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La teoria del racket di Horkheimer

 


Aprire un varco nel confine tra dentro e fuori
è lo scopo della politica
Max Horkheimer


Il breve ma denso testo di Max Horkheimer che riproponiamo – in questo numero di Kainos dedicato al tema Malavita – fu scritto tra il 1939 e il 1942 allo scopo di includerlo nell'ultima sezione della Dialettica dell'illuminismo – scritta a “quattro mani” con l'amico Theodor Wiesengrund Adorno – sezione particolarmente ricca di spunti teorico-critici da sviluppare in seguito e, per l'appunto, intitolata Appunti e schizzi (Aufzeichnungen und Entwürfe). Die Rackets und der Geist, questo il titolo del brano, avrebbe dovuto figurare in questa sezione. È un testo che appare già pronto per l'inserimento nel volume. Eppure Horkheimer decise di tenerlo nel cassetto. Secondo Christoph Türcke, la proposta teorica contenuta nello scritto all'autore sarebbe apparsa troppo “generale”; la nozione di racket che proponeva sarebbe stata tropo a-specifica e non utile per comprendere i rapporti di dominio specifici, quali ad esempio quelli insiti nelle relazioni claniche di parentela oppure quelli interni alle organizzazioni mafiose novecentesche1.

Eppure è forse proprio in ragione di tale “generalità” che questa nozione potrebbe esserci utile oggi.

La tesi iniziale di Horkheimer è, infatti, che «la forma fondamentale del dominio è il racket». Ma che cos'è il racket? Esso è un'organizzazione che si caratterizza per il fatto che la forza che unisce i suoi membri è la “difesa” dai gruppi sociali ad essa sottoposti. Più l'organizzazione inasprisce la sua reattività difensiva verso il basso, più gli individui che lo compongono si irrigidiscono e inaspriscono i loro tratti caratteriali “reattivi”.

Per far parte di un racket, è la seconda tesi di Horkheimer, gli individui devono essere pronti a tagliare i ponti dietro di sé, devono essere pronti a sacrificare tutti i legami precedenti, anche quelli più cari, come pretendono non solo le mafie cattive e violente ma tutti i racket, anche quelli più “presentabili” come le “accademie” universitarie.

La tesi successiva sostenuta dal pensatore francofortese è che le regole “forti” del racket sono sempre quelle implicite, non scritte, sono quelle regole di cui magari ci si vergogna ma alle quali si acconsente nel momento in cui si entra a far parte dell'organizzazione. Il racket è, quindi, caratteristicamente “comunitario”, “sostanzialistico” e tendenzialmente avverso alle “mediazioni”. Questo forse è lo snodo teorico più importante del testo, perché mette in luce le relazioni tra i racket e lo “spirito” (che è sempre “mediazione”, fa intendere hegelianamente Horkheimer). La forza della sua proposta sta nel fatto che egli non si sogna neppure di opporre in modo semplicistico e immediato il racket cattivo allo spirito buono. In perfetta sintonia con l'amico Adorno, egli sostiene che lo spirito in origine sia racket (provo ad estremizzare). Quando la “norma” che regola l'appartenenza al racket si autonomizza come “diritto”, universalizzandosi, allora essa entra in conflitto con il racket stesso in quanto, nella sua “universalizzazione” (che potrebbe comunque essere parziale, imperfetta, incompiuta), manifesta l'idea di una “mediazione” tra “particolare” ed “universale” che è il segno dell'emergere dello spirito. Qui mi sembra ci sia, condensata e stilizzata in queste tesi di Horkheimer, la radice dell'opposizione tra “comunità” e “società” e tra “diritto sostanziale” e “diritto formale” che non solo ha trovato ampia eco nei dibattiti filosofici tra le due guerre mondiali, ma ha attraversato la carne della storia europea di quegli anni cruciali. Anni in cui, come sappiamo, anche uno Stato (quello tedesco) poteva strutturarsi come un racket “comunitario”, “identitario”, “sostanziale”.

I racket, tutti, conoscono solo la legge della loro auto-conservazione che entra in contrasto con la tendenza alla “formalizzazione” della norme, anche di quelle che regolano la vita dei membri dell'organizzazione. In Italia abbiamo tutti sotto gli occhi la crisi della Lega Nord che, nel momento in cui si è posta come forza politica di governo, anche se solo del territorio delle regioni del nord Italia, è stata costretta a “formalizzare”le norme che propone “per tutti” (un “tutti” in sé necessariamente molteplice, plurale), universalizzandole ogni giorno di più ed entrando così in contrasto con le pulsioni identitarie e comunitarie della sua base elettorale.

La proposta teorica forte di Horkheimer, perfettamente in linea con l'hegelo-kantismo del progetto filosofico-politico elaborato con Adorno, sostiene che l'universalizzazione delle “mediazioni” (dalle norme giuridiche alla lingua all'arte) sia il vero fattore dell'emancipazione dello “spirito” dal racket, perché le forme della mediazione solo in questo modo si aprono alle differenze.

Ma l'esempio più convincente che egli fa è quello del linguaggio, o, meglio, della “lingua”, come scrive. La lingua può inaridirsi fino ad assumere la forma di un linguaggio di pura e astratta comunicazione, come nel caso del linguaggio-codice Morse, oppure può mantenere la sua ricchezza e magari ampliarla, divenendo lingua attraverso la quale sia possibile l'espressione delle singolarità, la loro parola.

Se ogni racket congiura contro lo spirito, ci dice Horkheimer, allora compito della politica emancipativa sarà sempre quello di «aprire un varco tra dentro e fuori», universalizzando i diritti e inventando le parole per dire, meglio, le differenze, le singolarità.

 

Nota

1 Vedi Ch. Türcke, La società eccitata. Filosofia della sensazione, trad. it. di T. Cavallo, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 68.