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Educazione siberiana. Un percorso critico

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Nicolai Lilin

Educazione siberiana

 

 

Einaudi, Torino 2009

euro 20,00  pp. 343

ISBN 9788806195526



 

Nel suo splendido, ma poco frequentato saggio sulle Affinità elettive di Goethe1, Walter Benjamin distingue tra il contenuto reale o ‘cosale’ (Sachgehalt), e il contenuto di verità (Wahrheitsgehalt) del romanzo goethiano. Il primo non indica tanto la trama, il plot, quanto piuttosto l’elemento mitico e mortifero dell’opera, l’umanissima angoscia che aleggia nella vicenda dei quattro protagonisti (Edoardo, Ottilia, Carlotta e il Capitano); a sua volta, il contenuto di verità del romanzo é il suo nucleo profondo, che dev’essere segnalato, e così salvato, attraverso la critica del contenuto reale – cosa che infatti Benjamin tenta di fare scrivendo il saggio in questione. Non si pensi, beninteso, a un’interpretazione esoterica: la critica benjaminiana dell’opera d’arte non è l’esplicitazione di un segreto, cioè una banale dietrologia, ma rinvia piuttosto a un rapporto sagittale con la trascendenza – con la verità, appunto, in quanto posta al di là della stessa opera – che è necessario comunicare ai fruitori, perché essa si rivolge proprio a loro, li interpella, e spera nella differenza temporale che si dischiude (si è dischiusa o si dischiuderà) tra la scrittura e la lettura. In questo senso, come ha ben visto Derrida, ogni opera letteraria ha sempre qualcosa di postumo, di differito: isolandosi nel gesto, o nella pretesa singolarità dello stile (quindi tagliando via la propria vita abituale, quantomeno prendendo le distanze da sé) chi scrive (non molto diversamente da chi pensa) fa il morto, si sottrae alla vita rivolgendosi a un pubblico invisibile, o meglio sente la morte dentro di sé a tal punto, da non potersene liberare se non chiamando a raccolta le fantasmatiche vite dei posteri.

Ciò premesso, vi è una differenza epocale e ben poco salvifica tra lo scrittore (nonché critico, nonché filosofo) Benjamin e noi, i suoi posteri. Oggi è ormai molto difficile capire se ci si trova di fronte a un’opera d’arte o a un patetico sfogo personale, e i recensori alla moda, specialmente in Italia, non aiutano certo il lettore in questo sgradevole lavoro di separazione (critico in senso letterale) del grano dal loglio: su una stampa sempre più politically correct, la pseudo-critica radical chic decide per oscuri motivi editoriali (cioè economici) d’incoronare questo o quell’autore, senza preoccuparsi dello scarto fra contenuto reale e contenuto di verità – il più delle volte ignorandolo –, tanto che spesso la banalità delle recensioni sopravanza quella delle stesse opere. Certo, il metodo benjaminiano è arduo, ma se, con buona pace di Goethe e dello stesso Benjamin, si trova nell’attuale marasma pseudo-letterario un’opera in cui la morte aleggia insieme al mito (come vedremo, insieme a un particolare tipo di mito, quello della ‘criminalità onesta’), vale forse la pena di chiedersi, a distanza di tempo (a tre anni dalla pubblicazione), se esiste in essa un contenuto di verità, e se c’è, segnalarlo ai lettori ormai sommersi dalla pseudo-scrittura.

Prendendo le distanze sia dai detrattori (che però, come vedremo, hanno le loro ragioni) sia dai corifei (anch’essi non del tutto ingenui), vorrei qui recensire il primo romanzo di Nicolai Lilin come se non lo fosse: come se Lilin non fosse affatto uno scrittore, ma un (finto) testimone oculare, e mettendo ironicamente tra parentesi sia il contenuto cosale o reale, la trama, sia il valore artistico del suo Educazione siberiana. Trattandolo come documento e al tempo stesso come fenomeno culturale dai risvolti psicosociali, cercherò di far emergere il contenuto di verità di questo libro dal discreto successo, e per farlo partirò dalla realtà storica che esso, come ogni finzione degna di questo nome, umanamente ma sovranamente falsifica.

1. In Russia e tra le popolazioni appartenenti alla Comunità degli Stati Indipendenti (CSI: la confederazione sorta nel 1991 dopo il disfacimento dell’URSS), la criminalità codificata da un rituale è detta Organizacja (“organizzazione”), e i suoi capi vory v zakone (ladri per statuto o nella legge, ossia ladri che obbediscono a un codice), ma, sebbene non presenti una struttura verticistica analoga a quella di cosa nostra, essa viene indicata prevalentemente come mafija (probabile slavizzazione dell’italiano mafia,con i suoi don o padrini, i vory o avtoritet). La sua attuale potenza, del tutto sconosciuta nello stalinismo ma già cresciuta con la crisi del regime sovietico, è il frutto di una fulminea e capillare diffusione socio-economica se non addirittura politica nella CSI, nonché di una velocissima espansione nei paesi occidentali, che coincide con un’inesorabile, spietata globalizzazione.

La storia dei vory è quanto meno paradossale. Essi sono infatti il prodotto dei gulag siberiani, dove Stalin iniziò strategicamente a spedire criminali comuni e dissidenti politici sin dalla fine degli anni venti. Il principio fondamentale che stava alla base del codice vor, e che ne cementava la struttura reticolare (perché come detto priva di un vertice o cupola, ma capillarmente capace di dirigere l’attività criminale dall’interno delle prigioni) nata nelle disumane condizioni del carcerario sovietico, era la disobbedienza sistematica e violenta all’abolizione della proprietà privata, accompagnata dal rifiuto del vincolo matrimoniale e soprattutto del lavoro (che, sebbene esaltato dalla propaganda sovietica, veniva ancora percepito in gran parte della società russa come un’attività servile): furti e rapine costituivano motivo d’onore nella lotta contro l’apparato statale e la burocrazia comunista. Dal punto di vista genealogico, i vory sono il risultato dello scontro tra le bande giovanili e disorganizzate degli zhigani (nomadi ungheresi, moldavi e rumeni) e gli urki o urkagan (termine gergale che appare per la prima volta nel 1908 nel vocabolario malavitoso di Trakhtenberg), criminali di professione che dopo la deportazione nei gulag seppero adattarsi alle circostanze diventando i veri padroni del sistema punitivo sovietico. Sono loro gli Urka citati in Solzenicyn2 ed Herling3: terribili aguzzini cui era affidata la sorveglianza dei dissidenti nei gulag, esattamente come nei lager nazisti ai delinquenti incalliti era affidata quella di ebrei, detenuti politici e prigionieri di guerra.

Questa prima forma di paradossale complicità o indistinzione tra legge comunista e legge criminale si verificava all’interno delle prigioni. All’esterno, durante i decenni del regime comunista, l’Organizacja era formata da piccoli gruppi poco gerarchizzati il cui obiettivo principale consisteva nel realizzare un’altra forma di indistinzione tra criminalità e stato, corrompendo pubblici funzionari per reperire e vendere al mercato nero beni di consumo, occidentali o di lusso (tra cui prostitute e stupefacenti) richiesti dalla popolazione, ma assenti nell’economia pianificata, falsamente isolazionistica e moralistica del blocco sovietico. Attraverso il ricatto e dunque la connivenza del personale carcerario, quest’attività veniva diretta anche dai padrini detenuti, e alla fine degli anni ottanta, con l’avvicinarsi del collasso del regime, i traffici avevano assunto dimensioni mostruose.

Grazie all’inflazione galoppante, alla disgregazione delle autorità statali, all’inefficienza della burocrazia e all’anarchia delle privatizzazioni seguite al crollo dell’URSS, l’Organizacja non ha avuto più bisogno di nascondersi o di parassitare il sistema economico, ma di capitalizzare ‘legalmente’ i suoi profitti e così colonizzare la nascente economia di mercato. È per questo che in pochi anni – gli stessi nei quali una grossa fetta della popolazione è sprofondata nella disoccupazione o nella miseria – si è introdotta spavaldamente e senza coperture nell’edilizia, nell’industria (soprattutto bellica) e nel neonato sistema bancario commerciale della CSI (contribuendo in parte al suo collasso), per poi riciclare (cioè investire) negli Stati Uniti, in Israele (meta privilegiata della criminalità russo-ebrea durante e dopo il comunismo), in alcune zone chiave del Mediterraneo (ad esempio Cipro) e ovviamente in Europa (in particolare a Londra ma anche in Francia, Svizzera, Germania, Austria; almeno dalla metà degli anni novanta, la mafija russa è sbarcata sulla riviera romagnola e poi è penetrata nell’Italia centro-settentrionale, stipulando accordi strategici con le mafie italiane).4

Questa rapida, speculativa e vampiresca metamorfosi geopolitica ha condotto l’Organizacja post-sovietica molto al di là dei limiti angusti del mercato nero (che beffava il tasso di cambio del regime: 2 rubli per 1 dollaro) e della corruzione di miseri poliziotti sottopagati, ma non ha dissolto completamente la ritualità carceraria elaborata nell’epoca precedente, e di certo non ha scalfito la leggendaria violenza orientale, a malapena disciplinata dai metodi del KGB. L’orientalismo dei nuovi mafiosi russi consiste anche nella loro gelida, quasi cinematografica schizofrenia: abili manager, professionisti plurilaureati o imprenditori, spesso immobiliaristi o speculatori di borsa ‘fuori’, sotto gli occhi mediatici dell’Occidente, vory, cioè padrini autoritari o sanguinari ‘dentro’, nel tempio opaco della vita privata o nella gestione delle vere e proprie attività criminali – visto che droga, traffico di armi e di organi costituiscono ancora l’intérieur malavitoso della nuova rispettabilità globale.

Nell’era Putin, quando l’ordine statual-muscolare è stato incarnato da un esercito di 130.000 uomini armati fino ai denti (la milizia, già potenziata durante il governo di Boris Eltsin) e la paura è divenuta il sentimento prevalente nella popolazione, messa in ginocchio dalle ricorrenti crisi economiche e terrorizzata da nuovi conflitti (ad esempio dal terrorismo ceceno), il potere cosiddetto legale non ha saputo o voluto contrastare realmente l’espansione caotica e violenta dell’Organizacja, favorita anche dall’assenza di un vertice in grado di controllare o quanto meno coordinare le schegge impazzite dell’abbuffata neocapitalistica. Così sono nate decine di agenzie di security che ingaggiavano ex militari delle forze speciali per tutelare i propri clienti, ma tra gli agenti hanno nascosto anche uomini della mafia. Si è giunti cioè al paradosso per cui molti dei contractors assunti dalle aziende nazionali o estere per proteggersi, oltre a militari sovietici ormai disoccupati, erano in realtà uomini provenienti dall’Organizacja, che ha utilizzato le società di sicurezza per garantire ai suoi affiliati un ‘onesto’ porto d’armi, e corrotto (esattamente come nel passato) la polizia russa per ripulirne le fedine penali.5

Il paradosso è insomma, come già accennato, di origine storico-sociale e di natura economico-politica. A differenza delle mafie tradizionali, soprattutto nostrane, l’Organizacja non è stata costretta negli anni ottanta a intimidire i magistrati o a ricercare intermediari politici, poiché alla fine del comunismo era l’intero sistema di potere a trovarsi invischiato nell’illegalità. Il capitale sociale della mafia, maturato durante il regime sovietico, consisteva nella sua capacità di amministrare alla luce del sole, attraverso la corruzione di tutti i gangli della macchina dello stato (funzionari, giudici, procuratori, poliziotti, ecc.), tutte le possibili attività economiche illegali. In tal senso, l’Organizacja è la forma assunta dall’economia politica di mercato durante il regime sovietico – una forma che, proprio in quanto criminale, le ha consentito alla fine di quest’ultimo di colonizzare le nascenti, selvagge privatizzazioni e di penetrare velocemente nel cuore del sistema occidentale: nel capitalismo finanziario. L’assoggettamento ‘criminale’ della politica all’economia virtuale, che caratterizza la nostra epoca, sembra infatti perfettamente speculare al comportamento dei vory v zakone, che, diventati manager, si sono rapidamente e disinvoltamente assoggettati alla legge del profitto. Non a caso, Giovanni Falcone ha affermato (Wiesbaden 1990) che la mafia russa, insieme ad altre organizzazioni come le triadi cinesi e la yakuza giapponese, è capace di convertirsi in tempi brevi a qualsiasi attività illecita, grazie al controllo della polizia, della magistratura e dell’intera società: nata in condizioni estreme (i gulag) per combattere le leggi dello stato sovietico, l’Organizacja si è vendicata parassitandone le strutture con la corruzione e poi invadendo gli stati capitalistici.

 

2. Il rovescio oscuro di questa vittoria mafiosa sul comunismo è intessuto di sofferenza, e ancora una volta paradossalmente, per i detenuti, ha il sapore di una sconfitta causata dal capitalismo.

Il codice linguistico, altamente simbolico, elaborato negli anni trenta dagli urki riorganizzatisi nei vory v zakone era detto fenja, e la superficie di scrittura utilizzata per comunicare nelle carceri attraverso tale codice era il corpo stesso del detenuto. Per questo motivo, nelle prigioni russe gli affiliati all’Organizacja esibiscono ancora oggi complessi ed estesi tatuaggi, la cui terribile storia ha poco o nulla a che fare con la moda del tatuaggio diffusasi in Occidente negli ultimi decenni. La simbologia utilizzata per questi rudimentali body painting è di carattere prevalentemente religioso, con richiami naif allo stile delle icone russe, poiché già nei primi anni venti i monasteri sequestrati dai bolscevichi alla chiesa ortodossa furono trasformati in comunità di lavoro, poi di correzione, quindi in carceri.

Il senso e il destino del tatuaggio criminale russo s’intreccia dunque col sistema carcerario sovietico (gulag compresi), indicato nel gergo malavitoso con il termine ‘zona’, sistema che è letteralmente esploso dopo il crollo del comunismo. Uno dei documenti più impressionanti sul sovraffollamento e le terribili condizioni di vita nella zona, ovvero sulla violazione sistematica dei diritti umani nella Russia post-sovietica, è il film di un’ora e un quarto realizzato da Alix Lambert nel 2000, dal titolo The Mark of Cain6: di sicuro Michel Foucault lo avrebbe molto apprezzato.

La pratica del tatuaggio in carcere è sempre stata illegale: durante lo stalinismo, per poterlo fare i detenuti dovevano fondere i tacchi dei loro stivali per poi mescolarli con sangue e urina; anche oggi, facendosi tatuare si contrae con certezza la TBC7, eppure si calcola che almeno trenta milioni di detenuti o ex detenuti in Russia siano tatuati. La maggior parte di essi (uomini e donne) sembra considerare il lento accumularsi di tatuaggi sul corpo una sorta di strategia (an)estetica di sopravvivenza, o meglio un percorso d’identificazione oppositiva e disobbediente rispetto al potere che li ha condannati, comunicativa e simbolica rispetto agli altri detenuti, i quali possono ‘leggere’ sulla pelle del compagno la causa della condanna e delle eventuali recidive, il numero, l’ubicazione e il tipo di detenzione patito nelle prigioni in cui è stato rinchiuso, il rango raggiunto nell’Organizacja, ecc. Il tatuaggio dice insomma tutto quello che è necessario sapere per conoscere una persona senza chiederle nulla, mentre al tatuatore, anch’egli detenuto (in taluni casi un vero e proprio artista), almeno fino agli anni novanta veniva affidato il compito di rendere queste informazioni in uno stile conforme alla tradizione, alla divisione gerarchica e alla ritualità criminale dei vory v zakone, pur rispettando la personalità e il vissuto del prigioniero.

La gerarchia del carcere è crudele. Un giovane detenuto per omicidio intervistato da Lambert, osserva con un sorriso astuto che esso rappresenta un modello (rovesciato) dello stato, in cui ogni relazione umana appare esagerata, portata all’esasperazione, fino a rasentare il teatro dell’assurdo. I prigionieri sono divisi in caste nemiche: i ‘Neri’ sono i veri e propri vory, i padrini, mentre i ‘Rossi’, detti anche ‘capre’, si occupano dell’amministrazione e a volte collaborano con la polizia carceraria o partecipano alle violenze di quest’ultima ai danni dei detenuti8; sono perciò considerati traditori, e rischiano la vita nel caso di trasferimento in un campo dove non ricevono protezione dal personale di sorveglianza. I ragazzi arrivati dal riformatorio costituiscono invece i ‘senzacasta’, ovvero le ‘femmine’ a disposizione degli adulti per pratiche omosessuali; vivono in una condizione di totale sottomissione (come le stesse donne dei vory) e vengono loro tatuate svastiche o altri simboli di schiavitù addirittura sul viso.

Il fantasioso simbolismo dei vory è un misto di resistenza e resa, di sfida e rassegnazione al potere carcerario. I criminali più anziani hanno sul petto i ritratti di Stalin, Lenin o Marx, che nel periodo sovietico erano consigliati ai detenuti nel braccio della morte (sparare ai padri della rivoluzione era un gesto quasi sacrilego), mentre altri si facevano tatuare Kruscëv o Brežnev in dispregio al loro governo. Gli anelli, cioè i piccoli tatuaggi sulle dita, riguardano gli anni scontati se neri di inchiostro, se vuoti il numero di sentenze ricevute. La corona indica il passaggio per il riformatorio, mentre il rosso indica che il soggetto non è riformabile – non si sottomette. Le chiese e il numero delle cupole tatuate sulla schiena indicano le condanne, mentre le croci, come le stelle a più punte sulle ginocchia, vengono temerariamente sfoggiate da coloro che si piegano solo davanti a un’autorità criminale. Allo stesso modo, solo chi ha raggiunto una relativa superiorità e gode dunque di una certa sicurezza all’interno del carcere, può farsi tatuare sulle palpebre la scritta “non svegliatemi”, poiché normalmente i detenuti dormono a turno per evitare violenze sia dai compagni che dalla polizia penitenziaria. Vi sono anche simboli più banali: i boia sfoggiati dagli assassini, gli angeli per chiedere la protezione divina, i cuori trafitti da coltelli per indicare la disponibilità a uccidere o le spirali dei serpenti, che come le cupole significano il numero delle condanne scontate, mentre i ragni su ragnatele tese alludono alla tossicodipendenza (diffusissima nelle prigioni, in Russia come del resto in Italia).

Nel documetario di Lambert questa complessa, eppure primitiva simbologia è mestamente svelata da coloro che la incarnano: davanti alla macchina da presa, detenuti e detenute di tutte le età illustrano senz’ombra di narcisismo ma con malinconico orgoglio il significato e la storia dei loro tatuaggi. Accanto al rimpianto e alla solitudine (sono completamente solo, dice di sé un vecchio curvo e sdentato, cui il codice vor e la galera hanno proibito ogni affetto familiare), è evidente una presa di distanza, se non un’esplicita condanna da parte dei più anziani e degli adulti, rispetto alla pratica non più simbolico-rituale, ma edonistica del tatuaggio, diffusasi prima fuori dalle carceri, e poi dentro, dopo il crollo del regime sovietico. Agli occhi dei vecchi, i nuovi detenuti sfoggiano disegni senza significato, mentre loro cercano a volte di cancellare i propri col manganese o le sigarette per affrontare la vergogna del mondo esterno – anche se il sentimento prevalente tra i prigionieri, giovani o anziani, sembra essere una sorta di triste tenerezza per i simboli nerastri che portano sulla pelle. Essi restano infatti come il segno di una disperata, nonché doppia pratica di resistenza: contro il sistema penale che ne ha piegato o forgiato l’anima a suon di umiliazioni e torture, ma soprattutto contro il nuovo sistema economico che, nonostante l’apparente libertà, ha addirittura peggiorato le condizioni di vita nelle prigioni. Come riconosciuto anche da un militare intervistato da Lambert, il budget destinato alle carceri è stato drasticamente ridotto dopo il crollo del regime, al punto da farle scoppiare e da non poter più garantire la mera sopravvivenza dei detenuti, e mentre il tatuatore intervistato, con la faccia butterata e la voce roca, si rammarica del fatto che “è finito il tempo dei tatuaggi”, colpisce il rimpianto di un vecchio dalla barba folta e canuta che ha probabilmente passato la maggior parte della sua vita in galera (senza per questo essersi ‘istituzionalizzato’, come accade invece a Morgan Freeman, il ‘Red Redding’ del film Le ali della libertà), ma soprattutto la lapidaria sentenza di un altro detenuto sulle cause socio-economiche di questa spaventosa decadenza: “oggi esiste solo il denaro, è impossibile essere un vor: sono tutti venduti”. È come se il capitalismo selvaggio esploso nella nuova Russia avesse deformato grottescamente il codice dei vory v zakone, fino a provocare in alcuni di essi una sorta di nostalgia per lo squallore sovietico e per la sua stessa legge, di cui il mondo criminale era pur sempre il negativo.

3. Il regista canadese David Cronenberg ha definito The Mark of Cain “un documentario coraggioso sulla subcultura del tatuaggio nelle prigioni russe. Non so esattamente come sia stato fatto, ma è splendido, spaventoso e spezza il cuore”. Nel suo Eastern Promises9, che è stato forse parzialmente ispirato dalla visione del film di Lambert ma appare profondamente – ovvero cinematograficamente – infedele al suo spirito di denuncia, viene filmata una skhodka, l’assemblea dei vory che si conclude con il rito di iniziazione dell’affiliato: farsi tatuare le stelle sulle ginocchia10. Come simbolo identitario e di potere, il tatuaggio delle stelle consacra l’uomo (Viggo Mortensen, alias Nikolai Luzhin) all’organizzazione criminale e lo obbliga a combattere lo stato in ogni sua forma o autorità, soprattutto quella poliziesca – esattamente come rivendicano di fare o aver fatto i detenuti del documentario di Lambert.

L’ironia sottile del film di Cronenberg, di cui in questa sede non affronteremo né il valore artistico né la fortuna commerciale, ma solo la strana propedeuticità al romanzo di Lilin, consiste nel fatto che le stelle vengono tatuate a un infiltrato della Federal’naja služba bezopasnosti (FSB, Servizi federali per la sicurezza della Federazione russa), nuova versione del KGB nata nel 1995 soprattutto per combattere le infiltrazioni mafiose nelle strutture private della security e nelle stesse istituzioni nazionali. Cronenberg compie anche un altro tipo di rovesciamento, rispetto al documentario di Lambert: mentre questo mostra gli effetti deformanti dell’economia di mercato nelle prigioni russe, il suo film mette in scena la violenza della penetrazione dell’Organizacja nel cuore del capitalismo occidentale.

La vicenda è ambientata a Londra, dove l’ostetrica Naomi Watts, alias Anna Khitrova, fa nascere una bambina la cui giovanissima madre muore per emorragia durante il parto. Per risalire all’identità della ragazza, Anna si appropria del suo diario, tra le cui pagine scritte in russo trova il biglietto di un ristorante chiamato Trans-Siberian. Vi si reca per cercare notizie al fine di rintracciare la famiglia di origine della ragazza e affidarle la bambina. Il ristorante è però gestito dal fassbinderiano Armin Müller-Stahl, alias Semyon, che è in realtà un vor, un padrino spietato il cui figlio alcolizzato e poco virile, Kirill (Vincent Cassel), si accompagna a Nikolai Luzhin, l’enigmatico autista di famiglia capace di flirtare con la Watts ma anche di strappare denti e unghie a un uomo appena sgozzato e buttare il cadavere nel Tamigi.

Il plot (il contenuto reale del film) si sviluppa a partire dalla necessità, per Semyon, di venire in possesso del diario della ragazza morta, nel quale sono tristemente registrate le terribili prove che possono inchiodare lui e l’organizzazione: la lettura della traduzione di questo testo struggente da parte di Stepan, ex agente del KGB e zio di Anna (Skolimowski), e dello stesso Luzhin, fa da contrappunto all’azione filmica e ne invera (in senso benjaminiano) la brutalità.

È infatti il padre di Kirill, apprendiamo dal diario, ad aver violentato la ragazza, drogata come molte altre prostitute bambine, e rimasta incinta dopo essere stata portata a Londra dietro false promesse (eastern promises) di libertà e lavoro. La sua fuga disperata dalla miseria (…siamo tutti sepolti sotto il sole della Russia; mio padre è morto in miniera, quindi era già sepolto quando è morto) si scontra con la completa sottomissione delle donne nel mondo malavitoso, magistralmente rappresentata da Cronenberg anche attraverso la scena in cui Luzhin, dopo aver posseduto con malinconica meccanicità una giovane e a sua volta tristissima prostituta per ordine di Kirill, in quanto infiltrato le chiede il nome, e la invita a resistere (resta viva ancora un po’) fino a quando la polizia farà irruzione nel bordello per sottrarre almeno lei a quell’inferno.

Questo particolare è importante, perché la stessa totale obbedienza, ma alle regole del codice vor, viene illustrata dal regista nella suaccennata scena della skhodka, in cui Luzhin riceve da Semyon l’investitura di capo attraverso il tatuaggio delle stelle sulle ginocchia, privilegio concesso a chi non si piega davanti a nessuno che non sia un’autorità criminale11. Per ottenere le stelle ed entrare nel clan, Luzhin deve superare una durissima prova di sottomissione: l’insulto e il rinnegamento della sua famiglia biologica. Egli mostra innanzitutto ai vory la sua vita scritta sul corpo (il truccatore Stephen Dupuis ha impiegato più di quattro ore a preparare Viggo Mortensen): condannato più volte (ha diverse cupole sulle spalle), è stato nella prigione di Kresty, a San Pietroburgo, poi in Siberia e per due anni nel braccio delle punizioni; in carcere era chiamato ‘il ceppo’, perché nessuno riusciva a spostarlo. Apostrofato dai padrini come ‘bue siberiano’, Luzhin pronuncia a questo punto quella che a giudizio di chi scrive è la battuta chiave di tutto il film: Esiste solo il codice. Nel conformismo destinale della malavita, la fedeltà al codice è superiore a ogni altro legame. Per provocarlo, gli affiliati chiamano infatti ‘troia’ sua madre, e offendono il padre, che aveva collaborato con la polizia, ma Luzhin non reagisce, dicendo con voce monocorde: non ho né padre, né madre, sono già morto a quindici anni [quando ha visto morire il padre, ucciso dall’Organizacja], da allora vivo sempre in uno stato di distacco.

L’apatia stoica di Luzhin, perfettamente incarnata dalla maschera di Viggo Mortensen, nasconde quindi un’altra promessa: infiltrarsi nei vory per vendicare l’assassinio del padre – dopo esser divenuto un criminale con la forza, egli ha deciso di collaborare con la FSB, e alla fine del film lo vediamo addirittura prendere il posto di Semyon a capo della fratellanza criminale: per esercitare il potere nei vory ci vuole distacco – bisogna vivere come se si fosse già morti.

Con la sua strana moralità (ad esempio, salva la bambina da Kirill, che vuol farla sparire nel Tamigi per salvare a sua volta il padre, che è anche il padre della bambina, ricordandogli: Noi non uccidiamo bambini, ci porterebbe sfortuna), Luzhin è una figura straordinariamente ambigua: anche quando, alla fine del film, lo si vede sostituire Semyon, resta impossibile decidere fino a che punto sia un infiltato, e fino a che punto un mafioso. In lui Cronenberg ha forse voluto fissare, senza peraltro sublimarlo, il tragico paradosso della vendetta: la giustizia fatta attraverso il crimine.

Nel complesso, con Eastern Promises (di cui è previsto un seguito), il regista canadese non ha cercato di nobilitare o mitizzare la mafia russa, quanto piuttosto di mostrarne la capacità di penetrazione nella city londinese, affidando l’incarnazione della sua forza brutale, eppure controllata, al corpo tatuato e allo sguardo beffardo e glaciale di Viggo Mortensen. Nel suo film la pratica del tatuaggio ha dunque un posto centrale – nella scena della skhodka e in quella della sauna – ma non è l’oggetto principale della vicenda.

Immaginiamo ora che un giovane e acculturato russofono della città multietnica di Bender (Transnistria, al confine tra Moldavia e Ucraina12), tatuatore free lance in Italia, residente a Cuneo dalla madre, nel 2007 abbia visto il film di Cronenberg, e forse nello stesso periodo, in rete, il documentario di Alix Lambert The Mark of Cain. Immaginiamo che, a soli 27 anni, abbia avuto una reazione violenta, doppia e anche in questo caso paradossale: da un lato, un rifiuto viscerale dell’ambigua trasposizione cinematografica (che ha il fisico perfetto dell’invincibile Mortensen) della squallida realtà delle carceri russe (dove l’insufficienza toracica è la norma); d’altra parte, dopo aver (forse) combattuto come cecchino in Cecenia ed essersi (forse) venduto alle agenzie di security13, al limite dell’esaurimento nervoso potrebbe (forse) averlo assalito un rifiuto definitivo della madre Russia (“Io non parlo più in russo con nessuno, a parte mia madre e i miei amici intimi”, ha dichiarato in un’intervista), unito a un comprensibile desiderio di riscatto morale e sociale, che il giovane ha assecondato con l’unica medicina che un uomo può usare con successo contro la sua stessa miseria: la scrittura.

La mia ipotesi di lettura del romanzo di Lilin prescinde completamente dal suo valore artistico e dalla sua fortuna commerciale (del resto, è la comoda formula con cui ho affrontato il mostro sacro David Cronenberg), e non è suffragata da alcuna prova, ma si basa su due affermazioni del suo autore, una rabbiosa e un po’ spavalda, attraverso cui traspare il rifiuto di considerare il tatuaggio una forma di subcultura (come invece fa Cronenberg): “Il film di Cronenberg è tutta una farsa. Il tatuaggio siberiano è morto con i siberiani. È una menzogna, dal film sembra quasi che tutti gli affiliati russi si tatuino, ma non è così. Quei tatuaggi li hanno solo alcuni, come per esempio Seme Nero”, l’altra molto più (come vedremo, falsamente) onesta: “Mi sono reso conto che non ero fatto per vivere nella nuova società furba” (l’Espresso del 29 dicembre 2009). Duramente attaccato da giornalisti sia russi che italiani, scritto direttamente in italiano e abilmente rimaneggiato da un editor della Einaudi, Educazione siberiana è un romanzo di finzione che ha venduto migliaia di copie soprattutto grazie alla recensione di Roberto Saviano su Repubblica – eppure mentendo esso dice la verità: se il suo fascino è anche il suo limite, questo limite ha (sempre in senso benjaminiano) un indice storico.

4. Nicolai Lilin, detto Nico, è un timido trentenne nato nel 1980 che ha ottenuto la cittadinanza italiana, ma la cui infanzia e adolescenza sono trascorse in un luogo periferico dell’impero sovietico, negli anni in cui il comunismo cominciò prima lentamente, poi inesorabilmente a crollare sotto i colpi del capitalismo e della corruzione – gli stessi anni in cui la mafia russa diventava mostruosamente potente. Ebbene, la caratteristica principale del suo romanzo è la presa di distanza morale da entrambe le ideologie, a favore di una mitologizzazione anarcoide della comunità degli Urka siberiani, del “rapporto siberiano con la vita” (p. 34) e della popolazione degli Efei (cfr. p. 103), misteriosa etnia da cui gli stessi Urca sembrano discendere e probabile deformazione del già ricordato termine fenja.

L’etnia siberiana e la comunità criminale degli Urka sono un mito creato da Lilin, ma che tipo di mito? Sicuramente un mito anti-comunista basato sia sull’identificazione con l’aggressore che sulla negazione: i compagni comunisti, “patrioti e costruttori di pace in tutta la terra” (cfr. p. 300) praticavano nei gulag le torture più disumane, ma spesso erano proprio gli Urka a farlo. In un’intervista, lo scrittore ha affermato: “Noi [sc. noi Urka] combattevamo contro il comunismo e i suoi residui, e contro una polizia corrotta, in uno stato marcio e corrotto”. Ma l’Organizacja moralmente superiore che egli dipinge non esiste, se non come reazione carceraria (vedi il documentario di Lambert) e letteraria a quella reale, marcia e corrotta, che si rafforza con la morte lenta del socialismo reale, diventando la comunità criminale più potente, ‘cafona’ e occidentalizzata, descritta nel romanzo come Seme Nero. Siamo dunque di fronte a un anti-americanismo conservatore, che si sovrappone a una paradossale, oltre che elementare forma di anti-comunismo, poiché il narratore oscilla tra l’odio per il potere in tutte le sue forme, e l’obbedienza assoluta al potere della tradizione.

È appunto il mito criminale siberiano a rendere possibile quest’oscillazione o paradosso della libertà malavitosa, che resta profondamente totalitaria e, a suo modo (cioè in modo letterariamente anarcoide), comunista: “il concetto della libertà è sacro per i siberiani” (p. 23), ma la loro individualità esiste solo se è conforme alle leggi della comunità criminale. In altri termini, la libertà dalla legge coincide con l’obbedienza totale a un’altra legge. Questa sorta di fusione tra democrazia e anarchismo rappresenta l’essenza politica della fantastica comunità siberiana creata da Lilin, in cui tutti hanno diritto alla parola, compresi i bambini (cfr. p. 109), e che appare perciò caratterizzata da una prospettica superiorità o purezza etnico-morale che il giovane narratore non manca di enfatizzare: “sentivo di far parte, di appartenere ad un mondo forte, e mi sembrava che tutta la forza di quel mondo si trovasse dentro di me” (p. 17). In tal modo la Siberia diventa un paradiso selvaggio e ricco di risorse (“i criminali siberiani, …i cui avi avevano assaltato per centinaia di anni le carovane mercantili provenienti dalla Cina e dall’India, non avevano avuto nessuna difficoltà ad assaltare anche quelle russe”, p. 56), da cui Stalin avrebbe cacciato l’eroica aristocrazia criminale degli Urka, deportando questi “criminali onesti”, dediti solo a furti e rapine, nella città di Bender.

L’essenza economica, completamente rovesciata, della comunità siberiana viene evocata dallo scrittore attraverso il rapporto con il denaro: “I criminali onesti, per una questione di dignità, non parlano mai di soldi” (p. 83) e non li toccano nemmeno (cfr. p. 138), come i nobili russi o polacchi in epoca zarista – in ciò consiste la superiorità morale dei siberiani creati da Lilin nei confronti della nuova mafia dilagante dopo il crollo del comunismo. La nobiltà criminale degli Urka impedisce loro di dedicarsi al racket, al commercio di droga e al controllo della prostituzione, mentre il disprezzo per il teppismo senza codice praticato da Seme Nero li obbliga ad uccidere chi costruisce il proprio potere sul denaro (cfr. p. 110).

In tale ottica, il romanzo di Lilin costituisce una sorta di reazione mitologico-morale all’espansione gigantesca della mafia russa negli anni novanta: “Chi vuole troppo è un pazzo, perché un uomo non può possedere più di quello che il suo cuore riesce ad amare” (p. 56). I russi che hanno ironicamente contestato la ‘criminalità onesta’ di Lilin non sono meno squallidi dei nuovi mafiosi dediti al capitalismo selvaggio: “…non andavano oltre le serate davanti alla televisione, la voglia di riempirsi il frigo con cibo buono e a poco costo, di ubriacarsi tutti insieme alle feste di famiglia, invidiare i vicini e cercare di essere a loro volta invidiati […] Il consumismo russo post-sovietico era una cosa impressionante, per uno come me. La gente si lasciava affogare nei detersivi di marca e nei dentifrici...” (p. 324).14

A differenza di questo mondo volgarmente reificato, che rappresenta la caricatura del nostro (non meno squallido ma all’apparenza più borghese), il mondo criminale siberiano creato da Lilin (in ciò epigono di Tolstoj) è ritualmente, religiosamente, tradizionalmente puro15, e tutti i suoi simboli sono rigorosamente premoderni. Uno di essi, ad esempio, è la “picca” – il coltello a scatto con manico di osso di corna di cervo che ha poteri magici, e diviene parte dell’anima del suo possessore (cfr. p. 29)16: “Le nostre picche sono potenti perché dentro di loro c’è la forza che ci mette Nostro Signore” (p. 71). Dio è il buon padre-padrone dei criminali siberiani, che mostrano un “robusto sentimento religioso ortodosso, con un’influenza pagana molto forte” (p. 101). È in questa dimensione religiosa che Lilin inserisce le allusioni a “Mamma Siberia” e al culto per la madre/madonna, testimoniato dalle icone russe e tipico di tutti i carcerati – dacchè la Siberia è stata terra di esilio per i criminali fin dai tempi dello zar.

La sacralizzazione malavitosa della figura femminile e della famiglia nel suo complesso, è contraddetta dall’inferiorità sociale e dalla sottomissione della donna, anche e soprattutto madre (“povera mamma mia, non ha mai osato opporsi alle mie decisioni”, p. 45), e soprattutto dall’obbligo degli affiliati alla mafia russa di rinnegare i parenti (nel romanzo attribuita soltanto al clan di Seme Nero, nella realtà e nel film di Cronenberg universale), anche se a parole sfoggiano il culto della madre (cfr. p. 140). Il mondo criminale è un mondo essenzialmente maschile, in cui gli inferiori debbono mascolinizzarsi per non diventare vittime (in particolare di stupro etero, oppure omosessuale): se le donne tatuate e non sposate consacrano la loro vita semi-monacale all’assistenza (e alla servitù ristorativo-sessuale) di criminali ex carcerati (sono cioè dedite a riprodurre la galera fuori della galera), i bambini crescono tirando il collo alle galline e sgozzandole – cioè senza il tabù della morte violenta: “Così il bambino si abitua al sangue, ai particolari dell’uccisione” (p. 20).

Nel lessico criminale tratteggiato da Lilin e vagamente simile a quello dei pellirosse (dacchè il piccolo Nicolai è soprannominato “piede scalzo”), educare equivale ad “intagliare”, come si fa col legno, i corpi e le menti dei piccoli adulti, che a dieci anni sono già inseriti nella “comunità dei minori” e discutono davanti a loro di qualsiasi cosa – ma sono essi stessi tabù: non possono essere uccisi. La loro identità criminale costruita nell’infanzia diventa un habitus inestirpabile e immodificabile, ma la definitiva formazione del carattere (cfr. p. 21) avviene nel carcere minorile, a cui Lilin dedica uno dei capitoli migliori del libro17. Se infatti l’habitus malavitoso implica una normale crudeltà, la normalità crudele del carcere minorile, che include l’esperienza del tatuaggio, costituisce la vera iniziazione del criminale, e la scrittura sul corpo, per Lilin, un gesto di rovesciamento quasi religioso: da forma di appartenenza destinale alla mafia, a forma di scrittura sublimante – arte.

Anche lui presenta il tatuaggio come carta d’identità che serve per comunicare la propria posizione all’interno della società criminale: tipo di mestiere, vita personale, esperienze carcerarie (cfr. p. 73; i precedenti penali sono ad esempio raffigurati come “orme sull’acqua”, cfr. p. 80). Schiena e petto vengono tatuati per ultimi, si parte da mani e piedi, su cui vengono disegnati semi, ali, o “firme” (che fungono anche da ponte tra diversi tatuaggi), mentre i tatuaggi sul viso, indelebili, sono riservati ai paria, alle femmine asservite ai capricci sessuali dei detenuti più forti18. Ma al di sopra di quest’inferno sociale si staglia la figura sacerdotale del tatuatore, il kol’šik (alla lettera: quello che punge), tragico erede della tradizione iconografica nata nella Russia premoderna.19

L’autenticità del tatuaggio è garantita dal rispetto della logica simbolica dei vory v zakone (perciò Lilin a pp. 79-80 racconta di un poliziotto che si era fatto tatuare per infiltrarsi e, smascherato dall’incoerenza dei tatuaggi, era stato ucciso: è la sua vendetta sul film di Cronenberg) e dalla totale assenza di velleità estetiche: i tatuaggi debbono essere “sofferti”, cioè significare aposteriori le esperienze criminali, ma il tatuatore può usare la tradizione per creare tatuaggi agli estranei come portafortuna (cfr. p. 82). In questo modo il giovane scrittore inserisce con una certa ingenuità, nella genealogia del tatuaggio, la propria deroga alla legge dei vory (perché tatuare i non affiliati era vietato, ma lui ci campa), e comincia ad auto-redimersi: “I tatuatori non compiono crimini e non partecipano a nessun affare criminale […] all’epoca del’Urss, tatuare era ritenuto un crimine in sé, e per questa attività si andava in galera” (p. 83), dove appunto si tatuava – in un tipico circolo vizioso del sistema carcerario che diventa, come per incanto, circolo virtuoso: “Per la sua filosofia, il tatuaggio criminale era la forma d’arte più pura che esisteva al mondo. La gente […] odia i criminali, però ama i loro tatuaggi” (p. 93)

Il tatuaggio costituisce dunque l’elemento redentivo, la narrazione iconografica pseudo-religiosa capace di trasfigurare sia la durezza della legge criminale, sia il sadismo e l’imbecillità che la deformano nel carcere minorile. Allo stesso modo, il racconto autobiografico costituisce il rituale ossessivo che si legge sul corpo e si comunica a voce, come una nenia, per addolcire la crudeltà della detenzione – perché evoca la libertà: “le storie sono l’unico divertimento dei criminali in galera: si raccontano a vicenda la vita un pezzo per volta, a puntate, e quando finiscono passano alla vita di qualcun altro” (p. 183).

5. “Dentro il carcere minorile… per cercare di sopravvivere e stare tranquilli bisognava unirsi alle famiglie” (p. 217). Come in tutto il romanzo, anche nel capitolo dedicato al riformatorio la famiglia siberiana conferma la propria mitica superiorità anarco-comunista: “erano gli unici che stavano uniti e non picchiavano la gente, facevano tutto insieme e non obbedivano a nessuno” (p. 183, corsivo mio). L’esaltazione dell’umiltà, la condanna morale dell’egoismo, non sono tuttavia disgiunte da un onesto riconoscimento dello squallore della vita criminale, nei momenti in cui non si usa essere uniti nel male (cfr. p. 45): “In momenti come quelli, di slealtà totale verso tutti, cominci a vedere quali sono le vere facce delle persone, e ti viene uno schifo per quello che sei e per dove ti trovi” (p. 120).

Per usare un aggettivo che lo stesso Lilin adopera spesso, potremmo dire che il romanzo è ‘grezzo’: il bianco siberiano è opposto al Seme Nero, la liricità toccata in alcuni punti è offuscata dalla saccenteria pseudo-filosofica di altri (“Gli uomini nascono felici, però si autoconvincono che la felicità è qualcosa che devono trovare nella vita”, p. 67). L’autore, che forse è stato vittima oltre che protagonista di atti di teppismo, vi ha riversato un intenso desiderio di lavarsi, di redimersi letterariamente: si è costruito un passato sporco, ma eroico e forse migliore del suo passato recente, e lo ha fatto utilizzando pezzi di verità e pezzi di fanstasia. La sua scrittura è quindi una classica forma di sublimazione, un’attività socialmente apprezzata, ma anche un gesto di riscatto: Lilin scrive per non sentirsi morto e per rivendicare una morale superiore allo squallore del mondo da cui è fuggito, da cui sente o spera di essersi liberato andando a vivere in un paese …capitalista.

Tutto ciò risulta (paradossalmente) abbastanza evidente, se guardiamo alle critiche mosse al contenuto reale del romanzo. La prima non poteva che venire da Il giornale, perché diretta in realtà più contro Saviano, che contro Lilin. Nel suo articolo del 12 maggio 2009, cui fa seguito il resoconto dell’alterco poco salottiero avvenuto tra lui e lo stesso Lilin negli studi Mediaset del Chiambretti Night (una vera e propria trappola mediatica), Paolo Bianchi ha buon gioco nel fare a pezzi lo ‘scrittore migrante’ che parla in russo solo con la madre, ironizzando sia sul raffinato lavoro di editing necessario per ottenere la grezza spontaneità autobiografica del racconto, sia sull’ingenuo ossimoro della ‘criminalità onesta’, che ricorre come Leitmotiv del romanzo e delle prime, impacciate interviste al suo autore. Condivisibile risulta anche l’amara ironia su Saviano, egli stesso prodotto di un abile editor della Feltrinelli che ha trasformato la sua inchiesta giornalistica in un successo mediatico e dunque in una potenziale condanna a morte: “È anche andato a trovarlo Roberto Saviano, con la scorta anticamorra, che si è bevuto di gusto i suoi racconti e ce li ha restituiti, distillati dalle pagine di Repubblica, come un condensato di nobile spirito guerriero sfortunatamente e suo malgrado trovatosi a seguire la via di un codice mafioso. Come dire: la mafia è una schifezza, ma se è siberiana e te la racconta un muscoloso e scaltro giovanotto tatuato, è un po’ meno schifezza”.

Il resto dell’articolo di Bianchi, che opportunamente demolisce la mitizzazione italiana del fenomeno malavitoso, anche e soprattutto se esotico, riguarda il valore artistico del romanzo, che non è oggetto della presente recensione, e l’inesistenza della comunità di Urka siberiani a cui Lilin afferma di appartenere. A questo proposito una seconda critica, molto più fondata, è stata formulata su La Stampa del 23 giugno 2009 dalla giornalista Anna Zafesova (Indagine su un libro culto della mafia post sovietica. Sembrava tutto vero). Costei è andata direttamente a Bender a intervistare gli abitanti del quartiere ‘Fiume Basso’, in cui si svolge gran parte della vicenda, ma ha trovato soltanto “casette quasi rurali a uno-due piani, con orto e giardino”, insomma una zona residenziale. Degli Urka siberiani neanche l’ombra. Ci sono invece russi, ucraini, moldavi, il ricordo di coloni tedeschi mandati dalla zarina Caterina e di molti ebrei emigrati in Israele dopo la fine del regime. Lascio la parola alla Zafesova:

…i siberiani non sono un’entità separata, ma al massimo quei 36 milioni che abitano i 13 milioni di chilometri quadrati (tre volte l’Ue) dagli Urali al Pacifico, composti da galeotti e scienziati, cacciatori indigeni e ingegneri dei pozzi petroliferi. Secondo Lilin, gli Urca sarebbero una minoranza etnica «discendente degli antichi Efei» che viveva di caccia e rapina e che dalla Siberia venne deportata in Transnistria negli anni ‘30, quando era parte della Romania (sarebbe stata annessa all’Urss nel 1940, nella spartizione dell’Europa tra Stalin e Hitler). Così i comunisti avrebbero popolato «l’impero romeno», come lo chiama lo scrittore, di criminali russi sconfiggendo le cosche locali. «Assurdo», ride Pavel Polian, storico russo che da 25 anni studia le deportazioni di comunismo e nazismo: «Si deportava in Siberia, ma non dalla Siberia, meno che mai in Moldova. E gli Efei non sono mai esistiti». […] «Non ho mai sentito parlare di una mafia siberiana separata con quelle tradizioni», dice Federico Varese, professore di criminologia a Oxford e uno dei massimi esperti di mafia russa. E l’arte segreta dei tatuaggi? «Fa parte della subcultura dei “vory”, con particolare enfasi sulle madonne, negli Urali esistono cosche “blu”, dal colore dell’inchiostro sulla pelle», dice Mark Galeotti, professore alla New York University che studia la criminalità postsovietica. «Ma sono comuni a tutti i criminali russi».

Nel 1990 la Transnistria è stata attaccata dalla Moldavia e poi nel ’92 occupata dall’esercito russo. Nel romanzo, Lilin afferma che le comunità criminali di Bender e Tiraspol hanno liberato la regione dai moldavi: “Dopo il 1992, quando le forze militari della Moldavia hanno cercato di occupare il territorio della Transnistria, la nostra città è stata abbandonata da tutti, siamo rimasti soli con noi stessi, come in realtà eravamo da sempre. Tutti i criminali armati hanno opposto resistenza ai militari moldavi, e dopo tre mesi di battaglie li hanno cacciati via” (p. 61). Secondo la Zafesova, è assurda soprattutto questa pretesa di dare ai criminali siberiani il merito di aver cacciato i moldavi nel ’92:

Marian Bozhesku, ricercatore ucraino autore di Transnistria 1989-1992, lo studio più esaustivo sul conflitto, dice di non averne mai sentito parlare. «Per noi il ricordo della guerra è ancora vivissimo, abbiamo combattuto disperatamente, dire che sono stati i criminali a vincerla è ridicolo».

Intervistato dalla Zafesova, il benderiano Denis Poronok, fotografo e cameramen della tv locale probabilmente coetaneo di Lilin, non lo ricorda affatto come teppistello di periferia: “Lui era uno curioso, leggeva molto”, e ancor di più sognava ad occhi aperti, forse per reggere al degrado e alla corruzione dilaganti durante gli anni del disfacimento dell’URSS. Quello che Lilin vede è quello che sente di dover trasfigurare, e lo fa con l’immaginario offertogli dalla sua stessa giovane mano di disegnatore e tatuatore. Gli Urka, che avevano mano libera nel carcere del Cigno Bianco e nei gulag siberiani, diventano così un mito della subcultura post-sovietica, cioè postmoderna, a disposizione della fantasia di chi voglia farli rivivere come eroi.

Non sorprende dunque l’intenzione di trasformare Educazione siberiana in un film, come sarcasticamente commenta Il fatto quotidiano del 12 maggio 2011, in un articolo di Antonio Armano. Dopo aver denigrato lo stile e la mitologia criminal-religiosa del romanzo, costui passa a ridicolizzare il regista Gabriele Salvatores, che “s’è bevuto le bufale” dello scrittore e ora sta girando – addirittura in Siberia – una pellicola che possa aver successo come e più del libro, perché “il criminale paga cioè tira, è figo, vende, piace alla gente”. Verissimo, sia in Italia che in Europa, che in tutto l’Occidente: Lilin ci ha venduto quello che noi volevamo leggere della mafia russa, ma che i russi (in quanto orientali: perché slavi e perché asiatici) sanno benissimo di non essere. Non a caso, al Babel Festival di Bellinzona del 2009, Lilin è stato accusato da una sua concittadina di essersi inventato tutto.

Ma è proprio perché inventata, che la storia degli Urca siberiani è veramente romanzesca: alla signora inviperita lo scrittore non può che rispondere di aver riferito – cioè trasfigurato, visto con una sorta di fantasia redentrice – ciò che aveva ascoltato da altri. Quando tale trasfigurazione visiva, quaisi allucinatoria, ha prodotto denaro, il giovane russo si è trovato catapultato proprio in quella “società furba”, in quel capitalismo selvaggio e un po’ cafone che lo aveva disgustato. E non ha potuto o voluto più tirarsi indietro: si è trasferito a Milano, dove ha aperto il centro culturale Kolima per vendere i suoi tatuaggi e le sue icone pop.

* * *

Una recensione a parte dovrebbe essere dedicata a Caduta libera, il secondo romanzo di Lilin dedicato alla sua (presunta) esperienza di cecchino e sabotatore durante la guerra in Cecenia. Infatti delle due l’una: o questa guerra Lilin l’ha combattuta davvero, e allora è stata peggio della malavita, perché lo ha trasformato in un macellaio innescando il desiderio di redenzione letteraria, oppure nel 1998, anno della (presunta) leva nell’esercito russo di un cittadino moldavo (anno che nel primo romanzo viene presentato come periodo di completo isolamento della ‘comunità criminale’ siberiana), egli ha vissuto una crisi profonda, che lo ha portato a fuggire dal suo stato fantasma. Il 21 maggio 2011 Lilin ha incontrato Arkadij Babchenko (ex coscritto e poi volontario in Cecenia, oggi giornalista della Novaja Gazeta, lo stesso giornale su cui scriveva Anna Politkovskaja, autore del libro Guerra di un soldato in Cecenia, Mondadori 2011) al Festival “èStoria” di Gorizia. Non so cosa si siano detti, ma so che cosa entrambi hanno deciso di non tacere: la verità, sia essa reale o immaginaria.

 

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Note

1 W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di Rolf Tiedemann ed Hermann Schweppenhäuser, Frankfurt a.M., Suhrkamp Verlag, 1980 e sg. Band I, 1, pp. 123-201, trad. it. di R. Solmi in Angelus Novus, Torino, Einaudi 1982.

2 A. Solzenicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori 1974; Id., Una giornata di Ivan Denisovic, Newton Compton 1993.

3 G. Grudziński Herling, Diario scritto di notte, Feltrinelli 1992; Id., Ricordare, raccontare, L’Ancora del Mediterraneo 1999.

4 Cfr. C. Martinetti, Il padrino di Mosca. La scalata al potere della mafia nella nuova Russia, Feltrinelli 1995; A. Vaksberg, La mafia sovietica, Baldini & Castoldi 1992; R. Bettini, Russia: sociologia del sommerso, Franco Angeli 2001. Per una trattazione sintetica della diffusione dell’Organizatsya in Italia rimando alla Tesi di Laurea della dott.ssa C. Racioppi, Università Statale di Milano, Facoltà di Scienze Politiche, a.a. 2010/2011, relatore F. Dalla Chiesa, disponibile on line all’indirizzo: www.stampoantimafioso.it/wp-content/uploads/Tesiracioppi.pdf.

5 F. Varese, The Russian Mafia. Private Protection in a New Market Economy, Oxford University Press 2005; L. Gudkov, V. Zaslavsky, La Russia da Gorbaciov a Putin, Il Mulino 2010.

6 Il documentario è interamente disponibile on line all’indirizzo: http://topdocumentaryfilms.com/mark-cain/; sul tema cfr. anche i tre volumi della Russian Criminal Tattoo Encyclopaedia, Fuel Publishing, 2005-2009, frutto dei ricordi e dei disegni della guardia carceraria di Kresty Danzig Baldaev (morto nel 2005), corredati dalle foto di Sergei Vasiliev (www.fuel-design-com).

7 A causa delle inesistenti misure igieniche nelle carceri, l’ago della macchina per tatuaggi è un veicolo di malattie infettive trasmissibili attraverso il sangue. La discontinuità delle cure somministrate ai detenuti ha reso il batterio della TBC ‘carceraria’ molto più resistente di quello normale; a ciò si aggiunga l’alto tasso di distrofia muscolare, rachitismo, ulcere, ecc., prodotti dalla pessima e scarsa alimentazione, dalla mancanza di aria, luce e movimento.

8 In particolare, il documentario di Lambert fa riferimento al carcere siberiano detto Cigno bianco, nella città di
Solikamsk (distretto di Perm, nella Russia bianca orientale, ai piedi degli Urali), nelle cui celle di tortura i detenuti avevano carta bianca da usare contro chi doveva essere punito.

9 Titolo italiano: La promessa dell’assassino, 2007, Usa, Regno Unito, Canada. Con Vincent Cassel, Armin Müller-Stahl, Naomi Watts, Viggo Mortensen, Jerzy Skolimowski, sceneggiatura di Steven Knight (nomination all’Oscar).

10 Durante il regime sovietico, si diventava ladri in legge solo dopo una lunga esperienza carceraria; l’affiliazione del nuovo membro avveniva nel corso di una sorta di assemblea generale delle avtoritet (i padrini), detta appunto skhodka, che si svolgeva spesso in prigione. L’iniziato veniva presentato da due garanti, già ladri in legge, che avevano il compito di fornire un resoconto della sua vita criminale, ricordando i suoi meriti all’interno del mondo mafioso e dimostrando così che era fedele alla tradizione e sarebbe stato in grado di consolidare il potere dei vory. Uno degli obiettivi della skhodka era scoprire se l’aspirante vor avesse collaborato con la giustizia. Alla fine della cerimonia si univano le mani e si pronunciava il giuramento, dando all’affiliato un soprannome (analogo al nuovo nome dei novizi). La notizia dell’ammissione nei vory v zakone veniva diffusa in tutto il paese tramite il rudimentale sistema postale usato nelle carceri, detto ‘strada’.

11 Si tratta beninteso di una trappola, poiché Semyon ‘finge’ di farlo entrare nella vory v zakone: in realtà, il tatuaggio delle stelle sulle ginocchia serve a farlo passare per suo figlio Kirill e farlo così uccidere al suo posto, quando, nella ormai famosa scena della sauna, il vecchio Azim lo indica ai ceceni appunto come Kirill, dunque come mandante dell’assassinio di Soyka, l’uomo sgozzato all’inizio del film. A sua volta Luzhin ‘finge’ di affiliarsi per poter guadagnare la completa fiducia dei vory.

12 Trattasi di una striscia di terra sul fiume Dnestr occupata dalla Moldavia nel 1992, ideologicamente abbastanza passatista (falce e martello nella bandiera), che si comporta di fatto come uno stato indipendente ed è snodo di ogni sorta di traffici illegali: uno stato malavitoso.

13 Di ciò sarebbero (falsa) testimonianza i successivi romanzi di Lilin, Caduta libera (2010) e Un respiro nel buio (2011), entrambi pubblicati da Einaudi.

14 Se il nuovo padrone dei russi è il denaro, la polizia corrotta, che usa le regole criminali come arma conto i criminali, è una delle cerniere tra regime sovietico e capitalismo: “Gli sbirri sono diversi da tutto il resto dell’umanità, perché hanno dentro la voglia di servire, di essere sotto padrone” (p. 62). Sottacendo il fatto che ciò vale anche per i malavitosi russi, i quali semplicemente obbediscono a un altro padrone (il codice vor), Lilin esalta il disprezzo dei ‘criminali onesti’ per la polizia (che però è lo stesso disprezzo manifestato dai nostri mafiosi), ironizzando sul divieto di comunicare direttamente con i poliziotti e sull’abitudine a parlare di loro come di femmine.

15 La caccia viene infatti descritta come processo depurativo, e le armi ad essa consacrate (“armi oneste”) come rigidamente separate da quelle usate per atti criminali (“armi di peccato”). A ciò Lilin aggiunge la presunta “sintonia” tra Urca e cosacchi (cfr. p. 163), condita dalla primitiva crudeltà mostrata dai primi nei confronti dei corpi dei nemici macinati e mischiati con la terra del bosco (sorta di lupara bianca siberiana, cfr. p. 60).

16 La simbologia del coltello come messaggio va anche al di là del rapporto col suo proprietario: se rotto allude alla morte, se avvolto in un fazzoletto costituisce un invito all’azione, ecc (cfr. p. 107).

17 Mentre uno dei meno riusciti è sicuramente quello dedicato a Ksiuša (adolescente autistica “voluta da Dio” vittima di uno stupro, che fa cose impossibili a un bambino autistico), così come troppo cinematografica è la sua conclusione, in cui si rivela il destino di tutti i protagonisti (tizio ha fatto questa fine, caio quest’altra: cfr. pp. 320 e sg.).

18 Noto di passaggio un altro paradosso: sia nel mondo criminale reale che in quello letterario, l’omosessualità viene considerata una malattia infettiva, poeticamente definita da Lilin “male di carne” trasmissibile attraverso lo sguardo, ma in carcere non si fa che sodomizzare. Si tratta forse di una proiezione di tipo fascista?

19 Il cui rappresentante più noto (anche grazie all’omonimo film capolavoro di Andrej Tarkovskij) è il pittore Andrej Rublëv (XV secolo).