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La pirateria come (nuovo) nomos della terra.


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Nel 1924, come ricorda Daniel Heller-Roazen1, la “Harward Law Review” pubblicava un articolo dell’importante giurista Edwin Dickinson, dal titolo perentorio: “Il reato di pirateria è obsoleto”. Eppure, contro le aspettative dei giuristi e degli storici novecenteschi, nell’arco di un secolo il reato di pirateria è tornato di piena attualità. Una delle ragioni fondamentali è stata la fine della Guerra fredda. Ce lo dicono, con dovizia di particolari, i sociologi e gli economisti2, ricordandoci anche che il volume complessivo delle merci che viaggia ancora oggi per mare oscilla tra l’80 e il 90 % del traffico mondiale. E il mare, come è noto anche solo tramite la letteratura e il cinema, è l’elemento in cui si sono mossi e si muovono i pirati e gli “schiumatori del mare”3 di ogni sorta, a partire da quella vera e propria “svolta” verso questo elementoche avviene tra i secoli XVI e XVII, autentico inizio del processo di globalizzazione dei capitali finanziari4. All’interno del fenomeno della pirateria si intrecciano sin dall’inizio questioni politiche ed economiche che riguardano il nostro presente e il nostro immediato futuro, poiché hanno a che fare con la (forse irreversibile) crisi della “politica degli Stati” e con le trasformazioni del capitalismo mondiale.

Per comprendere questi nessi problematici, ritengo che il libro di Daniel Heller-Roazen, Il nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni, sia indispensabile (anche per guardare più lontano).

L’intento principale dello storico americano è quello di mostrare come, a partire dall’antichità greco-romana, passando per l’età moderna fino alla nostra epoca, la figura del “pirata” sia stata costruita e pensata in opposizione ad altre figure giuridicamente e politicamente determinate di possibili nemici “legittimi” dello Stato, ma che, con le profonde trasformazioni economiche e politiche novecentesche – che hanno segnato la crisi (economica e politica) della “statualità” moderna, con il conseguente collasso di molte distinzioni oppositive in ambito politico-giuridico – , quella antica figura marginale e ambigua sia divenuta centrale, pur senza perdere i suoi connotati di ambivalenza, anzi costringendo gli stati ad operare su piani che necessariamente confondono ed ibridano, in particolare, le tradizionali distinzioni tra diritto internazionale e diritto penale statuale.

Nel De officiis, Cicerone, parlando degli obblighi morali (doveri) che bisognava avere anche verso gli stranieri, sosteneva che anche i “nemici” hanno diritto ad un giusto trattamento, in quanto anch’essi sono parte della “immensa [societas] humani generis»5. Con il nemico (legittimo) si può venire a patti e i patti bisogna rispettarli. Cicerone individua, tuttavia, un’eccezione: il pirata. Nei confronti dei “predoni” e dei “pirati” non c’è alcun dovere, egli sostiene. Tutto è permesso, anche lo spergiuro e il non mantenere i patti. È evidente che il pirata, commenta Heller-Roazen, per Cicerone non rientra nell’immensa “società” costituita dal genere umano. Il pirata non è un “nemico legittimo”, ma il communis hostis omnium, il nemico comune di tutti.

Dal momento che il pirata non conosce né fede né giuramenti, «nel trattare con il nemico comune di tutti, si deve agire esattamente come agisce lui: senza fede né legge. Questo almeno discende dall’asserzione di Cicerone per cui con il pirata, che non conosce la responsabilità, “non possiamo avere in comune né la fede né il giuramento” (cum hoc nec fides debet nec iusiurandum esse commune6. Conclusione paradossale questa di Cicerone, perché il dovere, l’ingiunzione morale, l’obbligo che bisogna avere nei confronti dell’intera società umana, qui si trasforma nell’obbligo a non sentirsi obbligati. Ma in questo modo, nell’aver a che fare con il pirata «si diviene a propria volta un pirata»7; le relazioni con il “nemico comune di tutti” ci costringono ad operare come “nemici di tutti”, con buona pace dell’etica e della politica dei beni e dei doveri. Questo paradosso (implicito) nel discorso ciceroniano sarà continuamente ripreso nella teoria del diritto medievale e moderno, fino ad interrogare la nostra epoca.

Il pirata non rientra tra i “nemici legittimi”. Heller-Roazen ci ricorda che il diritto romano, pur utilizzando vari termini per indicare il “nemico”, ha sempre distinto il “nemico pubblico” (in genere indicato come hostis) dal “nemico privato”, per cui veniva utilizzato il termine inimicus. Ciò nonostante, il nemico “pubblico” veniva regolarmente opposto ad un nemico «dal nome mutevole ma dai tratti immutabili», perché, indicato come brigante, bandito, predone, pirata, è sempre stato descritto e definito in modo paradossale e aporetico, come quel predone con cui non è possibile aver a che fare, se non divenendo predoni allo stesso modo. Nella dottrina moderna del diritto internazionale – Heller-Roazen analizza, tra le altre, le posizioni di Christian Wolff8 e di Emer de Vattel9 – il “nemico pubblico”, il nemico di uno Stato, non può che essere “politico”, vale a dire un altro Stato. Nel diritto moderno la distinzione tra nemico pubblico e nemico privato si fa più netta. A tale distinzione continua a sfuggire il “pirata”, il nemico comune di tutti, contro cui non è possibile neanche fare guerra, perché la guerra è tale sono se avviene tra stati. Tuttavia, anche gli autori greci e latini, sapevano che gli stati continuamente utilizzavano metodi da predoni, razziando e depredando. Le testimonianze storiche sono tantissime. Tuttavia, quando gli stati si comportano da predoni lo sono solo agli occhi degli altri stati, perché le razzie e le requisizioni, quando è uno stato a compierle, hanno sempre una “copertura” politica, come si dice. Questo utilizzo politico della pirateria da parte degli stati trova la sua consacrazione nella pratica moderna della cosiddetta “guerra da corsa”.

Quando nel corso del Medioevo si cominciò ad utilizzare il termine “corsaro” non si operava una netta distinzione con il termine “pirata”. Pisa e Genova utilizzarono ampiamente i “corsari” durante le guerre, ma faticavano parecchio a mantenere i loro corsari entro i limiti del mandato affidato loro. Per tali ragioni già nel XII secolo, ci spiega Heller-Roazen, i giuristi e gli ambasciatori distinguevano nettamente i “corsari” dai “pirati”. I primi agivano dietro formale “autorizzazione” degli stati, i secondi agivano esclusivamente per i propri interessi predatori. La prima documentazione in possesso degli storici di quella che cominciò ad essere chiamata licentia marcandi (patente o licenza di marchio”) è del 1295 e consiste in un ordine formale di Edoardo I ad un capitano al suo servizio a compiere “razzie” ai danni delle navi portoghesi.

Grazie a queste “licenze”, che potevano essere emesse in tempo di pace o durante le guerre, «i pirati che agivano in nome e negli interessi dello Stato trovarono, per la prima volta, una collocazione riconosciuta nel campo del diritto pubblico»10. Le licenze, chiarisce Heller-Roazen, erano di due tipi: alcune lettere (o marques) «veniva rilasciate a singoli mercanti, e permettevano loro di salvaguardare transazioni che altrimenti non sarebbero state garantite»11, per esempio attraverso il sequestro (pignoratio) di sicurezza, da parte di un soggetto leso, a garanzia del pagamento dei danni; molte altre lettere di “corsa”, invece, avevano uno scopo «esplicitamente politico: tra queste, le autorizzazioni a commettere depradationes, rapinae, extorsiones e represalia. Si trattava di armi da guerra, che consentivano di depredare le navi nemiche durante la battaglia»12.

Se nella teoria giuridica la distinzione tra “corsaro” e “pirata” sembrava essere definitivamente acquisita, nella pratica le cose erano molto diverse, perché le ibridazioni e le zone di confusione tra le due pratiche si presentavano molto spesso. Lo stesso Carl Schmitt, in Terra e mare, dapprima scrive: «il corsaro possiede, contrariamente al pirata, un titolo giuridico, un’autorizzazione del suo governo, una formale lettera di corsa del suo re, tanto che può battere la bandiera del suo paese; il pirata naviga invece senza alcun mandato giuridico, a lui spetta soltanto la bandiera nera della pirateria»13. Poi chiarisce: «ma per quanto netta potesse essere in teoria questa distinzione, nella pratica si dissolveva. I corsari violavano spesso i loro mandati e navigavano con false lettere di corsa, e talvolta addirittura con autorizzazioni scritte di governi inesistenti»14.

In ultima istanza la differenza tra “corsaro” e “pirata” è comprensibile solo dalla prospettiva dell’autorità dello stato che concede la “licenza di corsa”. Dal punto di vista degli altri stati, in particolare di quelli che subiscono le razzie dei corsari, questi ultimi non sono che “pirati” e devono essere trattati in quanto tali. Divengono ipso facto quei “nemici di tutti” verso cui non bisogna avere alcun riguardo. Come scrive, a metà del Settecento, De Vattel, di fronte a coloro che non combattono una “guerra legittima” (vale a dire “legittimata” dagli stati che la dichiarano), ma si danno ad atti di vero e proprio brigantaggio, «una nazione […] non è obbligata ad attenersi con loro alle regole della guerra formale; può trattarli come predoni»15.

Ecco di nuovo il paradosso su cui ci eravamo soffermati prima (grazie ad Heller-Roazen): per combattere i pirati gli stati devono operare come pirati, mettendo a nudo il nesso costitutivo tra “sovranità” e “stato d’eccezione” come puro e semplice nesso di “dominio” e di “violenza”.

Quando Carl Schmitt, nel suo studio sulla “teoria del partigiano”, descrive le caratteristiche e le modalità del combattimento partigiano (le cui origini risalgono a suo dire alla guerra franco-spagnola del 1808-1813), tiene in un primo momento a distinguere nettamente questa nuova figura di combattente (civile, ma anche belligerante, combattente e non-combattente allo stesso tempo; né nemico né criminale) dagli antichi corsari e pirati. Ma lo fa sulla scorta di una distinzione, per così dire, elementale. «Il partigiano – afferma Schmitt – è e resta nettamente distinto non solo dal pirata ma anche dal corsaro, così come la terra e il mare rimangono distinti quali spazi elementari dell’attività umana e del contrasto bellico fra i popoli. La terra e il mare non solo hanno prodotto differenti mezzi strategici, non solo teatri di guerra differenti, ma anche concetti differenti di guerra, nemico e bottino»16. Heller-Roazen ritiene, giustamente, che questa distinzione schmittiana sia traballante. Nonostante ribadisca più volte che il partigiano debba essere considerato una «delle ultime sentinelle della terra»17, Schmitt è costretto ad ammettere che, in fondo, possa essere paragonato ad un “corsaro di terra”. Ma non certo ad un pirata. Il partigiano, nonostante sfugga alla tradizionale partizione tra “nemico legittimo” e “illegittimo”, così come a quella tra “nemico” e “criminale”, così come (e molto di più) degli antichi corsari ha una connotazione “politica” che manca del tutto al “pirata”, al “nemico di tutti”.

La pirateria, a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, dicevamo, è tornata prepotentemente alla ribalta internazionale, ed è di sicuro una delle figure principali della “malavita” contemporanea. Non solo i mari, in particolare gli oceani, ma anche i cieli, i deserti, i terreni impervi e inospitali, sono gli “elementi” in cui si muove. Heller-Roazen delinea, sulla scorta della sua ampia e documentata analisi storica e giuridica, i tratti distintivi del paradigma contemporaneo della pirateria. Si tratta di quattro caratteristiche: 1) l’atto di pirateria «implica una regione ritenuta eccezionale rispetto alla giurisdizione ordinaria»18 (come è nel caso del mare aperto e/o dello spazio aereo internazionale); 2) l’atto di pirateria «presuppone un agente che palesi un antagonismo che, per varie ragioni, non può essere definito come quello di un individuo verso un altro, e nemmeno come quello di una società politica verso un’altra»19; 3) l’atto di pirateria «in ragione dei primi due tratti caratterizzanti, scompiglia – e, nei casi estremi, cancella – la distinzione fra le categorie proprie della criminalità e quelle proprie della politica»20; 4) l’atto di pirateria, infine, «implica […] una trasformazione del concetto di guerra»21.

Lo storico americano dimostra come questo paradigma piratico sia il risultato (non previsto) di due processi politico-giuridici coevi: da un lato, a partire dagli anni Novanta del Novecento, la figura del pirata, quasi data per scomparsa (ma in ogni caso “marginale” rispetto allo sviluppo storico e alle trasformazioni della politica statuale moderna), diviene centrale all’interno dello scenario globalizzato dell’economia e della politica attuali; dall’altro lato, come sviluppo di una nozione giuridica che fa la sua comparsa tra la prima e la seconda guerra mondiale, negli stessi anni, nel dibattito e nella operatività delle istituzioni politiche internazionali, si afferma la nozione di “crimine contro l’umanità” all’interno della quale finisce per rientrare anche il reato di pirateria. Da “nemico di tutti” il pirata si trasforma così in nemico dell’umanità.

Heller-Roazen ricorda come la nozione giuridica di “umanità” sia estranea al diritto romano: «l’espressione “essere umano” (homo), per gli studiosi romani, non alludeva né a diritti positivi, né alle loro premesse. Significava, al contrario, la quasi totale assenza di titoli giuridici […]; gli antichi giuristi contrapponevano regolarmente i termini “essere umano” (homo) e “persona” (persona). Parlavano di “esseri umani” per designare individui viventi, considerati nella quasi totale assenza di qualificazione giuridica, mentre evocavano le “persone” […] quando intendevano alludere agli individui nella misura in cui questi rivendicavano diritti, titoli e prerogative»22. Per i giuristi romani esistevano le gentes, le “nazioni” che, dalle origini della storia politica, suddividevano la “specie umana”, intesa nella sua accezione puramente biologica. La nozione giuridica di “umanità” comincia a farsi strada nella filosofia e nella teoria moderne del diritto, da Francisco Suárez (De legibus, 1612) allo Jus gentium di Wolff, a Le droit des gens di Vattel. In Kant, la nozione di umanità (Menschheit), non riducibile al concetto di “specie umana” (intesa come determinata specie del “genere” animale), viene pensata come un’essenza che deve essere “realizzata”. L’umanità, per quanto realizzabile per tutti gli individui umani, è un ideale da raggiungere e per tale ragione merita “rispetto” (Achtung). L’umanità è ciò che trascende la nostra stessa “persona” (giuridica) ed è ciò che dobbiamo realizzare come nostra massima perfezione morale. «L’imperativo categorico – commenta correttamente Heller-Roazen – poggia interamente sulla possibilità di isolare, negli essere umani, un astratto principio della specie, l’umanità, che deve essere usato conformemente al suo intrinseco “valore”»23. In questo modo con Kant si rende esplicita una distinzione che compare frequentemente nei dibattiti dell’illuminismo: la distinzione tra gli “esseri umani” e l’umanità che è in loro e di cui devono diventare degni. «Mentre tradizionalmente la parola [umanità] si riferiva in generale all’intera specie senza distinzioni tra i suoi membri – egli scrive –, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo l’umanità divenne un potente strumento polemico, e in effetti divise la comunità che un tempo si limitava semplicemente a designare»24, per cui chiunque si opponesse a questa distinzione rischiava di vedersi assegnata la qualità negativa di “inumanità”.

In fondo è a questa distinzione illuministica tra l’appartenere alla specie umana (in senso biologico) e l’appartenere all’umanità (in senso morale e ideale), sembra sostenere Heller-Roazen, che i giuristi novecenteschi si sono ispirati per definire la nozione di “crimine contro l’umanità”. Il criminale contro l’umanità, grazie a tale distinzione, poteva essere collocato “fuori” del consesso umano e confinato/ridotto alla sua semplice vita biologica25.

Nella sua Metafisica dei costumi Kant, sulla base di tale distinzione, aveva tratto delle conseguenze giuridiche su cui, opportunamente, Heller-Roazen si sofferma nell’ultimo capitolo del suo libro, intitolato Verso la guerra perpetua.

La conseguenza principale tratta da Kant riguarda la distinzione tra nemico “giusto” e nemico “ingiusto”: «ma che cosa è mai un nemico ingiusto – scriveva Kant – secondo il concetto del diritto delle genti? È colui, la cui volontà pubblicamente manifestata (sia a parole, sia a fatti) tradisce una massima che, se fosse eretta a regola universale, renderebbe ogni stato di pace impossibile tra i popoli e perpetuerebbe lo stato di natura»26. E aveva concluso che contro tale nemico “ingiusto” gli stati avevano diritto a servirsi di tutti i mezzi in generale – per quanto limitatamente a quelli «in sé accettabili»27– ma senza alcun limite di potenza. Contro il nemico ingiusto, cioè contro quel nemico che non è riconducibile alla politica statuale né direttamente né indirettamente (come nel caso dei corsari o dei partigiani), anche per Kant cadono le norme del diritto internazionale e della “giusta forma” della guerra. Ritroviamo di nuovo quel che potremmo chiamare “il paradosso della guerra al pirata”: la guerra contro i “nemici ingiusti” rende “ingiusti” gli stessi stati (per quanto, per Kant, limitatamente alla intensità dei mezzi utilizzate e alla durata del conflitto).

Per tornare alla nostra epoca, la lotta contro la pirateria, reinterpretata come crimine contro l’umanità, rende “pirati” gli stessi stati, perché può essere svolta con ogni mezzo, con illimitata potenza e senza limiti di tempo.

In Terra e mare, Carl Schmitt, dopo aver mostrato come sia stato il dominio inglese dei mari ad imporre il nomos della terra, la legge fondamentale che regola le relazioni tra gli stati del mondo – nomos consistente nella separazione tra la “terraferma”, che è suddivisa tra gli Stati, e il mare che «appartiene a tutti o a nessuno o in definitiva soltanto a uno: l’Inghilterra»28 – aveva sostenuto che, nella contrapposizione tra guerra terrestre e guerra marittima, che ne era una delle conseguenze, era da ritrovare quella radicalizzazione delle categorie politiche che si sarebbe affermata nel Novecento29. L’apparente simmetria tra le due tipologie di guerra, nascondeva una potente asimmetria, per così dire. Mentre quella terrestre è guerra (esclusivamente) tra “eserciti”, la guerra marittima «si fonda invece sull’idea che debbano essere colpiti il commercio e l’economia del nemico», sottolineando come «in una guerra simile, “nemico” non è soltanto l’avversario che combatte, bensì qualsiasi cittadino nemico, e infine anche il neutrale che commercia e mantiene relazioni economiche con il nemico»30. Insomma, già Schmitt aveva compreso che l’affermarsi dell’elemento marino nella storia del mondo avrebbe avuto come conseguenza il crollo dello stesso nomos della terra e la crisi (forse irreversibile) della politica degli stati. Lo scenario che Schmitt lascia intravedere è quello del crollo delle vecchie categorie politiche e l’emergere di uno scenario inedito in cui, per tornare allo specifico del nostro discorso, sembra crollare la separazione tra “agenti politici” e “agenti economici”, in cui la guerra non accade più tra stati che si riconoscono in quanto tali, ma eventualmente tra “stati civili” e “stati canaglia”, oppure tra “gli stati” e nemici dai volti sempre più irregolari e pirateschi.

Pur senza citare esplicitamente Schmitt, è più o meno questa la conclusione cui giunge anche Heller-Roazen. «A differenza del vecchio conflitto armato – egli scrive – lo scontro con il nemico di tutti deve ogni volta e in ogni luogo cominciare daccapo. Infinitamente intenso, preparatorio e provvisorio, esso non ammette regioni come il mare o il cielo, che costituirebbero una stabile eccezione alla sua regola; in quanto battaglia globale, esso rifiuta di ammettere elementi naturali situabili oltre il confine del diritto internazionale. Una guerra perpetua in nome di una pace impossibile conosce soltanto zone mobili di violenza transitoria, dai confini incessantemente disegnati e ridisegnati sulla “superficie sferica della terra”»31.

Al di là dei riferimenti alla politica internazionale (e americana) dell’epoca della lotta al terrorismo post 11 settembre 2001, le analisi e le conclusioni dello studio di Heller-Roazen sono, a mio avviso, ampiamente condivisibili. Esse mostrano come la “pirateria” non sia un fenomeno marginale ma centrale nelle attuali relazioni economico-politiche internazionali, fenomeno capace di strutturare l’attuale fase economica del capitalismo globalizzato, all’interno della quale la politica statuale, così come l’abbiamo conosciuta fino agli anni Ottanta del Novecento, gioca un ruolo sempre più marginale. Per la verità, l’aspetto specificamente economico (e finanziario) della pirateria è solo sfiorato da Heller-Roazen ed è forse l’unico limite di un’analisi storica e teorica attenta ed intelligente. Come dicevo, le conclusioni cui egli giunge sono molto simili a quelle alle quali arriva Schmitt, anche se, nelle analisi del giurista tedesco l’intreccio costitutivo tra l’esistenza marittima e oceanica (contrapposta a quella “tellurica” e statuale) e l’economia commerciale è sempre ben presente. Certo, dietro al prevalere della dimensione “marittima” (economico-politica) su quella “tellurica” nella storia europea (e mondiale) moderna, sostiene Schmitt, c’è stata l’affermazione di una nazione, l’Inghilterra, che è stata capace di “dominare” (e trarre profitto dal) l’in-dominabile, per così dire. Schmitt, tuttavia, scrive in un’epoca in cui non solo l’Inghilterra è già molto avanti nel declino come potenza marittima mondiale, ma anche gli USA non sembrano essere capaci di sostituirla come potenza mondiale, soprattutto per il continuo oscillare tra interventismo e tentazioni isolazionistiche. Lo scenario che Schmitt riesce solo ad intravedere, è quello di un mondo completamente soggiogato dall’elemento mare (ormai da intendersi come sineddoche di “spazio inospitale e im-politico”), elemento in cui proliferano operatori economici, politici e criminali in un intreccio strutturale che confonde ogni qualifica e determinazione. Il mondo soggiogato dal mare-oceano è capace di distruggere qualsiasi “arcipelago” in cui la “politica” pensi di sottrarsi alla furia elementale della globalizzazione32. In tale mondo gli stati “sovrani” sono costretti ad agire come potenze economiche e finanziarie “private”; i grandi gruppi finanziari e le grandi multinazionali agiscono come se fossero degli “stati”33; i gruppi criminali si comportano come agenzie economiche e finanziarie; l’economia finanziaria, che nasce come economia del rischio e della scommessa34, domina su quella industriale, mostrando il suo volto “piratesco”. Proporrei di chiamare questi operatori internazionali con l’espressione “agenzie sovrane”, demistificando la perdurante aura sacrale della nozione di sovranità politica e mostrando, al contempo, quel che, in fondo, è sempre stata: pura manifestazione di forza e di dominio. La crisi delle tradizionali istituzioni “sovrane”, vale a dire degli stati, non ha comportato, quindi, una crisi di “sovranità” ma la sua proliferazione. La crisi dei tradizionali poteri degli stati (il “batter moneta”, la “difesa del (proprio) territorio”, il “dominio giurisdizionale”), è coeva alla moltiplicazione di “agenti sovrani” (stati, organizzazioni e lobby economiche e finanziarie, organizzazioni malavitose tradizionali) e all’ampliamento della sfera di “eccezionalità”, di “discrezionalità” e di “extra-territorialità” delle loro operazioni internazionali35. In questa sfera di eccezionalità in cui le “agenzie sovrane” si muovono, sullo sfondo di una infinita conflittualità36, l’antica separazione tra “nemici legittimi” e “nemico di tutti” sembra assottigliarsi fino a sfumare. La pirateria, come forma fondamentale ed “elementare” di malavita, si manifesta così come la struttura stessa dell’economia finanziaria e politica del capitalismo globalizzato, quasi come il nuovo nomos della terra.

 

Note con richiamo automatico al testo

1 Daniel Heller-Roazen, Il nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni, trad. it. di G. Lucchesini, Quodlibet, Macerata 2010, p. 25.

2 Come Loretta Napoleoni che, nel suo Economia canaglia. Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale (Il Saggiatore, Milano 2008), a proposito della mafia russa scrive: «il racket del pesce del Baltico e del Mare del Nord è gestito dalla mafia russa, che ha assunto il controllo del mercato dopo il crollo dell’Unione Sovietica. La criminalità organizzata si impossessa della flotta mercantile sovietica a razziare i mari. […] Fiore all’occhiello della flotta mercantile sovietica, Murmansk apparteneva alla Northern Sea Route (la rotta mercantile nordica), un’autostrada commerciale di circa 5000 chilometri che dal Baltico si spingeva fino alle miniere di nichel di Norilsk. Al suo apice, nel 1987, oltre sette milioni di tonnellate di merci transitavano nelle sue acque gelide. Oggi Murmansk è la “Tortuga” dei criminali del mare russi» (p. 162).

3 Carl Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, trad. it. di G. Gurisatti, con un saggio di Franco Volpi, Adelphi edizioni, Milano 2002, p. 42.

4 È la tesi sostenuta da vari autori, come, ad esempio, Peter Sloterdijk che, in L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione (trad. it. di B. Agnese, Carocci editore, Roma 2002), dopo aver mostrato le origini della globalizzazione a partire dalle esplorazioni marittime e geografiche compiute dai navigatori europei del XV e XVI secolo e dopo aver descritto il suo sviluppo economico-commerciale tra il XVI e il XVIII secolo, scrive: «la pirateria, il principale fenomeno che insieme alla tratta degli schiavi caratterizza la prima criminalità organizzata, assume un significato importante e preciso nella prospettiva della filosofia della storia, perché costituisce la prima forma imprenditoriale di ateismo operativo: là dove Dio è morto […] là effettivamente tutto è possibile» (Ivi, p. 121).

5 Marco Tullio Cicerone, De officiis I, 53.

6 Daniel Heller-Roazen, Il nemico di tutti, cit. pp. 20-21. La citazione di Cicerone è dal De officiis,III, 107 (leggermente diversa da quella a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti contenuta in M. Tullio Cicerone, Opere politiche e filosofiche, vol. I, UTET, 1986, p. 825).

7 Ivi, p. 21.

8 Christian Wolff, Ius gentium methodo scientifica pertractatum […], in Id. GesammelteWerke, a cura di J. École et al., Georg Olms, Hildesheim-New York 1962, vol. XXV.

9 Emer de Vattel, Le droit des gens, ou principes de loi naturelle […], E. van Harreveld, Amsterdam 1758.

10 Ivi, p. 89.

11 Ivi, p. 91.

12 Ibidem.

13 Carl Schmitt, Terra e mare, cit., pp. 45-46.

14 Ivi, p. 46.

15 Emer De Vattel, Le droit des gens, cit., 3, p. 15 (citato da Heller-Roazen in Id., Il nemico di tutti, cit., p. 124).

16 Carl Schmitt, Teoria del partigiano. Un’osservazione incidentale sul concetto del politico, trad. it. di A. De Martinis, Adelphi, Milano 2005, p. 33-34. Per un’analisi critico-decostruttiva della “teoria del partigiano” e della teoria del politico di Carl Schmitt, è d’obbligo il riferimento a Jacques Derrida, Politiche dell’amicizia, trad. it. di G. Chiurazzi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995 – soprattutto al capitolo quinto intitolato Dell’ostilità assoluta. La causa della filosofia e lo spettro del politico (pp. 135-162).

17 Ivi, p. 99.

18 Daniel Heller-Roazen, Il nemico di tutti, cit., p. 186.

19 Ibidem.

20 Ibidem.

21 Ivi, p. 187.

22 Ivi, pp. 157-158.

23 Ivi, p. 165.

24 Ivi, p. 166.

25 Lo storico americano non ne parla, ma è paradossale riscontrare che lo stesso paradigma di esclusione “dall’umanità” (o di esclusione “includente”, come direbbe Agamben) sia all’opera nel Novecento sia nell’antisemitismo concentrazionario nazista che nelle sentenze del Tribunale di Norimberga che condanna i crimini nazisti come “crimini contro l’umanità”. Non mi sento in grado di svolgere qui una analisi critica delle relazioni e le differenze tra la figura del “nemico di tutti” (il pirata) e ciò che Agamben ha teorizzato come “homo sacer” e “nuda vita” (cfr. soprattutto, Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995). Ritengo che un’analisi approfondita debba essere fatta, soprattutto dopo le dure critiche che Derrida ha rivolto ad Agamben nel suo primo corso all’EHESS di Parigi (La bestia e il sovrano I, 2001-02, trad. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009).

26 Kant, Die Metaphysik der Sitten, II, 3, § 60, cit. da Heller-Roazen, Il nemico di tutti, cit. (secondo una traduzione differente da quella della edizione italiana del classico kantiano – Metafisica dei costumi, trad. it. a cura di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 2006), p. 197.

27 Ibidem. Su questo passo della Metafisica del costumi, si sofferma criticamente Carl Schmitt nel suo Nomos della terra (cfr. Id, Il nomos della terra, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2006, p. 203). Sulla valutazione critica di Schmitt delle posizioni kantiane vedi il commento dello stesso Heller-Roazen in Il nemico di tutti, cit., pp. 196-198).

28 Carl Schmitt, Terra e mare, cit., p. 88.

29 Cfr. quanto scrive Franco Volpi nella sua post-fazione, dal titolo Il potere degli elementi, alla traduzione italiana di Terra e mare di Schmitt (cit., pp. 115-145).

30 Ivi, p. 90.

31 Daniel Heller-Roazen, Il nemico di tutti, cit., p. 201.

32 Cfr. soprattutto Massimo Cacciari, L’Arcipelago (Adelphi, Milano 1997), in cui il filosofo italiano, sullo sfondo delle analisi schmittiane, con grande serietà qualche anno fa ha tentato di pensare l’ultimo possibile paradigma politico “europeo”, quello dell’arcipelago, vale a dire del “mare tra le terre”, nell’epoca della globalizzazione e della crisi della “statualità” classica. Il paradigma dell’arcipelago è anche un paradigma storiografico molto diffuso. Cfr. ad esempio, su tale base, la sintesi storica di uno dei maggiori studiosi del mare, Mollat du Jourdin, L’Europa e il mare dall’antichità a oggi, trad. it. di F. Cataldi Villari, Laterza, Roma-Bari, 1996 (Economica Laterza).

33 Il fenomeno delle cosiddette “aree de-nazionalizzate” o anche “zone industriali di esportazione” che, a partire dagli anni Ottanta proliferano in Asia, in Africa e in America Latina, è indicativo di questa modalità operativa delle grandi multinazionali che impongono agli stati la creazione di ampie “zone franche industriali” del tutto privatizzate, in cui il lavoro coatto di migliaia di operai e operaie è sottratto alla giurisdizione statale. Come scriveva qualche anno fa Naomi Klein, “per ridurre la povertà i governi offrono nuovi incentivi; le zone di esportazione devono però essere isolate e protette come colonie di lebbrosi e quanto maggiore è il loro isolamento tanto più le fabbriche sembrano esistere in un mondo totalmente separato dal Paese che le ospita” (Naomi Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione, Baldini&Castoldi, Milano 2001, p. 187). Sulle “aree de-nazionalizzate” cfr. Saskia Sassen, Fuori controllo, Il Saggiatore, trad. it. di G. Ballarino, Milano 1998.

34 Per Sloterdijk «globalizzazione significa […] la sottomissione del globo alla forma delle rendite, cioè del denaro che fa ritorno moltiplicato sul conto di partenza dopo aver descritto una gran curva sui mari del mondo» (L’ultima sfera, cit. p. 58).

35 Il 30 aprile 2012 il governo americano ha ufficializzato l’invio di cento uomini delle truppe speciali per “aiutare” il governo ugandese a catturare Joseph Kony, leader del sedicente “Lord’s Resistance Army” che, negli scorsi anni, ha seminato il terrore al centro dell’Africa. L’intervento americano, non si sa ancora se legato ad interessi strategici nell’area oppure semplicemente ad interessi “elettorali” governativi, è stato sollecitato dalla campagna orchestrata nel web da Invisible Children, una ONG americana legata ad ambienti cristiani ultra-conservatori. La campagna ha utilizzato come strumento un video diffuso in internet e visto da decine di milioni di utenti in tutto il mondo.

36 Per comprendere fino a qual punto il paradigma della “pirateria” possa essere utile per interpretare una delle caratteristiche di fondo del capitalismo globalizzato, bisogna quindi pensarlo al di fuori delle categorie politiche “moderne”, fondamentalmente legate alla politica statuale. Una strada percorribile, almeno metodologicamente, potrebbe essere quella di interpretarlo a partire dalla nozione alto-medievale di “relazioni feudo-vassallatiche” (ma al netto delle “ideologie” politiche medievali), che forse permetterebbe di concepire la pirateria, nella sua positività di “forma di vita” e non più secondo la modalità “negativa” dell’azione predatoria semplicemente “parassitaria” nei confronti di agenti economici e politici “legali”. Non solo le grandi organizzazioni criminali, ma anche le grandi multinazionali e gli stati tendono oggi ad agire “come pirati”. Questo accade anche nel mondo della rete. Anche lì ci sono potentati più o meno grandi che cercano di affermarsi attraverso l’accordo (tattico) o il conflitto (strategico).