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M. A. Pirrone e S. Vaccaro, I crimini della globalizzazione


M. A. Pirrone – S. Vaccaro (a cura di)

 
I crimini della globalizzazione
 
Asterios, Trieste 2002, pp. 237
ISBN 88-86969-75-9, euro 15,00

 



Che relazione c’è tra la globalizzazione e il crimine? E che cosa è diventata la finanza nel suo simbiotico rapporto con la tecnologia? Sono alcuni dei tanti quesiti che permeano questo volume collettaneo nato da un convegno internazionale che si è tenuto a Palermo nel Dicembre del 2000 in concomitanza con il vertice per la firma della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale. Il volume, strutturato in quattro parti (
L’inabissamento della politica;Globalizzazione e finanziarizzazione. Gli effetti crimogeni; Criminalità transazionale. Vecchie e nuove organizzazioni,vecchie e nuove attività; Migranti globali. Nuove forme di schiavismo) raccoglie gli interventi di studiosi italiani e stranieri (B. Amoroso, P. Barcellona, N. Cirino, A. Labrousse, S. Palidda, I. Ramonet, U. Santino, E. Toussant ed altri) che analizzano le dinamiche del mondo globalizzato stretto tra la grande delinquenza economica e quella finanziaria a partire dalla descrizione delle radici criminali dell’economia capitalistica, mostrando come i confini tra economia legale, illecita e illegale siano sempre meno evidenti. E a distanza di tredici anni le analisi e le argomentazioni del libro funzionano con perfetta lungimiranza.

Un primo filo conduttore è rintracciabile nell’intervento di Bruno Amoroso, che mette in luce come “la globalizzazione non sia affatto un sistema economico afflitto, suo malgrado, da fenomeni di criminalità, ma sia un sistema di economia criminale che affligge le economie ed i mercati di tutto il mondo” (p. 53)nel senso che, da almeno un decennio, si è passati dalla globalizzazione del crimine al crimine della globalizzazione che oggi, tramite i centri della finanza, controlla le borse e l’azione quotidiana delle banche nazionali e detta leggi e condizioni per ristrutturare l’economia dei paesi da questi stessi centri messi in crisi. Muovendo dalla classica equivalenza tra imprenditore e criminale, che hanno entrambi l’obiettivo dell’estrazione di surplus, il primo attraverso le attività produttive, il secondo attraverso attività illecite, Amoroso dimostra come i grandi gruppi criminali transazionali controllino con efficienza e flessibilità organizzativa i cinque pilastri della globalizzazione (finanza, industria delle armi, commercio della droga, commercio di organi, vivi e morti, commercio dei rifiuti) che rappresentano l’80% dell’economia capitalistica mondiale (pp. 55-59). Ma l’aspetto più inquietante è che la criminalità si è fatta mercato, legge, istituzione: i gruppi criminali sono capaci di riciclarsi in strutture di potere, di mimetizzarsi nelle regole della politica.

Intorno a questo nucleo di ragionamento si dipartono altre indagini, altri fili di discussione. A farne le spese è senz’altro la politica, che s’inabissa impotente nei fondali della ristrutturazione economica del mondo, e con essa gli stati e ciò che resta delle singole sovranità. Della crisi della politica statuale parla Pietro Barcellona, che intravede in essa prospettive di emancipazione in senso globale non frenate dai confini nazionali, dalle forme burocratiche dei partiti. Guardando con interesse ai movimenti no global che si sono sviluppati da Seattle a Porto Alegre, l’Autore legge la globalizzazione “nei termini di uno sviluppo delle forze produttive, del potenziale della Tecnica […] che potrebbe produrre una nuova forma di produzione e una vera civiltà cooperativa”(p. 32) quale antidoto e rimedio alla globalizzazione criminogena dei poteri forti e del capitalismo finanziario globale, che ha assorbito l’intera vita delle persone svuotando de facto l’azione politica. Che si tratti di un passaggio d’epoca o di una nuova era di conquista, come quella delle grandi scoperte geografiche o delle colonizzazioni, è convinto Ignacio Ramonet, il direttore de Le Monde Diplomatique. Nel suo saggio, Globalizzazione, ineguaglianze e resistenze, egli non esita a definire la mondializzazione una specie di saccheggio planetario (p. 40), una forma di totalitarismo finanziario che produce pericoli di nuovo genere: “criminalità organizzata, reti mafiose, fanatismi religiosi o etnici, speculazioni finanziarie, grande corruzione…” (p. 41) dilagano come elementi strutturali di un nuovo e preoccupante ciclo storico.

Ad approfondire invece l’aspetto criminogeno della globalizzazione è Umberto Santino (studioso delle mafie e responsabile del Centro “Peppino Impastato” di Palermo), per il quale “la globalizzazione più che un sistema di omologazione e di inclusione è un sistema di esclusione che acuisce squilibri e divari, con il risultato che per molte aree del pianeta (l’Africa, l’America Latina, gran parte dell’Asia, gli ex paesi socialisti) l’accumulazione illegale è divenuta l’unica economia possibile. Su questo fronte possiamo dire che il paradigma del deficit possa essere utilmente impiegato, ma il crimine non si sviluppa solo nelle periferie emarginate ma pure nei centri del capitale finanziario (e qui le opportunità per il crimine organizzato sono decisamente ipertrofiche)” (p. 95). Dunque, i gruppi criminali proliferano e le attività criminali si sviluppano in un contesto che è criminogeno per i suoi caratteri costitutivi, e che viene infatti da più parti definito criminale per le modalità dell’accumulazione e della regolazione dei capitali. È utile, a tal proposito, ripassare un po’ di geografia che Santino propone al lettore quando parla di Stati-mafia, che non sono soltanto nei Balcani o in regimi dittatoriali: “l’espressione può essere usata per rappresentare un duplice fenomeno: le connessioni tra organizzazioni criminali e istituzioni, spesso rappresentate da personaggi incriminati per corruzione o per mafia, come in Turchia, dove sono al governo uomini della banda politico-criminale dei Lupi grigi, o nell’Italia berlusconiana, dove sono stati candidati ed eletti uomini condannati o sotto processo” (p. 98).

La domanda è sempre la stessa: che fare? Si può correre ai ripari per raddrizzare questa deriva criminale del capitalismo globale? Ci provano E. Toussaint e A. Zacharie, che offrono una serie di “pistealternative che forse richiederebbero ulteriori approfondimenti, come ad esempio la costituzione di un fondo internazionale di risarcimento per lo sviluppo nei paesi del terzo e quarto mondo, da alimentare in varie modalità: tassare le transazioni finanziarie, stabilire meccanismi di controllo dei capitali, regolamentare i mercati finanziari e il commercio internazionale, vigilare sui grandi istituti di credito, ecc. Il problema semmai è capire chi sono i soggetti che devono operare in tale direzione.

L’ultima parte del volume raccoglie contributi sui migranti e sulle nuove forme di schiavismo e di clandestinità, che sono il prodotto del mondo globale e fin troppo noti alla comunità internazionale. Yann Moulier Boutang nell’analizzare i rapporti tra migrazioni internazionali e criminalità organizzata propone una serie di misure per favorire un cambiamento delle politiche pubbliche degli stati e dell’Unione Europea nella prospettiva di una politica migratoria più giusta e meno patogena, che passi da una politica di lavoro ad una politica di popolazione. In questi ultimi decenni l’Europa si è rinchiusa in una fortezza ed ha conservato - osserva Boutang - uno statuto discriminatorio nei confronti delle migrazioni del lavoro, favorendo così l’immersione nella illegalità della maggior parte delle componenti dei flussi migratori (cfr. p. 155). Di analogo tenore sono gli altri contributi della sezione (M.A. Pirrone, S. Palidda, M. Giacomarra), che denunciano la criminalizzazione del migrante attraverso l’ideologia della diversità dello straniero, del pregiudizio razziale e della paura collettiva, in una fase in cui è tramontata l’impietosa illusione dell’universalismo. Se, da un lato, il migrante continua a far paura, continua a delinquere nell’immaginario sociale, continua ad essere il catalizzatore di conflitti sociali e simbolici, dall’altro la riproduzione della devianza e della criminalità tra gli immigrati è un dato di fatto a causa di politiche migratorie proibizioniste e dei nefasti meccanismi che ostacolano l’inserimento regolare e spingono verso l’esclusione sociale. La sensazione a fine lettura di questo volume non è tanto di indignazione o di rabbia o di vergogna, ma consiste nel chiedersi se esistano mezzi efficaci di resistenza per ribaltare il criminale spirito del tempo.