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Mala-vita come sottrazione e riappropriazione. Un’ipotesi.

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Conversazioni con Ubaldo Fadini
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Nota preliminare

Ubaldo Fadini ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune domande sul tema che caratterizza Kainos n. 12, cioè la malavita. Premetto una nota2 in cui richiamo alcune questioni dell’editoriale di Kainos allo scopo di reindirizzarle più direttamente (riorganizzandone in parte alcuni nodi) verso il campo della tua ricerca. Oltre che uno specialista del pensiero di Gilles Deleuze, cui hai dedicato diversi studi3 e curatele4, da parecchi anni ormai, almeno dal libro del 1991 Configurazioni antropologiche. Esperienze e metamorfosi della soggettività moderna, tu in fondo ti occupi di tematiche che si rivelano centrali per il discorso che stiamo tentando di articolare. Ricordo soltanto, intorno agli anni 2000, libri come Principio metamorfosi. Verso un'antropologia dell'artificiale e Sviluppo tecnologico e identità personale. Linee di antropologia della tecnica, oltre al Lessico postfordista, uscito nel 2001, co-curato con Adelino Zanini. Più vicini a noi, nel 2004 esce Soggetti a rischio. Fenomenologie del contemporaneo e, nel 2009, Lavita eccentrica. Soggetti e saperi nel mondo della rete5.Ubaldo Fadini

Sai che programmaticamente vorremmo tentare un’indagine di tipo filosofico della malavita. Lasciamo da parte, quindi, le indagini sull’oggetto sociologico o sull’oggetto estetico, per esempio nell’estetica del cinema e il relativo portato di cliché e di simulacri. Tenterei allora con il tuo aiuto, un’esplorazione del concetto di malavita e della sua morfologia.

Tuttavia, quello del perimetrare concettualmente la malavita è già un problema, poiché implica l’annullamento delle specifiche aderenze metamorfiche che l’indice testuale “malavita” ha con il reale, e che rappresentano le sue prolificazioni in ambiti che sono spesso molto lontani da quello filosofico in senso stretto. Viviamo un’epoca in cui la mala-vita appare come pervasiva; forse l’epoca della sua riproducibilità tecnica. Così lo scenario del capitalismo lobbistico e della finanza piratesca incrocia quello del berlusconismo e degli spazi vitali dei cosiddetti nativi digitali, che sono, dunque, nativi della “normalità della malavita” (e gli elettori, o non-elettori, di domani).

L’operazione di concettualizzazione mi pare necessaria: reca in sé una quota di sperimentazione e di efficace inattualità. Non dimenticherei l’aspetto linguistico:malavita è un termine composto (vita – mala). Non per caso è sdoppiato o eccentrico rispetto al pacifico autoriferimento a una forma di vita, da una parte, o alla compattezza di un valore morale (bene/male), dall’altra. Si tratta di una partizione interna le cui risonanze si perdono probabilmente nello stesso etimo del vocabolo, nelle consonanze che esistono, nel linguaggio ordinario, fra malavita e crimine, nella radice greca di crimine, che rimanda a Kri-no (esamino, decido) ma, al contempo, a Kri-ma (giudizio, condanna, pena).

Nel raddoppiamento riverbera il problema di fondo delle analisi del concetto di malavita: il male, da una parte; la vita, dall’altra. Una differenziazione fra valore morale e valore vitale che riproduce una linea di difficoltà, e quindi di ricerca, della filosofia contemporanea. L’attenzione al vocabolo rilancia poi la questione verso ulteriori domande, prevedibilmente più attuali e spendibili nel “mercato intellettuale”: che cosa si intende con vita (il problema del vivente)? Che senso assegnare all’opposizione fra valore morale del “male” e bios? Esiste una vita buona? Esiste una nuda vita?

Tracciate tali coordinate generali, vengo quindi a qualche sollecitazione per te, chiedendoti di declinare liberamente e a modo tuo la questione “mala-vita”.

 

I. P.

Uno fra i nodi teorici del problema “mala-vita” è che la criminalità, a vari livelli, permea le istituzioni. Tutte le istituzioni. Essa struttura porzioni rilevanti dei sistemi economici e di quelli produttivi. In questo senso, la malavita esprime un tipico fenomeno del “tardo capitalismo” globalizzato che, come sempre, tende a riflettersi nelle forme antropologiche.

Molte voci si levano, da parecchi anni e sino alla crisi di questi ultimi mesi, appellandosi legittimamente a un cambiamento (economico-politico) dello stato di cose. Il lessico di questo appello mi pare estremamente variegato: “rivolta”, “rivoluzione”, “conversione ecologica”, per fermarsi ai vocaboli più diretti. Ma in che misura un reale mutamento dell’esistente dovrebbe, a tuo avviso, passare per forme di irregolarità, cioè incorporare nella vita politica una forma di “mala-vita”?

U. F.

Partirei da un riferimento all’attualità del tema del bios che tu ricordavi, che mi consente, poi, di ripensare il termine “mala-vita”. In uno dei suoi articoli per il giornale “la Repubblica”, Roberto Esposito ha sottolineato, intervenendo a proposito del libro di Dario Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (Il Mulino, 2012), una progressione di parte del più significativo pensiero italiano degli ultimi decenni che va dal cosiddetto filone operaista a quello più propriamente “biopolitico”. Centrale in tale progressione è la riflessione, di segno politico, sul nesso di conflitto e crisi: sul fronte operaista si lavora sul luogo dell'estrazione di valore, rivendicando la forza del lavoro; dal lato della biopolitica, sostiene Esposito, si ha invece un’integrazione del conflitto all’interno di un mondo globalizzato che consente di ripensare la crisi (e il conflitto stesso) in un'ottica più ampia rispetto a quella economica e a quella politica, in una prospettiva che conduce al tentativo di delineazione di un possibile “governo della complessità”, sostenuta da un impegno di tutte le componenti sociali. A ciò porta dunque lo spostamento del luogo del conflitto nella (categoria di) vita.

Ora a me sembra importante cogliere un'altra dinamica, che legge tale spostamento in termini diversi, rilevando cioè l'introduzione – come si diceva una volta: storicamente determinata (altrimenti crisi e conflitto perdono di “sostanza”...) – di quote di capitale fisso, che possono anche essere politicamente sottratte, da parte di forza-lavoro contraddistinta sempre di più in termini cooperativi e cognitivi. Alla base di tutto questo c'è la ricerca su quell'assetto del mondo del lavoro che viene oggi comandato non soltanto come forza-lavoro, ma come forza-vivente, come corpo comune della società contemporanea (come corpo comune che ha in sé anche la disposizione propria della macchina produttiva).

I. P.

Dunque transitando dalla questione “crisi” e “conflitto”, tu accennavi alla necessità di porre l’accento sul concetto di “determinazione storica”. Forse in questo passaggio si individua uno stimolo a ricalibrare lo stesso concetto di “storico”, se non quello di “storico-materiale”, in rapporto al bios, e di qui alla vita-mala. Mi chiedevo se potevi re-inquadrare il concetto di “forza lavoro” e quello di “capitale fisso” estendendo il tuo argomento, anche mediante riferimenti ad autori, correnti o testi che possano meglio articolarlo. Oltre, naturalmente, a quello che mi pare essere sempre quello maggiore, sottotraccia, cioè Deleuze.

U. F.

Insisto, allora, su una figura particolare di questo quadro concettuale segnato dalla presa d'atto del significato odierno dello sfruttamento diretto del “bios”, per così dire (rimandando su questo punto alle analisi chiarificatrici di Christian Marazzi, Andrea Fumagalli e altri studiosi, che in un passato non troppo lontano hanno riflettuto sulle trasformazioni del capitalismo postfordista: penso a Claus Offe, James O'Connor, ecc.): nel rapporto attuale di sottomissione del “capitale variabile” al “capitale costante” c'è qualcosa di originale che vale la pena trattenere, cioè il fatto che nella sua realizzazione la nuova qualificazione della forza-lavoro dimostra che essa ha ripreso in sé, si è riappropriata, di modalità specifiche di presentazione del “capitale fisso”.

La forza-lavoro non funziona più semplicemente come “capitale variabile”, essa ha, infatti, oggi incorporato parti di “capitale fisso” (“macchine”, strutture varie per l'articolazione del processo produttivo, ecc.).

Ciò rende la forza-lavoro potenzialmente estranea al comando capitalistico (sotto qualsiasi veste): si tratta certo di un’estraneità virtuale, relativa, appunto potenziale, ma è su di essa che va portata l'attenzione, soprattutto quando si attualizza, in un qualche modo, rivelando dinamiche di incorporazione che si fanno anche sottrazione (di “capitale fisso”).

I. P.

Provo a ricapitolare e rilanciare. Le tue considerazioni disegnano un intreccio fra polarità teoriche riferite al capitale, come quella fisso/variabile. Questo intreccio consentirebbe di definire anche, su un piano filosofico più vasto, gli utensili per un’analisi critica di alcuni nodi irrisolti del postmoderno. Ad esempio: variabile/costante pronostica già una ri-calibrazione di virtuale/materiale. Probabilmente lì stai pensando anche alla messa a punto di una diversa logica di lettura. Forse è una logica che mette in tensione questi rapporti, che sono anche rapporti nel e del capitale, e mi pare sia a questo livello che si innesta, allora, la tua ipotesi fondamentale: concepire un nesso forte fra la “mala-vita” e la dinamica di “sottrazione e riappropriazione”6. Che cos’è questo nesso? Potremmo dire che è un nesso filosofico fra scorrimenti. Vi è un primo scorrimento che è “nel” concetto di malavita, o, meglio, nel processo di formazione di tale concetto, giacché riguarda il termine “male” e il termine “vita”. Vi è un secondo scorrimento che è dettato dalla dinamica fra riappropriazione e sottrazione, quest’ultima indicando depauperamento, ma anche furto o crimine. Nel quadro che tracciavi prima, dove accanto all’esigenza di rispettare l’urgenza del bios segnalavi l’esigenza di uno smarcamento dallo schema “biopoliticista”, il primo scorrimento è, ad esempio, quello fra bios e “vita sottratta” o “sfruttamento della vita”, ma anche fra bios e “forza-vivente” (come forza-lavoro). Proprio tale analogia fra scorrimenti definisce la tua qualità di lettura del concetto di malavita, animata dal tentativo di mettere in tensione la logica stessa del “rapportarsi al capitale”, che resta uno fra i gangli teorico-pratici inaggirabili della mala-vita. È un tentativo che opera su polarità che sono funzioni, come appunto quella della riappropriazione di sé, e, correlativamente, quella della sottrazione di sé.

Tramite quella che, con una formula, potrei denotare come ricapitalizzazione del soggetto, forse stai pensando a una figura di resistenza politica, o di resistenza antropologica che agisce dentro l’antropologico stesso. Come a voler integrare, o arricchire, attraverso altri riferimenti quell’elemento di fondo che è, per te, ancora deleuziano…

U. F.

In effetti, in questa prospettiva, quella che si può individuare come una trasformazione della composizione tecnica della forza-lavoro, che si fa più “rigida” paradossalmente “smaterializzandosi” (lo ripeto: tramite l'assorbimento di quote di “capitale fisso” e anche di “capitale circolante”), portando con sé una modificazione del momento del comando, l'ho letta negli ultimi tempi con l'aiuto di coloro che hanno fornito strumenti significativi di analisi dei processi di soggettivazione sotto veste “tecnica” (Gilbert Simondon, Richard Sennett, Bernard Stiegler e altri, di differente “marca” disciplinare).

Ma ancora di più: la sua rilevanza oggi mi consente di riprendere tradizioni di pensiero filosofico (e anche sociologico) che nel Novecento hanno fornito immagini assai stimolanti del rapporto tra l'umano e il “fisso”, tra l'essere umano e la tecnica, arrivando pure a evidenziare un carattere naturalmente artificiale dell'uomo. Penso a certa antropologia filosofica che si fa antropologia e filosofia della tecnica; alle riflessioni di matrice francofortese, a me particolarmente care, sul nesso di corpo e tecnica (si veda soprattutto Walter Benjamin), al ragionamento sulle dinamiche di ibridazione e coniugazione che ha come sua iniziale figura di riferimento fanta-scientifico il cyborg e così via.

Ma questi sono terreni di indagine, attraversati in lungo e in largo, che si confondono troppo con determinate vicende (auto)biografiche. Preferisco tornare sul piano della sottrazione e della riappropriazione (in quella società lavorativa dove il “bios” è direttamente sfruttato...)

I. P.

Ti lascio subito proseguire su questa linea, alla quale vorrei che tentassi di innestare altri motivi riferibili alla malavita, come quello della pirateria, che è parte integrante della nostra analisi a livello di rivista7. Sintetizzando l’argomento, il pirata è l’irregimentabile par excellence. Tuttavia, per combattere un pirata lo Stato, a un certo punto, ammette la liceità di poter comportarsi come un pirata, mettendo a nudo i nessi costitutivi di “sovranità” e “stato di eccezione”, e esibendo un legame con i concetti di “dominio” e “violenza istitutrice”. A tuo avviso come vedrebbe Deleuze queste forme di paradossalità stato-pirata?

Ti chiedevo, inoltre, che spazio vedi per un recupero, in questo orizzonte concettuale del “pirata” o della “malavita”, di figure come quelle del “mostruoso” o del cyborg, declinate entro i confini di un’antropologia critica dell’artificiale, che pone la metamorfosi come condizione pre-normale, cioè margine mobile fra il normale e il patologico. Non indica forse, tutto ciò, la forma logica, o, come dire, l’isitituirsi del paradigma della “malavita” o della “pirateria come nomos”? Te lo chiedo avendo in mente altre tue riflessioni, come quelle contenute nel lavoro che curasti nel 2001 insieme a Toni Negri e Charles T. Wolfe, Desiderio del mostro 20018, ma anche, tutto sommato, in quella rilettura del cyborg che fai in Cartografie antropologiche: sui “profughi del tempo”9, un articolo appena pubblicato nel numero monografico della rivista Ethics and Politics, dal titolo Tecnomanie/tecnofobie.

U. F.

Dicevo, in effetti, che preferivo tornare sul punto fondamentale che sto cercando di tratteggiare, vale a dire la dinamica della sottrazione e della riappropriazione (in quella società lavorativa dove il “bios” è direttamente sfruttato. Questo proprio allo scopo di poter affrontare la questione della mala-vita, perlomeno come piace a me, cioè nel senso di indicare ciò che non può che andare contro la legge, le leggi, e il diritto, i diritti, nella loro configurazione data.

Può essere un altro modo, da parte mia, di riprendere il passaggio deleuziano “dal diritto alla politica”, quel passaggio che appartiene al meglio del pensiero critico-radicale contemporaneo. È in questo senso che ho spesso analizzato l'idea di istituzione, meglio: del movimento nell’istituzione, prendendo in considerazione non soltanto il lavoro del primo Deleuze ma anche altri percorsi della riflessione novecentesca sul tessuto istituzionale (anche quelli di carattere marcatamente conservatore).

Aggiungo soltanto, tra parentesi, che tutto quello (o buona parte) di ciò che ho scritto, insieme ad altri studiosi, sul “desiderio del mostro”, sul prodursi di sempre nuove modalità di ibridazione (di congiunzione, di accompagnamento possibile...) tra l'artificio umano e quello più propriamente tecnico, è da collocarsi su un piano di attenzione alla mala-vita, all'introduzione del “fisso” nel vivente, introduzione connotata dall'imposizione di logiche di sottrazione del più di produttività così ottenuto: logiche di sovradeterminazione, rispetto alle quali si tratta appunto di cogliere la loro eventuale mala-parata nel momento in cui si delineano pratiche di decisa riappropriazione del valore/valere del “fisso” (e del “circolante”).

I. P.

Se intendo bene, allora, mala-vita è intesa come embodiment di quote di “non-variabile” nel “vivente-variabile”, il che significa ugualmente incorporazione di mala-vita nei soggetti. E, tuttavia, per quanto i soggetti si lacerino sotto la pressione della forza che, per così dire, li ruba a se stessi (etero-sottrazione dettata dal “più di produzione” cui sono assoggettati, in termini deleuziani-guattariani), o che essi siano mostruosi o ibridati, i soggetti sono anche soggetti che si ricapitalizzano, se mi passi l’espressione, cioè soggetti reattivi: la riappropriazione di ciò che è loro sottratto funziona come la leva “mala-vitosa” mediante la quale i soggetti si riappropriano.

Il movimento teorico che tu tratteggi, quello di sottrazione-riappropriazione, potrebbe coinvolgere, oltre che l’idea di un “fisso” (o anche di un elemento “materiale”), nel “variabile”, anche direttamente il modo di pensare la rete e il concetto di “divenire soggetti” nella rete stessa. Si potrebbero toccare, cioè, quei fenomeni di mutazione non solo individuali o corporei, ma che giungono sino alle relazioni interindividuali, per come esse vengono oggi aperte (o chiuse?) dal web 2.0… Mi veniva in mente un parallelismo: come operano, in fondo, lo stato moderno e le attuali “democrazie”? Mediante la trama mobile dei correlativi sistemi di governance (non dissimili alla struttura malavitosa, se se ne osservano le complesse e raffinate metamorfosi nel Novecento), e cioè: includendo gli individui e interrompendo le relazioni interindividuali… un po’ come sulla rete vista in senso non ottimistico…

U. F.

Sì, ci possono essere riferimenti a questo scenario….. Restando sulla mala-vita in riferimento a Deleuze (mentre il rinvio al mostruoso consentirebbe anche di richiamare Michel Foucault), vorrei sottolineare infatti come essa si disegni oggi come una mappa di virtualità, specifica dei processi di soggettivazione contemporanea, in grado cioè di segnalare dinamiche di possibile trasformazione dei soggetti reali messi interamente al lavoro, in tutte le loro determinazioni di esistenza.

Mappa virtuale e mappa reale, quindi... laddove la prima si presenta come una pluralità di possibili percorsi, in grado di stimolare una lettura delle carte stesse che le comprendano nella loro provvisorietà, dovuta al germinare di differenti divenire. È un altro modo di dire che le nostre figure, i nostri assetti “identitari”, sono concretamente “di passaggio”, con il carico di “oblio” (di sé e delle “cose” incontrate) che ciò comporta.

I. P.

Avvicinandoci alla conclusione, ti chiedo se puoi precisare il riferimento a Deleuze, da una parte, e quello delle resistenze antropologiche e soprattutto, credo, politiche, dall’altra in rapporto al concetto di mala-vita. Le resistenze politiche, se intuisco bene il tuo ragionamento, riguardano anche i fenomeni di produzione, come dicevi, ma in un senso molto vasto del termine “produzione”, se è vero che esso coinvolge forme di ri-soggettivazione che sono, forse, quasi-sociali; sebbene poi queste forme protosociali passino sempre da un movimento, non da un’essenza. E il movimento è quello di una produzione di sé intesa, nella tua semantica, come sottrazione e riappropriazione. Cioè a dire come funzione, non come essenza…

U. F.

Sì. Riprendo allora alcune pagine del saggio di Deleuze su Bartleby, perché a me piace vedere la mala-vita un po’ dalla parte del “pirata”. Oggi ci sono molti studiosi che recuperano la vecchia lamentazione nei confronti di una società senza padre (si ricorda A. Mitscherlich?), magari in una prospettiva lacaniana che si vuole correttiva rispetto alla dinamica delle macchine desideranti (non ben capita, a dire il vero!).

Il filosofo di Differenza e ripetizione è interessato a Herman Melville perché quest'ultimo gli pare assillato dal problema di comporre/riconciliare l'umano con l'inumano. Ciò ha come sua condizione imprescindibile la “decomposizione della funzione paterna”, in quanto è proprio essa – la sua “maschera” – a impedire l'affermazione del rapporto fraterno, vale a dire il costituirsi di uomini “nuovi”, “senza particolarità” (senza “qualità reificate”, aggiungerei). È nella società dei fratelli e delle sorelle che la si fa finita con la filiazione, nella costruzione di una nuova universalità che è composta di individui liberi, “anarchici”.

In fondo, non è tanto importante neppure la funzione paterna. È importante, infatti, assumere una prospettiva diversa, fondamentalmente piratesca, propria cioè di uomini e donne che fanno mondo, che lo delineano come un “processo”, come un “arcipelago” (scrive Deleuze). È il prospettivismo di gruppi di parzialità soggettive, di “relazioni fluttuanti” (“isole e infra-isole”): comunità di fratelli, di esploratori dell'arcipelago.

Cosa c'entra qui la mala-vita, l'idea che ne ho? Direi che può ri-tornare nel mio ragionamento nel momento in cui la sua originalità attuale ha a che vedere con quel combattimento della soggettività contemporanea che dopo il fallimento delle grandi rivoluzioni ha il compito di riappropriarsi del “fisso” anche e soprattutto attraverso il recupero di fiducia, da parte dei fratelli e delle sorelle, in società, nei confronti di se stessi e della processualità del reale...


Note con rimando automatico al testo

1 Con qualche rimaneggiamento e aggiunta, il testo che segue è ottenuto dal montaggio di due testi scritti fra agosto e novembre 2012 (le mie domande e la lunga risposta di Fadini). Il testo è stato favorito anche da un breve colloquio, avvenuto a Bologna il 24 ottobre 2012. Le sue, ci dice, sono da intendere come proposte preliminari, movimenti e linee di fuga su questo tema della malavita che trova ampio, stimolante e, in un certo senso, strategico. Anche politicamente. Come ci confessa congedandosi, vorrà tornarvi in futuro.

Ubaldo Fadini insegna Filosofia morale presso l’Università di Firenze. La sua ricerca corre sul doppio binario dell’estetica contemporanea e dell’antropologia filosofica. Animatore della rivista Millepiani, autore di numerosi saggi sul pensiero contemporaneo, ha tradotto e curato, fra gli altri, testi di G. Deleuze, A. Gehlen, T. Lessing, H. Plessner, P. Virilio.

2 Tale nota costituiva la parte iniziale del testo inviato a Fadini.

3 Si veda U. Fadini, Deleuze plurale. Per un pensiero nomade, Pendragon, Bologna 1998; Id., Figure nel tempo. A partire da Deleuze-Bacon, Ombre corte, Verona 2003; U. Fadini e S. Berni, Linee di fuga. Nietzsche, Foucault, Deleuze, Firenze University Press, Firenze 2010.

4 Cfr. le curatele e traduzioni: G. Deleuze, Divenire molteplice. Saggi su Nietzsche e Foucault, Ombre corte, Verona 1996; G. Deleuze, Istinti e istituzioni (co-curatela con K. Rossi), Mimesis, Milano 2002; G. Deleuze e F. Guattari, Macchine desideranti. Su capitalismo e schizofrenia, Ombre corte, Verona 2004.

5 Cfr. U. Fadini, Principio metamorfosi. Verso un'antropologia dell'artificiale, Mimesis, Milano 1999; Id., Sviluppo tecnologico e identità personale. Linee di antropologia della tecnica, Dedalo, Bari 2000; Id., Soggetti a rischio. Fenomenologie del contemporaneo, Città aperta, Troina 2004; Id., La vita eccentrica. Soggetti e saperi nel mondo della rete, Dedalo, Bari 2009 (con una prefazione di Pietro Barcellona); U. Fadini e A. Zanini, Lessico posfordista. Dizionario di idee della mutazione, Feltrinelli, Milano 2001.

6 Si noti che “Malavita come sottrazione e riappropriazione” è anche il titolo proposto da Fadini per queste sue considerazioni.

7 Cfr. V. Cuomo, La pirateria come (nuovo) nomos della terra, “Kainos n. 12 – Malavita”, Sezione Percorsi.

8 Cfr. Desiderio del mostro. Dal circo al laboratorio alla politica (a cura di U. Fadini, T. Negri e Ch. T. Wolfe), ManifestoLibri, Roma 2001.

9 Cfr. U. Fadini, Cartografie antropologiche: sui “profughi del tempo”, in Tecnomanie/tecnofobie, numero monografico di “Etica & Politica/Ethics & Politics”, XIV, 2012, 1, pp. 46-54.