi clan della yakuza come ad esempio la Yamaguchi-gumi. Uno dei suoi capi ebbe a dichiarare ad esempio che la “guerra è la nostra fondazione”. Altrove si dice “義理を欠いては生けない” (che si legge giri wo kaite wa ikenai) e che vuol dire “Senza giri (=dovere, lealtà feudale), non si può vivere”3. Troviamo poi dei riferimenti ai rapporti di potere tipici dello shogunato e della sua civiltà di cui si rivendica implicitamente una continuità culturale. Ad esempio si richiama la figura del jikisan (直参) che era un vassallo diretto dello shogun e un suo intimo fiduciario e quindi al rituale del sakazuki della comunione mistica attraverso il bere lo stesso sakè che emula come nella tradizione cristiana il sangue che però in questo caso è il sangue della famiglia e non del dio. Infine troviamo riferimenti anche all’intreccio tra bushidō e buddismo. In un quadro appeso nella sede della Yamaguchi-gumi era scritto il seguente tetragramma (yojijukugo): 身捨仁取 che si legge shin-shan-jin-shu. Ora già l’uso dei tetragrammi rimanda sovente alla tradizione cinese coltivata all’interno dei monasteri buddisti, ma in più, se andiamo a fare una traduzione letterale di questo aforisma, vedremo apparire un tipico discorso buddista. Letteralmente infatti il suo significato è: “buttare il corpo, ottenere compassione”. Il disprezzo del corpo e delle sue esigenze fisiche e materiali egoistiche comporta una vera compassione verso le altre creature oppure procura a noi la compassione da parte degli altri. Questo discorso però in un contesto guerriero assume una sfumatura ben diversa e cioè: chi sacrifica la propria vita ottiene grande riconoscimento ovvero onore e gloria. In pratica: vale più l’onore che la vita. Ritroviamo così un suo significato all’interno della yakuza che ci è molto più familiare se paragonato alle retoriche dell’onore e del sacrificio per il gruppo sviluppate all’interno dei gruppi mafiosi nostrani. Questo scimmiottamento vorrebbe essere anche un’appropriazione di istanze culturali tradizionali che hanno una funzione leggittimatrice e giustificatrice anche se poi è chiaro che questi gruppi non si dedicano alla difesa di nobili ideali cavallereschi ma all’imposizione del pizzo, di ricatti, di estorsioni ecc. In ogni caso il boom della yakuza, la sua apparizione sulla scena nella forma in cui la conosciamo oggi va posta forse in tempi ancora più recenti, al di là di un’altra grande crisi storica: la sconfitta nella seconda guerra mondiale. Se tutta la disorientante e sconvolgente vicenda della modernizzazione aveva comunque trovato un punto fermo di riferimento nella figura dell’imperatore, all’indomani della guerra i giapponesi non solo hanno dovuto sopportare per la prima volta che la loro sacra terra dei kami (spiriti-dèi) venisse calpestata da un conquistatore straniero ma hanno dovuto subire la devastazione delle bombe atomiche e infine l’umiliazione di vedere anche il loro sacro imperatore degradato a essere mortale. Nel momento in cui i giapponesi hanno dovuto sopportare l’insopportabile e la fiducia nello stato è venuta meno, e anche in seguito a un periodo travagliato di disordine postbellico con mercato nero e altre forme di illegalità e di mancanza di una riconoscibile autorità il fenomeno della yakuza (le cui famiglie erano già nate come abbiamo detto in epoca Meiji) emerge in tutta la sua chiarezza di ordine illegale che prescinde da quello statale. In ogni caso gli occupanti americani in Giappone come in Italia, cercano un contatto con queste forme di organizzazione di cui riconoscono in qualche modo il potere e di cui cercano l’alleanza in funzione anticomunista. Non è un caso infatti che tutte queste organizzazioni siano politicamente conservatrici o addirittura reazionarie. Esse vorrebbero essere interpreti di valori tradizionali da usare come armamentario intellettuale e fonte di legittimazione anche se poi vengono piegate ai propri scopi utilitaristici. Inoltre se queste organizzazioni avessero condiviso un progetto riformista o rivoluzionario, semplicemente non sarebbero diventate delle associazioni a sfondo criminale ma avrebbero cercato la soddisfazione dei propri scopi con la battaglia politica per l’emancipazione. È proprio la negazione dell’emancipazione, e la mancanza di un orizzonte culturale legato all’idea di emancipazione (per ignoranza o per sfiducia) che contribuisce in maniera determinante alla formazione di tali forme di organizzazione. La yakuza è stata così usata dagli americani e da settori reazionari del governo per cercare di limitare l’influenza delle forze socialiste comminando a suoi killer azioni intimidatorie e l’eliminazione dei leader socialisti più scomodi.

 

Struttura della yakuza

Fin qui ci siamo concentrati su questioni storiche e abbiamo menzionato aspetti affini alla mafia italiana. Veniamo ora ad illustrare gli aspetti diversi rispetto alle mafie e gli aspetti organizzativi. Il primo aspetto divergente, che di solito stupisce chi non conosce la realtà della yakuza, è il fatto che i clan della yakuza abbiano regolari sedi pubbliche con tanto di logo registrato e talvolta anche con la presenza di piccole riviste interne al pari di una zaibatsu o comunque di una grande azienda. Non c’è bisogno di fare grandi ricerche per trovare il covo di un clan della yakuza, basta sfogliare l’elenco telefonico. La polizia sa benissimo dove si trovano. Ci sono stati giornalisti che hanno fatto servizi giornalistici o documentari in queste sedi naturalmente previa autorizzazione da parte dei dirigenti della yakuza. Gli yakuza rilasciano interviste a giornali e telegiornali, non si nascondono anzi si espongono. Non esiste in Giappone un reato associativo legato alla yakuza come non esisteva in Italia per la mafia prima che fosse introdotto per opera di Pio La Torre (Legge Rognoni-La Torre, 1982). Questo significa che la legge non persegue lo yakuza in quanto tale ma solo in relazione a specifici delitti le cui responsabilità sono sempre personali. Questo rende difficile mandare in prigione i capi dell’organizzazione che di solito non sono coinvolti direttamente nei crimini ed è altrettanto difficile dimostrare che essi siano dei mandanti, in quanto non esiste nessun fenomeno di pentitismo nella yakuza e nessuna legge che lo preveda. Recentemente c’è stata un’offensiva giuridica contro la yakuza ma i suoi toni sono molto diversi da quelli che ci si potrebbe attendere in un contesto di lotta alla mafia di tipo europeo. Uno degli strumenti più usati per contrastare la yakuza in Giappone è stato il reato di complicità. Ora questo reato è stato esteso anche a coloro che pagano il pizzo alla yakuza che quindi non sono riconosciuti come vittime e devono scegliere ora tra le rappresaglie della yakuza e quelle dello stato. Allo stesso modo le industrie che fanno accordi con la yakuza non vengono riconosciute come vittime ma come complici e quindi è scattato anche per loro l’obbligo di inserire nella loro ragione sociale l’impegno di evitare rapporti di affari con la yakuza. Il problema è che in ogni caso non si vuole colpire la yakuza frontalmente, dichiarandola illegale in quanto organizzazione. Riporto un caso a questo riguardo. Una volta a Tokyo c’era un periodo di guerra tra clan e c’erano state delle sparatorie proprio nelle vicinanze di una di queste sedi della yakuza. Gli abitanti del vicinato spaventati dagli scontri armati hanno chiesto al comune di rimuovere le sede della locale yakuza. La protesta dei cittadini finì sui media e la risposta dei capi della yakuza al giornalista della televisione che li intervistava fu che lo stato doveva solo essere più chiaro con loro e fargli sapere se aveva ancora bisogno o meno del loro aiuto. Inutile dire che dopo questa intervista nessuno si sognò di imporre alla yakuza uno spostamento di sede.

Un altro aspetto riguarda i limiti del comportamento della yakuza. La yakuza non si rivolta mai direttamente contro l’organizzazione dello stato. Non cerca di far saltare le auto dei giudici e in un certo senso sta al gioco, e gioca appunto a guardie e ladri. Quando vengono presi gli yakuza si fanno la galera disciplinatamente e fuori il clan aspetta il loro ritorno. Questo è particolarmente importante in una prospettiva di potere in quanto implica un tacito riconoscimento dell’autorità dello stato a governare la nazione e l’implicito riconoscimento delle leggi che pure si vanno a trasgredire. Questo significa che la yakuza non mira ad impadronirsi del governo della nazione, né direttamente, né indirettamente, ma che a loro interessa semplicemente ricavarsi uno spazio all’interno del quale poter proliferare. Le mafie italiane invece non solo guerreggiano contro le istituzioni ma tendono a svuotarle per gestirle in funzione dei loro interessi e per ricavarne l’impunità. Come ebbe a dire un esponente sempre della Yamaguchi-gumi, la yakuza è come il gas di scarico delle automobili, se ci sono tante automobili è inevitabile che vi sia anche tanto gas di scarico, essa è una sorta di effetto indesiderato del business, una forma di inquinamento sociale. È interessante però che gli yakuza stessi si percepiscano come una componente negativa della società avvallando l’idea di una parte sana che segue e rispetta la legge. Da questo punto di vista gli yakuza interpretano consapevolmente la parte dei bad boys.

Sempre all’interno di questi limiti dobbiamo notare che la yakuza, pur avendo in qualche caso e in una certa quantità gestito il traffico di stupefacenti, non ha mai inondato il Giappone di droga e ha sempre mantenuto il traffico e la circolazione delle droghe in limiti molto ristretti. In questo senso, sulle immense possibilità di profitto derivanti da questo traffico ha prevalso, nei clan della yakuza, una sorta di senso della salute della nazione, per cui si sono rifiutati di lasciare che la gioventù giapponese perdesse i propri soldi e la propria salute in questo genere di pratiche. A tutt’oggi le droghe sia pesanti che leggere sono una rarità in Giappone e non esistono nelle università tanto che ancora oggi anche i circoli studenteschi più alternativi i giovani pensano alla droga come al male assoluto.

L’organizzazione della yakuza invece come le associazioni mafiose italiane è basata sul modello della famiglia. A capo del clan sta il cosiddetto oyabun, sotto di lui sta il waka gashira (lett.: giovane capo o capo figlio) che media tra il capo clan e il lavoro dei wakashu (lett: ragazzini) da lui coordinati, paragonabili ai “picciotti” siciliani. A fianco del waka gashira, c’è saikō komon (lett.: alto consigliere) che intrattiene i rapporti con avvocati, contabili e segretari del clan. Poi sempre tra i coordinatori c’è lo shattei gashira (lett.: capo fratello minore) che a sua volta coordina i kyodai (lett.: fratelli). Non mancano poi le figure femminili come l’ane-san (lett.: sorella maggiore) che però rappresenta una sorta di moglie a livello mafioso dello yakuza. Come si vede tutto è basato sulla falsariga di un sistema familiare tradizionale, con il grande padre, il figlio primogenito, suo successore designato, i ragazzini, il fratello minore o figlio cadetto del capo e i suoi fratelli, la sorella ecc. Non bisogna far ricorso a Lévi-Strauss per capire che il sistema di parentela diviene una struttura modello, un sistema di pensiero buono per essere usato come scheletro della gerarchia delle relazioni di potere interne al clan. La metafora familiare inoltre funziona su vari livelli, il rito del sakazuki è un rito della comunione del sangue della stessa famiglia, l’ane-san si presenta come una sorta di moglie dello yakuza. Quando lo yakuza esce di prigione perciò viene atteso alla porta della prigione dalla sua famiglia mafiosa e la prima cosa che fa è quella di andare agli uffici della yakuza dove incontrerà la sua moglie mafiosa, renderà omaggio a tutti i suoi “parenti” si distrarrà con un banchetto di bentornato e poi, solo dopo di allora, tornerà alla sua famiglia reale, dalla sua vera moglie e dai suoi veri figli. La famiglia non è solo un sistema buono da pensare perché tutti lo conoscono e le relazioni che fanno seguito alle varie cariche sono implicite (e non hanno bisogno di essere spiegate), ma anche perché la famiglia è il luogo dei legami inscindibili, quelli che non si possono tradire anche a prezzo della vita. Infine tutto questo mondo simulato della famiglia mafiosa rispetto alla famiglia reale mette il soggetto in una situazione in cui si smarrisce veramente il confine tra realtà e metafora e non si sa più quale sia la famiglia vera e quella apparente. Questo fatto è molto diverso dall’Italia, dove invece famiglia mafiosa e famiglia reale coincidono essendo basata l’una sull’altra. Ma in Giappone questo modello trova un riscontro anche in altre forme di organizzazione come quella della kaisha (l’azienda) che tende a divenire la vera famiglia dell’impiegato. Si potrebbe addirittura dire che in Giappone la famiglia diviene veramente un gioco di specchi, o di scatole cinesi in cui la stessa nazione finisce col diventare una grande famiglia ma in cui la famiglia reale poi ne risulta svuotata nelle sue relazioni concrete.

 

Conclusioni

In conclusione, pur non mancando numerose affinità tra yakuza e associazioni mafiose italiane, ci troviamo di fronte a due modelli di potere differenti che hanno un rapporto diverso con le strutture istituzionali dello stato. Entrambe nascono da momenti o aree di sradicamento e disorientamento in cui manca una struttura di potere certa e a sua volta strutturante. Parliamo di quel potere positivo (non in senso morale, ma produttivo) affermato da Foucault. Questi vuoti di potere, o queste aree degradate di poteri non chiaramente regolati e privi di chiari meccanismi di sanzione (o ricompensa) costituisco un fondo melmoso in cui molte dinamiche sono lasciate alla deriva da istituzioni disattente o ancora sono lasciate in uno stato informe definito solo in via negativa da forme di discriminazione e di apartheid. In essi le persone per sopravvivere sono costrette ad arrangiarsi e quindi questi sono i terreni di elezione per la nascita di questi fenomeni di potere che si sviluppano risalendo i tessuti del corpo civile fin dove le condizioni di degrado o di incertezza amministrativa gli consentono di svilupparsi arrivando al suo cuore e alla sua testa se le condizioni glielo permettono. Quindi la differenza non è tanto di natura tra la yakuza e, ad esempio, la mafia, quanto di struttura dello stato a cui fanno riferimento. Lo stato giapponese ha avuto zone e momenti di vuoto definiti e delimitati nel tempo e nella struttura. Per il resto lo stato giapponese non è molto permeabile (anche se non si può neanche dire che sia impermeabile). In ogni caso le possibilità di espansione del fenomeno mafioso in Giappone sono limitate. Il rapporto che si stabilisce tra stato e yakuza tende quindi ad essere complementare. La yakuza si occupa di alcune aree di mercato che non possono essere gestite adeguatamente e pubblicamente dai settori dominanti della società. Alla yakuza viene lasciato quindi il dominio dell’ombra del corpo sociale come il mizu shobai (lett.: commercio dell’acqua) che indica tutto il mercato del sesso dalle forme di sostanziale prostituzione (anche se la prostituzione in senso stretto è proibita) alla gestione dei lovehotels, a quello delle case da gioco, dei casinò, delle scommesse, dei prestiti da usura, e altri giochi sporchi, come ad esempio il caso raccontato recentemente da un coraggioso giornalista giapponese (Tomohiko Suzuki) che fingendosi un aspirante lavorare in una centrale nucleare ha scoperto che il personale che lavorava presso le centrali di Fukushima in condizioni di estrema pericolosità era selezionato dalla yakuza in modo che questi non potessero poi denunciare le loro condizioni o creare problemi legali o sindacali all’azienda (per timore di ritorsioni) e che esso era costituito in gran parte dai burakumin di cui abbiamo parlato sopra. Infine tra i compiti della yakuza talvolta possono rientrare anche accordi clientelari per le elezioni, ma questo non avviene sistematicamente. In ogni caso la yakuza non sembra interessata a gestire o a influire particolarmente nella politica. Oggi inoltre assistiamo a una nuova controffensiva dello stato verso la yakuza con le leggi di cui abbiamo parlato prima che però non servono ad espiantarla ma servono a limitarne e a restringerne il campo di azione in modo che si mantenga entro livelli che in un certo senso sono giudicati utili per la politica. Ad esempio la yakuza ha il compito di intercettare e inquadrare tutta la nascente criminalità che altrimenti diverrebbe un serio problema in metropoli come Tokyo od Osaka. In questo modo tutti i piccoli aspiranti boss e leader di gang o teppisti vengono requisiti, inquadrati e disciplinati, permettendo che città enormi siano tra le più sicure del mondo per la gente normale. La yakuza disciplina nell’ombra la parte in ombra della società e anche i settori di domanda provenienti dalla parte “normale” della società che a quest’ombra fanno riferimento come nel caso del mercato del sesso e del gioco. In questo senso non è un caso che la cinematografia giapponese sull’argomento abbia un taglio decisamente diverso, molto fumettistico, un po’ alla gangster movie, ma tutto sommato molto meno drammatico della nostra. Lo yakuza è un guerriero-delinquente della metropoli noir, ma non è una specie di golpista come in Italia capace di mettere in pericolo l’esistenza stessa della democrazia. In Italia il modello non è quello della complementarità tra luci e ombre in un sistema di regole, ma quello di un degrado dell’intero sistema legale e produttivo del paese che permette a queste nuove forme di potere di suggere denaro, consenso, e dominio dalle debolezze del sistema legale risucchiando proprio la linfa vitale dello stato fino alla sua completa distruzione. In Italia la dinamica quindi è parassitaria e sono le mafie ad avere l’iniziativa, mentre in Giappone appare chiaro che comunque il controllo è nelle mani dei poteri legali (anche se questi non sono affatto trasparenti e spesso sono anche dispotici, ma comunque capaci di mantenere l’ordine e il corretto funzionamento di tutti i servizi e degli apparati dello stato).

Questo riguarda il lato della struttura o della langue in termini saussurriani, sul lato della parole, invece sta la questione del perché le mafie ad Oriente e ad Occidente riescano a reclutare nuova manovalanza e nuova dirigenza. La questione fondamentale a questo proposito è che esistono ad esempio in Giappone settori della società in cui la mancanza di mobilità sociale e le scarse opportunità di carriera fanno in modo che abbia senso per un giovane rivolgersi alla yakuza che gli permette in altro modo di coronare i propri sogni di benessere, di influenza e di riconoscimento. In Italia i sistemi mafiosi si sviluppano e la modalità mafiosa si propaga in molti settori anche del vivere civile non direttamente implicati con la violenza mafiosa, costituendo un paradigma in molte situazioni della società, perché, tornando al gioco dell’esempio di partenza, non ha senso giocare in maniera pulita ma suicida, quando tutti giocano sporco. Non c’è battaglia di polizia e magistratura che sarà vincente contro le mafie se non si comincerà a premiare seriamente gli onesti perché altrimenti avrà più senso comportarsi in modo mafioso.

 

Note con rimando automatico al testo

1 Il discorso di Foucault in realtà, volendo giungere a un livello molto complesso e sofisticato, dimentica la coerenza dei meccanismi primari. Foucault infatti ritiene che i poteri abbiano un’azione positiva cioè produttiva sulla costituzione dei discorsi della verità dei loro enunciati che pretendono di dire il soggetto costituendolo e allora proprio in relazione alla costituzione di questo soggetto come intreccio di pratiche discorsive il corpo rappresenterebbe nella sua cosale opacità e nella sua viscerale animalità un elemento irriducibile alle verità discorsive per cui né rappresenterebbe l’ostacolo o l’elemento di resistenza e di frizione. Questa visione del corpo resistente al logos, anch’essa discutibile, dimentica però, nella sua complessità di fattore relativo al rapporto tra potere e verità, dei meccanismi più semplici e anche primari del meccanismo di soggiogamento in cui invece il corpo funziona come catena di trasmissione delle logiche di dominio e della realizzazione dei loro fini.

2 A questi contadini dei villaggi poveri viene rimproverata più la povertà che non il fatto di essere contadini. Il contadino infatti nell’etica confuciana che ha permeato anche il Giappone è una figura rispettata. Ciò che non è rispettato è invece il nanmin (il profugo) che va a mendicare, che non ha casa e che si inserisce come corpo estraneo in una situazione già stabilita sia essa di campagna o di città e a cui vanno lasciati gli scarti e i ruoli peggiori. Questi rappresentano quindi nella società giapponese gli “ultimi”, anche nel senso di ultimi arrivati. Il loro essere fuori casta quindi è una condizione in un certo senso del tutto logica in quell’assetto così com’è del tutto crudele e spietato il trattamento a loro riservato.

3 Ricordiamo che la pronuncia della “g” è sempre dura in giapponese.