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La storicità della mafia. Intervista a Umberto Santino

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D: Lei è il presidente del primo centro di studi italiano sulla mafia, che si richiama alla figura di Peppino Impastato. Quali sono le vostre attività?

 R: Premetto che il Centro è totalmente autofinanziato e che per svolgere le nostre attività abbiamo costituito una biblioteca, un’emeroteca e un archivio di documenti. Le principali attività del Centro sono la ricerca, l’intervento nelle scuole, la collaborazione con le iniziative che si svolgono sul territorio. E il ruolo del Centro è stato decisivo nella vicenda legata all’assassinio di Peppino Impastato.

Il Centro, affiancando i familiari di Peppino, è riuscito ad ottenere la condanna dei responsabili del delitto e la relazione della Commissione parlamentare antimafia sul depistaggio delle indagini operato da rappresentanti delle forze dell’ordine e della magistratura. Ricordo i volumi La mafia incasa mia, storia di vita della madre di Peppino, Lunga è la notte, con gli scritti di Peppino, L’assassinio e il depistaggio, Chi ha ucciso Peppino Impastato, con gli Atti giudiziari, Peppino Impastato anatomia di un depistaggio, il testo della relazione della Commissione antimafia, di cui recentemente è uscita la terza edizione.

Con il progetto “Mafia e società” abbiamo portato a compimento la ricerca sugli omicidi, pubblicata nel volume La violenza programmata, le ricerche sulle imprese mafiose (L’impresa mafiosa. Dall’Italia agli Stati Uniti), sulle idee di mafia (La mafia interpretata e Dalla mafia alle mafie), sul traffico internazionale di droghe (Dietro la droga, in quattro lingue: l’unico progetto che ha avuto dei finanziamenti dalla Comunità Europea), sulla storia della mafia (La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione delle sinistre, La cosa e il nome, Breve storia dellamafia e dell’antimafia), sulle lotte contro la mafia (Storiadel movimento antimafia) e prodotto altri testi, sul ruolo delle donne (Sole contro la mafia, Donne, mafia e antimafia, Storie di donne), sulla mafia finanziaria (The financial Mafia) su mafia e politica (L’alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andetti ai nostri giorni). Tra le pubblicazioni ricordo L’agenda dell’antimafia che esiste da vari anni.

Per la scuola abbiamo prodotto dei materiali raccolti nel volume A scuola di antimafia. Tra le iniziative sul territorio a cui il Centro ha dato il suo contributo di analisi e di partecipazione ricordo le lotte per la pace nei primi anni ’80, le lotte per la casa a Palermo, e ora il problema della tratta di esseri umani.


D: Perché secondo lei è importante che il fenomeno mafioso siastudiato?

R: Perchè sulla mafia abbondano gli stereotipi e ci sono pochi studi di carattere scientifico. La nostra attività di ricerca è volta a demistificare le idee correnti, che sono prive di base scientifica ma sono le più diffuse. Qualche esempio: la mafia come emergenza, secondo cui la mafia esiste solo quando spara, come se andasse in vacanza tra un delitto e l’altro, mentre è un fenomeno continuativo; la mafia come antistato, cioè un fenomeno opposto ed estraneo alle istituzioni, mentre l’interazione con settori istituzionali è un aspetto costitutivo del fenomeno mafioso. A fronte di queste rappresentazioni i paradigmi che hanno una qualche base scientifica (la mafia come associazione adelinquere tipica e come impresa) colgono solo aspetti parziali del fenomeno mafioso. Nel mio “paradigma della complessità” (la mafia come frutto dell’interazione tra crimine, accumulazione, potere, codice culturale, consenso sociale) ho cercato di rappresentare la poliedricità del fenomeno mafioso, che da un punto di vista strutturale si presenta come associazionismo criminale e sistema di rapporti che dà vita a un blocco sociale, con la borghesia mafiosa, composta da soggetti illegali e legali (professionisti, imprenditori, pubblici amministratori, rappresentanti della politica e delle istituzioni), come soggetto dominante.


 D: La struttura del fenomeno mafioso secondo lei ci è a grandi linee nota o c’è ancora qualcosa di importante che ci sfugge?

 R: Sappiamo molto su Cosa nostra, molto meno sul sistema di rapporti, come componente organica del fenomeno mafioso. E sfugge un dato essenziale: l’uso della violenza illegale, ma legittimata attraverso l’impunità, come risorsa a cui si ricorre quando il conflitto sociale non è governabile attraverso i mezzi legali e quando si profilano mutamenti del quadro politico che mettono in forse gli assetti di potere. La mafia ha avuto un ruolo essenziale nel periodo in cui bisognava fronteggiare le lotte contadine e un partito socialista e poi un partito comunista che rappresentavano un’alternativa possibile al sistema di potere costituito. E oggi l’accumulazione illegale è una componente del capitalismo finanziario, la cui caratteristica fondamentale è l’opacità che rende sempre più difficile la distinzione tra flussi di capitale illegali e legali.

 

 D: Può darci una periodizzazione essenziale delle fasi storiche della mafia?

 R: Ho studiato la storia della mafia come intreccio tra continuità e innovazione, tra rigidità formale ed elasticità di fatto, ipotizzando una periodizzazione che fa leva soprattutto sugli aspetti innovativi e sulla capacità di adeguamento al mutare dei tempi e degli spazi. Ho individuato una fase di incubazione, dal XVI secolo ai primi decenni del XIX secolo, in cui si può parlare di “fenomeni premafiosi”, segue una fase agraria dal XIX secolo ai primi anni ’50 del XX secolo, quindi una fase urbano-imprenditoriale negli anni successivi e una fase finanziaria dagli anni ’80 ai nostri giorni.

  

D: Si può ancora parlare secondo lei un’antropologia mafiosa? Qual è il rapporto fra cultura mafiosa e società di massa?

 R: Nel paradigma della complessità l’aspetto culturale ha un ruolo rilevante, ma anche su questo terreno abbondano gli stereotipi. Si è parlato di “subcultura mafiosa”, come cultura subalterna e marginale, arcaica e residuale, e ho proposto il concetto di “transcultura” per rappresentare l’impasto di aspetti arcaici e moderni e spiegare la persistenza del fenomeno mafioso in società e contesti diversi e mutabili nel tempo.

 A proposito di cultura siciliana le espressioni più usate sono: sicilianismo e sicilitudine. La prima, tratta dal linguaggio storiografico e politologico, indica una prassi ricorrente: quella di rappresentare gli interessi di strati dominanti come interessi generali per rafforzare la richiesta allo Stato di risorse e di potere. Nel secondo dopoguerra si ricorse al ricatto separatista per ottenere un’autonomia speciale, che una volta sconfitte le lotte contadine, dissoltesi con l’emigrazione, è stata utilizzata come fonte di arricchimento e di perpetuazione del potere dei ceti conservatori. La seconda è tratta dal linguaggio letterario e indica un’attitudine alla passività e alla sfiducia che vengono indicate come connaturate alla popolazione siciliana, senza distinzioni. In realtà in Sicilia abbiamo avuto con le lotte contadine i movimenti di massa tra i più grandi e continuativi d’Europa. La loro sconfitta si deve al fatto che lo scontro non era solo con i proprietari terrieri e i mafiosi ma con un sistema di potere a livello nazionale, di cui agrari e mafiosi facevano parte. Così si spiegano i massacri dei Fasci siciliani, nei primi anni ’90 del XIX secolo, ad opera dei campieri mafiosi e dell’esercito, le successive decimazioni di dirigenti e militanti, rimaste impunite.

 Nella società contadina la mafia ostentava i valori dell’onore e del familismo e si trincerava dietro le pratiche devozionali; nella società contemporanea i fini (l’arricchimento e il potere, a ogni costo e con tutti i mezzi) coincidono con quelli mafiosi. L’Italia degli ultimi decenni, con uomini come Berlusconi al potere, ha vissuto e continua a vivere una profonda crisi della legalità democratica: l’illegalità, legalizzata attraverso le leggi ad personam, è considerata una risorsa e l’impunità per i potenti e i loro cortigiani è uno status symbol. Sono entrambi caratteri costitutivi del modello mafioso.

  

D: Come viene rappresentato oggi il fenomeno mafioso? Non c’è stata secondo lei una spettacolarizzazione del fenomeno mafioso, la costruzione di una sorta di mito?

 R: Ha dominato ed è abbastanza diffuso ancora oggi il mito apologetico, almeno per la mafia di un tempo, considerata meno violenta e rispettosa del codice onorifico. Le rivelazioni di Buscetta contenevano anche una rivalutazione della sua mafia, contrapposta a quella, feroce e violatrice delle regole, dei “corleonesi”. Ci sono stati anche studi sociologici che presentavano la mafia “tradizionale” in competizione per l’onore, mentre la “nuova mafia” avrebbe scoperto solo negli anni ’70 la competizione per la ricchezza che avrebbe innescato la violenza all’interno e all’esterno. La rappresentazione televisiva che ha avuto un grande successo, “La piovra”, iconizza una supermafia planetaria, onnipresente e onnipotente, praticamente invincibile. Una recente fiction televisiva, “Il capo dei capi”, esaltava Riina come l’eroe negativo, ma certamente più affascinante del suo antagonista. In una scuola in cui da anni si svolgono attività antimafia, la preside e gli insegnanti mi raccontavano che il giorno dopo aver visto quello sceneggiato alla televisione tutti i ragazzi volevano fare per gioco il capomafia, nessuno lo “sbirro”. È un filone che parte dal Padrino, all’insegna della mafia come baluardo della Tradition e del mafioso come portatore di valori in una società disorientata, priva di riferimenti credibili.

  

D: Questa spettacolarizzazione non ha in qualche modo retroagito sul fenomeno stesso? Come si rapportano i mafiosi di fronte alla loro rappresentazione mediatica?

 R: Qualcuno ha scritto che i camorristi, soprattutto le nuove leve, si atteggerebbero secondo modelli cinematografici. Reciterebbero quello che hanno visto sullo schermo. Per la mafia siciliana posso fare degli esempi su come i mafiosi costruiscono la loro immagine: uno è Provenzano, l’anziano capomafia corleonese; l’altro è Matteo Messina Denaro, il giovane rampollo di una dinastia di mafiosi del trapanese. I pizzini di Provenzano sono una sorta di work in progress della letteratura mafiosa e sono oggetto di ermeneutica da parte di studiosi e di scrittori. Usano formule di saluto e di commiato che orecchiano quelle delle epistole paoline, sono zeppi di invocazioni a Dio e a Gesù Cristo e si potrebbe dire che tradiscano una volontà di identificazione con i personaggi del testo sacro, che leggeva assiduamente e annotava puntigliosamente. Una reinterpretazione in chiave agiografica del ruolo di capomafia come pacificatore e conciliatore, che in parte coincide con quello effettivamente svolto almeno nell’ultima fase, dopo la stagione stragista di cui anche lui è stato protagonista, ma ignora o emargina il ricorso alla violenza, fisiologico nell’esercizio del potere mafioso.

 Il giovane Matteo Messina Danaro ha intrattenuto un rapporto epistolare con un politico, ex sindaco di Castelvetrano, e qui le citazioni sono letterarie e il gioco a costruire il personaggio è fin troppo scoperto. In entrambi i casi il capomafia più che specchiarsi nelle rappresentazioni in circolazione mira a costruirsi un’immagine e a proporla ai suoi sudditi e anche all’esterno.

 Cronache recenti parlano dell’uso di facebook da parte di sostenitori di capimafia in carcere, presentati come eroici resistenti alle “persecuzioni” della giustizia. Vecchi stereotipi camminano su gambe postmoderne.

 

 D: Cosa ha fatto la cultura italiana per decriptare il fenomeno mafioso? Oltre alla conoscenza storico fattuale, il livello di elaborazione storica intorno al fenomeno è sufficiente?

 R: Ci sono varie storie della mafia, vecchie e recenti, mentre sulle lotte contro la mafia c’è solo la mia Storia del movimento antimafia. Ci sono ancora problemi irrisolti o scarsamente frequentati, come il problema delle origini. Per tutti, o quasi, gli studiosi, la mafia muove i primi passi con l’unità d’Italia, negli anni ’60 del XIX secolo. Nel mio La cosa e il nome, utilizzando i pochi studi esistenti, ho cercato di documentare il processo di incubazione della mafia, i fenomeni premafiosi”, come le estorsioni, le connivenze tra criminali di professione e istituzioni. Sono certo che se si facesse una ricerca adeguata negli archivi fenomeni similari potrebbero essere documentati con ben altra ampiezza.

 Anche gli storici, e gli altri studiosi di scienze sociali, subiscono la polarizzazione: prima si parlava solo, o soprattutto, della mafia come cultura, comportamento; dopo le rivelazioni di Buscetta si parla solo, o soprattutto, di Cosa nostra, superstrutturata, piramidale e verticistica. Mentre una visione adeguata della mafia non può non coniugare associazionismo e codici culturali e tener conto degli altri aspetti di cui parlavo prima.

  

D: Dalla cultura all’economia; qual è il ruolo delle mafie nei flussi internazionali di capitale?

 R: Parlo di “mafia finanziaria” fin dagli anni ’80. Negli ultimi decenni le mafie sono diventate grandi macchine di accumulazione del capitale e sono uno degli aspetti più preoccupanti dell’attuale fase del capitalismo, in cui l’economia reale, produttiva di beni e servizi, è una particella sempre più esigua, mentre domina la finanziarizzazione dell’economia. La globalizzazione è criminogena per due aspetti fondamentali: l’aumento degli squilibri territoriali, tra centri e periferie, e dei divari sociali, per cui gran parte della popolazione del pianeta deve ricorrere alle varie forme di accumulazione illegale per acquisire quote di reddito, e la finanziarizzazione all’insegna dell’opacità del sistema di accumulazione e circolazione del capitale, che rende sempre più difficile la distinzione tra flussi di capitale legali e illegali.

  

D: Se si guardano le cronache giudiziarie degli ultimi venti anni e gli arresti di Riina, Provenzano e di coloro che venivano accreditati ai vertici di Cosa nostra, sembrerebbe che lo stato abbia riportato una serie di importanti vittorie. È veramente così? A che punto siamo nella lotta alla mafia? 

 R: C’ è stato un effetto boomerang dei grandi delitti e delle stragi degli anni ’80 e ’90 e lo Stato ha risposto in una logica di emergenza. La legge antimafia è venuta dieci giorni dopo il delitto Dalla Chiesa, le altre leggi dopo le stragi in cui sono morti Falcone e Borsellino. Cosa nostra ha perduto l’impunità e questo va collegato anche con il contesto politico e geopolitico. Il crollo del socialismo reale, la fine del partito comunista, il più grande partito comunista del mondo non al potere, ha tolto alla mafia la legittimazione come baluardo contro il “pericolo rosso”; la fine della Democrazia cristiana ha archiviato il maggior canale di collegamento con la politica e le istituzioni. La mafia siciliana, con l’emergere di altri soggetti, non ha più un ruolo egemonico nel traffico di droghe, cerca nuovi spazi, nuovi interlucotori tra gli attuali detentori del potere. Il quadro attuale è contraddittorio: Cosa nostra ha avuto colpi significativi, quasi tutti i capimafia più noti sono in carcere con pesanti condanne, ma il modello mafioso, come lo definivo prima, mi pare in perfetta salute. La crisi attuale, effetto del neoliberismo come pensiero unico e prassi condivisa, favorisce l’accumulazione illegale e il proliferare di soggetti di tipo mafioso

  

D: Secondo lei il quadro normativo mette a disposizione tutti gli strumenti possibili per la lotta alla mafia o manca qualcosa?

 R: Il quadro normativo è più tagliato sulla mafia impreditoriale che su quella finanziaria, anche se ci sono disposizioni, internazionali e nazionali, che si pongono il problema del riciclaggio del denaro sporco. La Convenzione delle Nazioni Unite sul crimine transnazionale approvata a Palermo nel dicembre del 2000 esporta il modello italiano fondato sull’associazione di tipo mafioso e mira all’abolizione del segreto bancario che però è ancora vigente nella selva dei paradisi fiscali non per caso raggruppati presso i grandi centri finanziari europei e americani. Il problema è che si guarda soltanto al capitale illegale già accumulato e non alle fonti e ai processi di accumulazione. Il proibizionismo è stato già ai tempi di quello degli alcolici negli Stati Uniti, ed è ancor’oggi con quello delle sostanze psicoattive, la grande occasione dell’accumulazione illegale. Il traffico di droghe è al primo posto nelle classifiche dei proventi delle mafie, segue il traffico di armi, foraggiato dalla conflittualità diffusa nei vari focolai di guerra, al terzo posto è il traffico di esseri umani, effetto della globalizzazione che produce emarginazione e reinventa il lavoro schiavistico.

  

D: Negli ultimi tempi è emersa, attraverso le inchieste della Procura di Palermo, una trattativa che a partire dal 1992 avrebbe coinvolto alcuni uomini delle istituzioni e Cosa nostra. Che idea si è fatto in proposito?

 R: La relazione fra soggetti mafiosi e soggetti istituzionali è costitutiva del fenomeno mafioso. Si può dire che finora non c’è stata mafia senza Stato, né Stato senza mafia. La trattativa oggetto delle indagini attuali riguarda i primi anni ’90 e mirava a chiudere la stagione delle stragi attraverso un do ut des. Tra le ipotesi in via di chiarimento c’è la strage di via D’Amelio in cui è morto Borsellino assieme agli agenti di scorta. Il magistrato è stato ucciso perché si sarebbe opposto alla trattativa. Non so se in sede giudizìaria si arriverà ad accertare la verità. Il problema di fondo rimane la struttura e la funzione delle classi dominanti, di cui la mafia ha fatto parte, e su questo terreno i magistrati possono fare ben poco. Tocca ai cittadini formare classi dirigenti che espungano la criminalità dal potere.

  

D: Falcone diceva che ogni realtà storica ha un inizio e una fine, quindi anche la mafia. Questa fine lei la vede prossima?

 R: Lo dicevo già prima: per Cosa nostra si può parlare di reali difficoltà, di colpi se non mortali certamente molto duri. Per il modello mafioso, per l’accumulazione illegale, per l’uso dell’illegalità come risorsa bisogna guardare ai processi a livello mondiale che favoriscono il proliferare di soggetti assimilabili alla mafia.

  

D: Parliamo infine della costruzione di una coscienza civile tra i giovani. Immagino che lei abbia avuto la possibilità incontrarne molti nelle scuole e di raccontare la storia di Peppino Impastato. Come riesce a rapportarsi a loro? Qual reazione percepisce? In particolare cosa pensa che provino i ragazzi del sud di fronte a questa figura?

 R: Peppino è diventato un personaggio noto solo dopo il grande successo del film I cento passi, che ha raggiunto centinaia di migliaia, se non milioni, di persone. Con i nostri mezzi limitatissimi potevamo e possiamo raggiungere solo qualche migliaio di persone. Il film in alcuni casi induce a una migliore conoscenza della figura di Peppino, ma la stragrande maggioranza si contenta dell’icona del ragazzo che si esibisce in piazzate notturne contando i passi da casa sua a quella di Badalamenti. Una metafora della vicinanza e della contiguità che va bene per milioni di persone ma non per Peppino che la mafia l’aveva in casa. Non per caso il titolo del libro con la storia di vita della madre l’abbiamo intitolato La mafia in casa mia. Non è facile sostituire all’icona la conoscenza della figura storica di Peppino e del suo ruolo nella storia del movimento antimafia: una figura unica per la sua provenienza da una famiglia mafiosa, ma ben ancorata a una storia e a un contesto. Tantissimi giovani, non solo quelli del Sud, hanno visto il film e cantano la canzone dei Modena City Ramblers, molto di loro vanno a Cinisi a visitare la casa della madre e partecipano al corteo del 9 maggio, ma non so quanti di essi hanno letto i nostri libri su Peppino.

 Le scuole negli ultimi decenni hanno avuto un ruolo importante con le attività di educazione alla legalità e il Centro opera all’interno di esse fin dai primi anni ’80, dopo la legge regionale approvata in seguito all’assassinio del presidente della regione Mattarella, che dispone “provvedimenti per le scuole siciliane per contribuire allo sviluppo di una coscienza civile contro la criminalità mafiosa”. Nel ’93, dopo le stragi, una circolare del Ministero della Pubblica Istruzione ha esteso le iniziative antimafia a tutto il territorio nazionale. Abbiamo fatto parecchi incontri con le scuole, soprattutto dopo i grandi delitti e le stragi; c’era una grande commozione. Abbiamo subito capito e proposto che bisognava andare oltre l’iniziativa sporadica e inserire queste attività nei programmi. E qui è emerso sempre di più che gli insegnanti, anche i più motivati, non hanno una preparazione adeguata. Abbiamo prodotto dei materiali destinati soprattutto a loro (Oltre la legalità) e svolto alcuni corsi di formazione e dei seminari con gli insegnanti. Abbiamo coinvolto alcune scuole, docenti e studenti, nella redazione dell’Agenda dell’antimafia 2011 e nel nostro progetto di creazione di un Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia che dovrebbe essere insieme percorso museale, itinerario didattico, biblioteca-videoteca, archivio, centro di ricerca, spazio di socializzazione. A questa progetto è legato il futuro del Centro. La regione siciliana nel 2010 ha costituito un comitato scientifico per la costituzione di un Museo della memoria, di cui faccio parte; ci sono state alcune riunioni, poi, dal febbraio del 2011, il silenzio. Di recente abbiamo avuto un incontro con il sindaco di Palermo: ha mostrato interesse per la nostra proposta, ma finora non c’è niente di concreto. Continueremo a lavorare a questo progetto che riteniamo necessario per salvare la memoria e costruire un’adeguata conoscenza della mafia e delle lotte contro di essa.