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Mariarosaria Alfieri, Io, assassina - Mariarosaria Alfieri e Antonella Esposito, Io adolescente difficile


Mariarosaria Alfieri
Io, assassina.
Dalla serial-killer alle sacerdotesse di satana


Iris 4 Edizioni, Roma, 2008





Mariarosaria Alfieri e Antonella Esposito
Io, adolescente difficile.
Baby-killer, gang, bande giovanili, branco


Iris 4 Edizioni, Roma, 2009.








Né il crimine né il criminale sono oggetti che possano
concepirsi al di fuori del loro riferimento sociologico.
Jacques Lacan1
 

Entrambi i testi scritti dalla Alfieri, dei quali il secondo insieme a Antonella Esposito, sembrano snodarsi all’ombra di questo assunto lacaniano: infatti il primo sottrae la donna, sebbene per così dire sulla “strada del male”, a quei luoghi comuni della tradizione patriarcale e non- che la accomunano diciamo alla “polarità del bene” prescindendo dai condizionamenti storici e culturali; l’altro ci induce, attraverso la descrizione puntuale della tipologia di reati di cui sono protagonisti gli adolescenti, a interrogarci sulle cause economiche, sociali, culturali e quindi psicologiche che determinano la devianza giovanile.

Sappiamo, e se non lo sappiamo dovremmo prenderne atto, che da una parte la visione o meglio la discriminazione tradizionale discendente dal pensiero greco, secondo cui la donna non abita né il logos né la polis, la ammanta di “teneri luoghi comuni” quali per esempio “la donna è un essere indifeso e bisognoso di protezione” per poter meglio esercitare controllo e potere sul suo corpo (ma direi anche sulla sua mente: in fondo l’innocenza che doveva caratterizzare l’essere femminile non era altro che la mancanza di conoscenza), tanto ad opera della famiglia d’origine quanto del futuro sposo, ed ecco che la protezione diviene rapidamente tutela; dall’altra le teoriche dell’essenzialismo (Luce Irigaray, Luisa Muraro, ecc.), che fondano la differenza sessuale e tutta la dicotomia concettuale che ne deriva sull’anatomia, sostengono che il femminile nutra, protegga, accolga, riscaldi, contenga, rigetti il potere, insomma sia sempre dalla parte dell’amore e della vita. Dato che il filone essenzialista della differenza non fa altro che mettere la madre al posto del padre dell’ordine patriarcale: la madre biologica assurge a madre simbolica, quindi si prende riduttivamente il corpo della madre al posto di quello della donna. Il libro della Alfieri sulla devianza al femminile cerca di sottrarre appunto la donna ai luoghi comuni della tradizione che, aggiungerei lacanianamente attraverso i significanti e butlerianamente attraverso il discorso performativo, schiacciano la donna sulla polarità del bene quindi dell’amore, della cura e della vita, icona per altro adottata dalla chiesa2, arrivando a negarle anche la capacità di compiere “il male” e quindi in un certo senso la facoltà di discernere tra bene e male, visto che avrebbe un’innata disposizione al bene. Ragion per cui studi, inchieste e domande sulla devianza sono sempre state poste al maschile, come è scritto nella presentazione del libro.

Mariarosaria Alfieri analizza la devianza femminile attraverso la griglia delle trasformazioni storiche e ci induce, come dicevo, a focalizzare l’attenzione sul pregiudizio maschilista secondo cui la natura della donna è meno aggressiva e più disposta a subire: fingendo in tal modo d’ignorare che l’educazione patriarcale a cui la donna veniva sottoposta era costantemente tesa a “performare” il suo comportamento nella direzione della docilità, della dipendenza, della subalternità, condannando invece qualsiasi tratto di ribellione ed esaltando al contrario la sua “indotta” disponibilità a subire. Ciò, lo sappiamo, accadeva anche attraverso un’operazione di carattere religioso e morale che nella donna censurava la ribellione e la forza e ne elogiava la passività e la mitezza. La Alfieri ci fa notare che le mutate condizioni socio culturali hanno permesso purtroppo anche un aumento della devianza femminile. Ciò ovviamente non vuole dire che in passato le donne fossero prive di una pulsione aggressiva, ma che forse trovava altre vie (la dirigevano contro se stesse o lasciavano che gli uomini la dirigessero ancora una volta contro di loro). Oggi non solo è mutata la frequenza dei reati, ma anche le motivazioni, come mostra la Alfieri. Ho usato volutamente il termine pulsione aggressiva, in quanto mi sembra opportuno evidenziare che l’autrice non si limiti a parlare della devianza femminile in senso stretto, ma che in alcune pagine voglia di proposito confutare il pregiudizio maschilista secondo cui la donna sarebbe priva della pulsione aggressiva3 arrivando a negare la figura della donna guerriera, vale a dire la presenza delle donne nell’esercito, l’uso e il possesso di armi da parte delle donne oppure considerando il loro ruolo attivo in caso di guerre, movimenti di lotta, rivoluzioni un elemento anomalo, una sorta di alterazione di un infondato ordine naturale. Al contrario molto giustamente la Alfieri afferma: «La donna si schiera e rischia in prima persona dimostrando che quando ritiene di mettersi in gioco per cause alte, giuste o sbagliate, accettabili o censurabili, procede per quanto ha scelto in autonomia estremamente determinata anche a costo di impiegare violenza.» (M. Alfieri, Io, assassina, p. 35).

Nell’Ottocento i delitti femminili erano per lo più passionali oppure volti a conquistare una libertà negata dal padre, dal fratello o dal marito. Ciò nonostante non mancarono donne dedite al brigantaggio durante la seconda metà dell’Ottocento e non sempre si trattava di donne dei briganti, talvolta erano brigantesse in senso stretto capaci di iniziative autonome e di azioni sanguinarie: erano donne capaci di ribaltare lo stereotipo di rassegnazione e sudditanza partecipando attivamente alla rivolta contadina. Il loro dramma si consumò nell’indifferenza se non addirittura nel disprezzo dell’opinione pubblica: la dura repressione del brigantaggio meridionale dopo l’Unità per mano di circa centomila soldati, vide donne combattere sino allo stremo delle proprie forze nelle bande armate. Queste stesse donne, che avevano osato violare l’ordine naturale dei sessi, venivano definite manutengole, cagne, prostitute e dopo l’uccisione i loro corpi venivano violati: le immagini dei loro corpi denudati furono fatti circolare a dispetto del moralismo con cui erano state giudicate da vive. «Gli atti ufficiali dei Carabinieri Reali, delle prefetture e i fascicoli processuali le accomunano ai loro uomini. Mai attribuiscono alle donne del brigantaggio un ruolo di soggetto sociale autonomo. Cronache giornalistiche e scrittori coevi le descrivono solo come manutengole, amanti, concubine, ganze, drude, donne di piacere dei briganti. È quanto impedisce di prendere in considerazione il fenomeno, non consentendo di conseguenza uno studio più approfondito sui risvolti sociali e politici della rivolta delle donne meridionali.» (ivi., p. 33)

La Alfieri non manca di enumerare tra le “azioni violente” della donne quelle di stampo terroristico, anzi ci ricorda che nelle azioni terroristiche compiute da alcuni gruppi contro i rappresentanti dell’autocrazia zarista un quarto dei terroristi era costituito da donne «che si mostrano straordinariamente coraggiose e dedite alla causa» (ivi., p. 34), tra queste Vera Zalusic che spara al governatore di Pietroburgo, generale Trepov. L’autrice ci fa osservare però che tali azioni violente appartengono a una “particolare devianza”: dietro di essa non ci sono infatti volontà di arricchimento personale, desiderio di potere o motivi passionali, ma la fede politica, gli ideali politici, la forza dell’ideologia4. Infatti la presenza di donne combattenti è evidente anche all’interno della rivoluzione russa e della guerra civile che ne seguì, al termine della quale l’Armata Rossa annoverava tra le sue fila sessantaseimila donne, senza considerare le combattenti improvvisatesi tali. Anche la guerra civile spagnola nota semplicemente anche come guerra di Spagna (1936-1939) trova le donne impegnate su fronti opposti: i nazionalisti affidano loro solo compiti ausiliari, i repubblicani anche azioni belliche. Ma il numero più alto di combattenti donne si registra in Iugoslavia: sono oltre centomila e raggiungono il venti per cento in alcune brigate di formazione esclusivamente femminile5. Fu conferita l’alta onorificenza militare a novantuno donne e più di duemila raggiunsero alti gradi, compreso quello di generale delle Forze Armate.

Nella storia italiana della lotta armata le donne che militarono si suddividono in quelle che hanno militato durante la Resistenza dal 1943 al 1945; le ausiliarie in divisa dell’esercito fascista di Salò e le donne che presero parte ai gruppi clandestini degli Settanta. L’autrice non manca di farci osservare che tra queste ultime poche sono coloro che rientrano nel fenomeno del pentitismo: vi è dunque una specifica irriducibilità femminile, tanto che per analizzare tale fenomeno le ex-terroriste sono state sottoposte a questionari standardizzati a risposta multipla. Qualcosa dunque predispone la donna ad una maggiore tenacia o radicalità o coerenza, che la Alfieri definisce durezza, ostinazione, sostenendo che vi sia un in più che caratterizza diversamente la motivazione delle donne rispetto a quella degli uomini. Laddove però la Alfieri sostiene che «il bisogno della donna di affrancarsi viene facilmente strumentalizzato dal gruppo terroristico che sostiene di sapere cosa va cambiato nella società e di poterlo fare subito […]» (ivi., p. 39), mi sembra che ella riduca di molto il valore della convinzione ideale delle donne; e laddove afferma che «nel contesto eversivo sembra invece costretta a perdere la propria femminilità per trasformarsi in androgino. Nella concezione rivoluzionaria la donna replica esattamente l’uomo in tutte le funzioni fino a perdere o a rinunciare anche alla funzione di madre» (ivi., p. 39), mi sembra indulgere ai soliti stereotipi, perdendo completamente di vista la differenza fra “la donna” e “la madre” ed elevando implicitamente a verità universale quello che ritengo possa essere solo un desiderio singolare cioè il desiderio di divenire madre. Fino a scendere nella più trita retorica: «seppure esplode a un certo punto la voglia di maternità a lungo repressa, soffocata dal dolore e dal sangue di scelte estreme, quasi che la vita s’imponga alla morte, cerchi un proprio riscatto» (ivi., p. 39), in contraddizione, a mio avviso, con l’approccio più generale da lei mostrato nel testo.

Partendo dalle persecuzioni subite dalle cosiddette “streghe” da parte della Santa Inquisizione, passando per il mito di Lilith, l’autrice descrive nell’ambito della devianza femminile attuale il ruolo delle donne all’interno di gruppi satanici, nei quali la donna incarna tutto: ella è vittima, strega, ostia, altare, sacerdotessa.

Sembra essere in crescita, secondo quanto afferma la Alfieri, il numero delle donne serial-killer. A mio avviso non è però trascurabile né opinabile quanto sostiene la frangia più radicale del movimento femminista ossia che gli assassini seriali siano il prodotto della società patriarcale e che spesso gli uomini uccidano per sadismo, mentre le donne per nulla o molto poco. Ragion per cui secondo alcuni autori non si può parlare di serial-killer se la donna non uccide esercitando componenti sadiche. Segrave, infatti, sostiene che in questo caso bisogna parlare di assassine-multiple, dato che negli omicidi compiuti da donne non è presente la componente sadica tipicamente maschile. Il fatto poi che le motivazioni degli omicidi seriali non siano di carattere sessuale, ma coincidano con il denaro, la gelosia, la vendetta, il desiderio di potere, di dominio mi sembra un’ulteriore confutazione dell’affermazione dell’autrice.

Anche se minore rispetto a quello degli uomini il numero delle donne in carcere è in ascesa in Gran Bretagna, come negli Stati Uniti: dunque col mutare della condizione femminile un numero sempre maggiore di donne è capace di delinquere. Anche in Italia nell’ambito della criminalità organizzata è terminata l’epoca delle mogli e madri silenziose, al contrario le donne divengono sempre più organizzatrici del racket del sistema di controllo del territorio. Le donne vanno trasformandosi in vere e proprie leader di cosche mafiose per amore del potere.

Assistiamo pure a un lievitare della criminalità tra le donne della fascia giovanile, studentesse e giovani donne in cerca di prima occupazione, in concomitanza con i fenomeni devianti connessi al problema della disoccupazione e della tossicodipendenza.

Secondo la Alfieri però permangono, sebbene vadano assottigliandosi, le differenze tra le manifestazioni della pulsione aggressiva maschile e di quella femminile riguardo la causa che le determina; è evidente che ciò sia il frutto degli inevitabili condizionamenti culturali o meglio dell’universo del simbolico in cui l’uomo e la donna si trovano immersi. Gli uomini uccidevano e uccidono su commissione, in eccessi di rabbia, risse, raptus alcolici, dopo una sconfitta, per rivalità, ambizione. I delitti delle donne un tempo erano determinati, a parte il fattore economico, da passioni come odio, vendetta, amore; oggi invece i moventi degli omicidi per mano femminile possono essere il denaro, il potere, la vendetta, esecuzione di ordini, delusione, piacere, autodifesa, psicopatia, depravazione, rivalità. L’assunto lacaniano che riporto all’inizio mi sembra essere confermato.

Come vedremo il riferimento sociologico, di cui parla Lacan e che abbiamo riportato all’inizio, è fondamentale anche per spiegare il crimine da parte degli adolescenti, vale a dire da parte di persone la cui età è compresa tra i tredici e i diciassette anni: periodo in cui l’adolescente va svincolandosi non solo dalla dipendenza affettiva nei confronti dei genitori ma in linea di principio anche dai valori e dagli ideali delle figure genitoriali, scegliendo i propri. Le autrici, Alfieri e Esposito, pongono l’accento sul fatto che affinché questo passaggio (dall’adolescenza all’età adulta) avvenga nel modo per così dire più corretto, sano ed equilibrato possibile e conduca l’adolescente ad una maturità psicologica ed emotiva, sia fondamentale l’atteggiamento dei genitori durante l’infanzia del figlio: «se il ragazzo è stato educato a sicura e sostanziale autonomia, accompagnata da atteggiamento soprattutto basato sul convincimento e sull’affetto, gli sarà più facile assumere e sviluppare maggiore autostima. Un’educazione autoritaria gli darà viceversa minore equilibrio e lo spingerà al conflitto.» (M. Alfieri e A. Esposito, Io, adolescente difficile, p. 9). Ora sebbene osservazioni di questo tipo non mi sembrano illuminare la strada che conduce alla spiegazione dei gravi reati di alcuni adolescenti, sui quali si dilungheranno le autrici, certo esse con la loro attenta e puntuale descrizione di tali reati ci inducono a riflettere sul ruolo che gioca l’attuale assetto culturale e sociale in un senso ancor più ampio di quello familiare. Colpisce, infatti, un certo tipo di reati quali violenze a danno di persone disabili da parte di gruppi di adolescenti, bullismo, costituirsi di gang, fenomeno dei baby-killer e quello del branco, satanismo e la possibile ma anche scontata relazione tra devianza minorile e tossicodipendenza. Ciò che accomuna gli adolescenti responsabili di tali reati è l’assenza di emozioni, o, detto più precisamente, impulsività, freddezza, carenza empatica con la vittima, potremmo dire l’assenza di sentimento per la vittima. Molto raramente sono le ragazze a compiere tale tipo di reati. Nel loro caso la violenza ha quasi sempre come obiettivo una vittima da loro conosciuta: si tratta spesso di familiari che per anni le hanno maltrattate o spesso hanno abusato di loro.

Le autrici esaminano da vicino e attentamente i reati degli adolescenti: le gang sono gruppi delinquenziali, caratterizzati dall’etnia e da elementi distintivi come tatuaggi, colore degli abiti, e in particolare da una gerarchia interna ben definita, avente una complessa strutturazione di regole e comportamenti da seguire. Da anni noto negli Stati Uniti, solo ora tale fenomeno si sta diffondendo in Italia (Milano), dove però è diversamente connotato: si tratta di «aggregazioni giovanili prive di ideali, in cui la mancanza di obiettivi comuni, la scarsa capacità di comunicare e riconoscere gli stati d’animo, sfociano in atti contro il mondo esterno. Vi è inoltre minore correlazione tra delinquenza minorile e povertà. Spesso i ragazzi appartengono sì a famiglie multiproblematiche, non sempre però disagiate.» (ivi., p. 16). Perciò «nelle bande è molto sentita l’appartenenza al gruppo» (ivi., p. 40), affermano le autrici, le quali si riferiscono qui chiaramente alle bande di strada o gang ed in riferimento a tale fenomeno osservano la carenza di integrazione giovanile soprattutto nelle aree metropolitane. Siffatte dichiarazioni delle autrici, ed è questo il loro pregio, ci consentono immediatamente di rivolgere l’attenzione a quegli aspetti che connotano il nostro tempo (quello che Mauro Magatti definisce capitalismo tecno-nichilista6) dal punto di vista culturale, etico e sociale e che dunque costituiscono l’humus dal quale traggono alimento i reati di cui parliamo: il capitalismo tecno-nichilista celebra oggi la definitiva impotenza dell’etica; in passato spettava all’etica scegliere i fini e alla tecnica il reperimento dei mezzi, oggi il fare tecnico (tèchne) assume come fini quelli risultanti dalle sue operazioni. Dunque l’etica si trova dinanzi a tali finalità come eventi non scelti, da cui il suo agire (prâxis) non può prescindere. Così è venuta meno tanto l’etica kantiana dell’intenzione quanto quella weberiana della responsabilità (secondo cui bisogna rispondere delle proprie azioni). Non è più l’etica a promuovere la tecnica, ma è la tecnica che condiziona l’etica, la quale deve per giunta favorire o vietare in nome di valori resi instabili dal crollo delle ideologie. L’agire risulta subordinato al fare. È questo il punto. Gli adolescenti, futuri giovani un tempo trovavano il loro principio di coesione in idee religiose, filosofiche, giuridiche, politiche, oggi questi sono appiattiti sull’unico valore che è la produzione, prima economica e poi tecnica, regolata da una pseudo-razionalità, quella calcolante, che non concede all’individuo lo spazio dell’interiorità né quello dell’ideale:

La società ha riprodotto se stessa in un crescente insieme tecnico di oggetti e di relazioni che ha incluso l’utilizzazione tecnica di uomini; in altre parole, la lotta per l’esistenza e lo sfruttamento dell’uomo e della natura è diventata sempre più scientifica e razionale. Il doppio significato di «razionalizzazione» è rilevante in questo contesto. […] La razionalità scientifico-tecnica e la manipolazione sono saldate insieme in nuove forme di controllo sociale.7

Nell’età del capitalismo tecno-nichilista la forma di comunicazione divenuta egemone è quella che non presuppone aspettative intersoggettive, né interazioni tra i soggetti, quali sono invece richieste per la formazione di un’identità dell’Io attraverso il riconoscimento dell’altro. Ha avuto luogo una disarticolazione del rapporto sociale: da una parte vi è la società impersonale alla quale l’individuo si relaziona solo in termini di prestazione e dall’altra una società personale come la famiglia, gli amici, il gruppo etnico, nella quale l’individuo è legato ai suoi simili non dal perseguimento di un fine, ma da valenze affettive, emotive, dinamiche di dipendenza, insomma da una relazione che si situa sul piano speculare dell’immaginario piuttosto che su quello del simbolico; da qui a mio modo di vedere l’importanza del leader e della gerarchia e il sostanziale azzeramento della libertà all’interno del gruppo. In termini freudiani la libido lega i membri del gruppo al capo e tra loro: i legami libidici spiegano la mancanza d’indipendenza e d’iniziativa degli individui all’interno del gruppo e l’identità delle loro reazioni. L’agire in gruppo mi sembra uno degli elementi che contraddistingue il delinquere adolescenziale odierno: lo vediamo nel caso delle violenze perpetrate a danno di una persona disabile per es., dove gioca un ruolo anche la mancanza di educazione alla diversità, da qui la reificazione della vittima in quanto soggetto privo di autonomia e incapace di difendersi, dunque facilmente attaccabile. Un ruolo importante svolge a mio avviso l’assenza dell’educazione sessuale nel caso del branco, che terrorizza, umilia, violenta, sevizia ragazzine ma qualche volta anche ragazzini: qui non solo viene confermata a piene mani la logica del gruppo, la reificazione dei corpi, ma viene confermato che quando non è l’Ideale ad aggregare i legami sociali si può sadianamente godere del corpo dell’altro, perché la logica del mercato rende oggetti anche i corpi brutalizzati e filmati dai tanti adolescenti di cui ci parla la cronaca. I legami senza ideale possono essere instabili, liquidi, come direbbe Baumann; ma anche esposti alla contingenza del sintomo, chiusi, cristallizzati, reificati, gelati, molecolari, involuti, segregativi, come direbbe Recalcati. È evidente pure che la desublimazione controllata imposta dalle necessità del mercato non porta ad un riconoscimento dell’altro come soggetto: questi adolescenti che stuprano, umiliano, picchiano le loro coetanee e qualche volta i loro coetanei non sono certo lo specchio di una società in cui la sessualità sia considerata come espressione di tenerezza o di desiderio, ma al contrario come strumento di potere sul corpo femminile e sul corpo in generale, della cui reificazione il sistema tecno-nichilista coadiuvato dai mezzi di comunicazione di massa è responsabile. Potremmo commentare con Marcuse che nella civiltà industriale avanzata la libertà sessuale diviene un valore di mercato ed un fattore di costumi sociali: essa viene “liberalizzata” e non “liberata”.

Le autrici non mancano di soffermarsi sul nesso tra l’uso di droghe e la devianza giovanile, inducendoci a riflettere ancora una volta sul tramonto dell’Ideale, la perdita del suo ruolo orientativo (promossi dalla società tecno-nichilista, in cui non c’è spazio per le idee, gli ideali, le ideologie) e l’affermazione dell’oggetto di godimento nella posizione di agente, come illustra il lacaniano Discorso del capitalista. Ancora una volta emerge che la nostra è un’epoca in cui l’altro non viene più incontrato, nella misura in cui la vita viene ricompresa negli apparati pervasivi dei sistemi tecnici e funzionali. Esclusi il patire e il soffrire, il desiderio non viene più elaborato.

[…] i nostri sistemi tecnici sono pensati per escludere proprio la dimensione del patire e soprattutto del com-patire, con il risultato di rivelarsi in molti casi distruttivi di quella stessa umanità che vorrebbero servire.8



Note con rimando automatico al testo

1 Jacques Lacan, Introduzione teorica alle funzioni della psicoanalisi in criminologia, in Id., Scritti, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino, 2002, vol. I, p. 120.

2 A tale proposito è importante sottolineare che nella nostra religione e quindi nella nostra cultura alla suddetta polarità del bene vengono contrapposte le immagini che esprimono il carattere elementare negativo del femminile: quella della peccatrice, della donna demone, strega, vampira, mostro dalle fauci divoranti; non mancano archetipi femminile quali le divinità del mondo sotterraneo oscure e terribili, la caverna che divora e riprende tutto dentro di sé, insomma domina l’immagine divoratrice del femminile e forse ritorna sotto forme più sofisticate nella psicoanalisi attraverso la figura della madre.

3Vorrei inserire una mia osservazione personale sul fatto che anche in occasione dei processi per stupro alla donna veniva attribuita una “natura” negativa e la vittima veniva trasformata a dispetto della sua tanto decantata innocenza in imputata, sfruttando il luogo comune della donna menzognera per natura e quello della vis grata puellaeche si ammanta di pudicizia. Ricordiamo, spero non pochi, il famoso processo per stupro del 1978, in cui Tina Lagostena Bassi era difensore di parte civile, mandato in onda dalla RAI il 26 aprile 1979; l’idea di documentarlo nacque in seguito ad un Convegno Internazionale femminista sulla ‘Violenza contro le donne’, tenutosi nell'aprile del 1978 nella Casa delle donne a Roma.#Non possiamo dimenticare a tale proposito che Freud vedeva il masochismo come connaturato alla femminilità e non mancano ancora oggi suoi seguaci tra gli uomini comuni (sebbene ne ignorino le teorie…).

4Anche quest’aspetto del femminile, sul quale l’autrice insisterà, “a suo modo”, nelle pagine successive, sembra confutare la convinzione di Freud secondo la quale le donne mostrerebbero un Super-io più debole rispetto agli uomini, cosa che a mio avviso è del tutto smentita nei fatti dalla maggiore coerenza delle donne nei confronti dei propri ideali in generale e non solo in questo specifico ambito (allorché ovviamente esse li abbiano).

5 Non è precisato ma presumo che qui la Alfieri si riferisca alla lotta dell'Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia, movimento comunista della Resistenza jugoslava contro i tedeschinazionalsocialisti, i croatiustascia e gli italianifascisti, che fu guidata da Josip Broz, il cui nome di battaglia era Tito. Vorrei aggiungere che forse erano figlie o nipoti di quelle donne quelle che nell’estate del 1992 dopo la presa di Foca nella Bosnia sudorientale da parte delle milizie serbo-bosniache furono ridotte allo stato di schiave sessuali: venivano usate come schiave personali, o vendute ad altri in case degli stupri o date in premio per violenze di gruppo; lo stupratore qualche volta poteva essere anche un vicino di casa. Donne, ragazzine e bambine picchiate, torturate, vendute, stuprate dal gruppo. Lo stupro di guerra, ha stabilito il Tribunale dell’Aja in occasione dei processi per stupro contro i tre capi delle milizie serbo-bosniache che presero Foca, equivale a un crimine contro l'umanità. E' stata la prima volta che lo stupro di guerra è stato definito “crimine contro l’umanità”.

6Mauro Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009.

7Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1999, p. 154.

8 Mauro Magatti, Libertà immaginaria, cit., p. 317.