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Giulio Salierno, Fuori margine.




Giulio Salierno
 
Fuori margine.
Testimonianze di ladri, prostitute, rapinatori, camorristi

Einaudi, Torino, 2001, pp. 238,
ISBN 88-06-15969-0, € 13,43

 

 


La criminalità è l’ingranaggio più oscuro di un Paese, quello in cui si misurano le contraddizioni di una società e dei suoi principi, il laboratorio che ne smaschera le velleità scaricandone al tempo stesso la violenza, quel terreno extraterritoriale in cui si controllano in realtà i margini e gli emarginati. Lo dimostrano senza ombra di dubbio le testimonianze raccolte in due anni di ricerca da Giulio Salierno pescando dalla viva voce dei protagonisti – oltre a quelli già menzionati nel sottotitolo anche boss mafiosi, spacciatori, assassini, pornostar, trans, che parlano in prima persona della propria vicenda, talvolta tirando un bilancio della loro vita davanti allo sguardo empatico dell’autore, anch’egli un ex criminale già detenuto, che nell’introduzione parla di se stesso in terza persona dicendosi “facilitato dai suoi trascorsi [giacché] negli anni passati nelle carceri algerine, francesi e italiane ha conosciuto migliaia e migliaia di detenuti di tutte le nazionalità. E ne ha condiviso rabbia, fame e speranze” (p. XVI).

Nella prima parte, dedicata al passato (“Ieri”, pp. 3-25), Salierno riassume per sé la prima persona, rivestendo di nuovo i panni del carcerato quale è stato per molti anni, ma per ricordare alcuni compagni di detenzione che in maniera diversa hanno pagato con la vita i loro trascorsi: Angelo La Barbera, assassinato, un mafioso siciliano che si considerava un imprenditore edile e nel carcere restò lui stesso vittima di un regolamento di conti; Ernesto Picchioni, il cosiddetto “mostro di Nerola” in provincia di Roma, morto d’infarto nel penitenziario di Porto Longone; Francesco Polimeni, calabrese affiliato alla ’ndrangheta dell’Aspromonte, anch’egli assassinato dopo essere stato graziato e dopo aver cercato di ricostruirsi una vita da coltivatore; Pietro Castellani, romano di Testaccio, detto il “bavoso”, morto suicida dopo aver ottenuto un condono ed essersi ricacciato nella spirale del crimine.

Nella seconda parte, la più cospicua del testo (“Oggi”, pp. 27-228), sfilano extracomunitari che provengono da bidonville degradate, ma anche da famiglie oneste e laboriose; neri e scugnizzi diventati borseggiatori e spacciatori per caso o per necessità, ma che chiedono solo di fare onestamente il loro mestiere di artigiani; albanesi venuti per studiare e finiti a fare il piccolo business della droga, ma nei salotti rispettabili di professionisti affermati; contadini, manovali, giostrai, figli più della frugalità che della fame, diventati ladri o sequestratori dilettanti perché abbagliati dall’occasione e che ormai, pentiti, aspirano a una vita normale; figli degeneri di famiglie piccolo borghesi che riconoscono di essere ormai senza via d’uscita; guappi a modo loro gentiluomini che sperano di mettere su famiglia e addirittura di arruolarsi in polizia; borgatari disillusi, per i quali “furti, rapine e mignotte non hanno niente di speciale. Sono fatti come tanti. Meglio: merci che producono reddito, soldi. Sono un’azienda, una fabbrica. Funzionano come la Fiat, l’Olivetti, la Telecom” (p. 191). E poi donne dell’est che fanno il mestiere per libera scelta, spinte da padri, mariti e fidanzati consenzienti e mantenuti; trans sudamericani preoccupati di aiutare la mamma in patria; addirittura una pornostar, attrice e soubrette ungherese di una certa notorietà, che qui interviene per i suoi guai con la giustizia italiana; tutti in fondo a dimostrare, nei termini del colombiano/a di incerto genere, che “la merce culo tira tuttora bene” (p. 209).

Dietro alle fisionomie picaresche che si profilano nei vari capitoli, il vero ritratto che risalta è quello crudo di un’Italia arretrata, provinciale, ipocrita e crudele, legata a filo doppio al crimine e al malaffare, dove le grandi città sono a tratti più pericolose delle discariche africane, dove la legalità è in genere una finzione e l’illegalità invece norma, dove il lavoro nero è la regola, il mercato degli affitti un racket, la piccola impresa subappaltatrice luogo di evasione fiscale, di corruzione e falsificazione, dove il paternalismo a parole e il razzismo di fatto sono spietati e soprattutto dove, “diciamo brutalmente la verità: i soldi si fanno solo rubando” (p. 176), dove “nessuno ha mai fatto la grana lavorando onestamente. Non raccontiamo balle” (p. 186). Prodotti della miseria e dell’ignoranza, residui e conseguenze delle passate e presenti atrocità delle guerre, il delitto e la devianza sono in realtà organizzati a monte nel sistema dello sfruttamento e del controllo delle risorse, cui corrisponde l’istituzionalizzazione di una ideologia carceraria ormai obsoleta, che di fatto consolida il crimine e sancisce l’esclusione sociale dei sottoproletari, pure protagonisti di un mercato parallelo paradossalmente efficiente e ben regolato non solo nell’anomia e nel degrado delle famigerate periferie urbane degli anni Ottanta, ma anche nei salotti buoni della borghesia affarista e senza scrupoli. I manigoldi che compaiono sulla scena in realtà applicano alla lettera, come ben dimostra Salierno, le leggi del profitto e della concorrenza che vigono all’interno di un’economia di rapina, cui è strutturale un darwinismo sociale altrettanto cinico, anche se di questa rappresentano il retrobottega di servizio, comunque funzionale alla vetrina presentabile dell’alta finanza e della grande industria. Si tratta di un’enclave che, rispetto alla facciata davvero disumanizzata e disumanizzante dell’economia canaglia che conosciamo, almeno è ancora dotata di un certo senso di benevolenza, ancora aspira, a suo modo, all’emancipazione.

L’altra grande protagonista dell’affresco proposto da Salierno è certamente la prigione, quella in cui si entra piccoli delinquenti storditi e si esce incattiviti criminali, se non killer feroci, quella in cui “c’è crudeltà, ma anche generosità, coraggio, disinteresse e solidarietà” (p. 132), quella che ormai vive la disintegrazione sociale nello scontro e rivalità tra le diverse nazionalità immigrate, ma sperimenta anche la novità dei tentativi portati avanti da associazioni impegnate in progetti di risocializzazione. E poi c’è onnipresente la strada, teatro di tutte le devianze, ma anche luogo caricaturalmente democratico, dove anche l’escluso disincantato può tentare la sua fortuna, certamente non alla luce del sole. Peraltro la strada può anche essere e forse dovrà di nuovo diventare il grande scenario della rivolta che sempre cova sotto la cenere.

Significativa e sorprendente è a questo proposito la chiusa del libro, la sua lapidaria terza parte (“Domani”, pp. 229-233) in cui, tornando indietro nel tempo e rimettendo in scena, di nuovo alla terza persona, un ricordo personale dell’autore, già soldato della Legione straniera nell’Algeria ancora colonia francese, implicitamente Salierno ammonisce di non bagatellizzare le avvisaglie degli scontri che ci attendono e che potrebbero degenerare in una guerra civile o evolversi in una vera e propria rivoluzione, i cui protagonisti saranno allora certamente gli emarginati: sul viale principale di Sidi-Bel-Abbès sfilano i mercenari in divisa che cantano sfacciatamente marce bellicose il 14 luglio del 1953, nell’anniversario della presa della Bastiglia, applauditi istericamente da pingui pieds-noirs, ancora ignari della prossima fine del regime che sostengono; defilati nelle traverse laterali guardano attoniti “arabi, cabili, neri, mulatti, meticci, con i bambini aggrappati alle ginocchia o issati sulle spalle […]. Osservavano e tacevano. Sapevano, intuivano, che, presto o tardi, sarebbe venuto il loro momento” (p. 233).

Indice del volume
Introduzione
 Ieri
Il boss
Il «Mostro di Nerola»
Un amico
Il malavitoso
 Oggi
L’aspirante scippatore
Lo spacciatore col decalogo
Il rapinatore
Il camorrista
La bicicletta
Lo sfigato
Non colpevole?
Il sequestratore
’O muschillo
Il carrierista
Il trans
La pornostar
 Domani
Dietro l’angolo