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Valentina Pazé, In nome del popolo

 

 

Valentina Pazé

In nome del popolo.

Il problema democratico

 

Laterza, Bari 2011, pagg. IX - 193, € 17

ISBN 9788842096528

 

 

La democrazia è in crisi. Ne abbiamo quotidianamente i segnali. Ci rendiamo del resto ben conto che questa crisi si sviluppa attraverso una distorsione interna dei meccanismi di cui la democrazia stessa è costituita, rivelandone ancora una volta la fragilità. Perché la crisi della democrazia, ancorché cifra della nostra attualità, non è una novità del nostro tempo; molte sono state le occasioni nella storia in cui il popolo sovrano ha preso decisioni contro il proprio interesse con conseguenze spesso tragiche. L’ultimo libro di Valentina Pazé, ricercatrice di Filosofia politica presso l’Università di Torino, affronta il “problema democratico”, mettendo in evidenza come la democrazia sia un regime difficile che richiede precisi presupposti sociali e culturali per essere effettiva, sempre soggetta altrimenti al rischio di involversi in una serie di rituali di delega svuotati di senso e dagli esiti potenzialmente pericolosi.

Il libro si articola in due parti, entrambe costituite di quattro capitoli. La prima parte è dedicata ad indagare le occasioni nella storia in cui la democrazia ha mostrato i suoi lati critici e problematici; attraverso quattro categorie, il demos, la plebe, i subalterni e gli stupidi, Pazè focalizza l’attenzione su altrettanti momenti storici in cui le decisioni del popolo hanno mostrato la debolezza intrinseca della forma di governo democratica: i processi ad Atene nel V e IV secolo a. C., l’elezione a suffragio universale maschile di Luigi Napoleone nella Francia del 1848, l’ascesa al potere di Hitler tramite elezioni “democratiche” in Germania nel 1933, i populismi di diverso orientamento sorti in molte parti del mondo nel corso del XX e XXI secolo. In riferimento ad ogni serie di eventi l’autrice rende conto con grande ricchezza e chiarezza del dibattito che si è acceso presso gli intellettuali “addetti ai lavori”, facendo emergere di volta in volta lo sconcerto, le proposte, le analisi critiche.

La seconda parte indaga invece quattro possibili risposte, fornite per affrontare e arginare “il problema democratico”. A partire dalle risposte classiche del costituzionalismo e dell’importanza dell’educazione della società civile come argini imprescindibili alle derive della democrazia, fino ai più recenti esperimenti di democrazia deliberativa e partecipativa, il libro ci inserisce con grande vivezza nel cuore della discussione che ai diversi livelli si dispiega intorno al tentativo di far fronte alla crisi della democrazia. Con molta lucidità Pazé fa dialogare tra loro le diverse posizioni, mostrandone di volta in volta la produttività di alcune proposte o la problematicità di alcuni esiti.

La diffidenza nei confronti della democrazia accompagna questa forma di governo fin dalle sue origini greche. Passando in rassegna le posizioni degli antichi da Erodoto a Platone, da Euripide ad Aristotele, l’autrice evidenzia come il tema antidemocratico si sia innanzitutto nutrito della diffidenza nei confronti del demos, invariabilmente descritto come ignorante, condizionabile, emotivo ed estemporaneo nelle sue decisioni, il cui impegno nel lavoro manuale derivante dalla necessità di mantenersi si configura come un ostacolo intrinseco alla possibilità di formarsi competenze adeguate alla gestione della polis. E’ in particolare l’articolata posizione di Platone ad essere ricostruita e il suo severissimo giudizio, consolidato nel corso della serie di processi di matrice politico-religiosa culminata con la condanna a morte di Socrate, secondo cui la democrazia ateniese coincide con una condizione di arbitrio totale, in cui nessun principio di giustizia o equità regola la vita politica e in cui il demos, infantile e capriccioso, asseconda i retori che meglio sanno intercettarne di volta in volta gli umori. In tal senso l’autrice evidenzia come la demagogia non sia considerata propriamente da Platone una degenerazione della democrazia, quanto piuttosto la sua unica vera essenza. Utilizzando in modo dialettico le categorie classiche di libertà degli antichi e libertà dei moderni, Pazè rileva allora che nella critica platonica la libertà di cui godono i cittadini ateniesi non è tanto quella dell’autonomia e del rispetto della legge, esaltata da Pericle, quanto piuttosto la licenza e il diritto per tutti di fare tutto, trattando allo stesso modo “chi è eguale” e “chi non lo è” e che proprio la licenza su cui si fonda la democrazia la espone al rischio di tramutarsi in tirannide.

Il giudizio severo nei confronti della democrazia, largamente diffuso tra i rappresentanti migliori della cultura greca, appare oggi distante dal consenso che questa forma di governo riscuote come l’unica in grado di garantire congiuntamente libertà e uguaglianza per fasce il più ampie possibile di cittadinanza. Come strumento di comprensione di questo cambiamento, Pazé propone di utilizzare l’analisi di Bobbio, secondo il quale la vera rivoluzione moderna consiste nel fatto che attori politici delle moderne democrazie sono diventati cittadini-individui, portatori di responsabilità e diritti individuali e non più il demos, indistinto e indifferenziato soggetto collettivo, a cui andava tutta la diffidenza degli antichi. Non è un caso infatti, sottolinea l’autrice, che tra gli argomenti degli antichi a detrimento della democrazia non vi fosse quello, più diffuso tra i moderni, della pluralità irriducibile e ingovernabile dei punti di vista esistenti tra i cittadini. Tuttavia tale diffidenza nei confronti della capacità del “popolo” di essere protagonista della vita politica non scompare facilmente dai giudizi dei colti nemmeno in età moderna e se da un lato per Rousseau il diritto di eleggere i propri rappresentanti è troppo poco perché si possa ancora parlare di democrazia, dall’altro l’autrice ricorda come la gran parte degli intellettuali illuministi a lui contemporanei identifichi il peuple con la plebaglia che insidia dal basso della sua condizione di indigenza i privilegi dei ceti elevati. Per comprendere il persistere di questa diffidenza Pazè introduce a questo punto un elemento interpretativo nuovo, ovvero il nesso, inedito nella concezione antica, tra libertà politica e uguaglianza materiale, come condizione imprescindibile della democrazia. La lontananza che per secoli ha caratterizzato il popolo dalla vita politica, le condizioni di vita estremamente indigenti in cui gran parte dei ceti urbani vivono a ridosso della rivoluzione industriale motivano infatti in gran parte la diffidenza che il suffragio universale suscita non soltanto nei difensori dell’ancien regime, ma in intellettuali del calibro di Montesquieu, Kant e Constant. Del resto alcuni eventi della storia sembrano fornire seri argomenti su cui riflettere in proposito. L’autrice fa riferimento in particolare alle prime elezioni a suffragio universale maschile in Francia, nella primavera del 1848 per l’elezione della costituente, che hanno visto trionfare le forze della conservazione e all’elezione trionfale di Luigi Napoleone nello stesso anno, sottolineando come questo evento fornisca a socialisti e democratici ulteriori elementi di sconcerto sulla reale capacità da parte del popolo di assumersi la difficile responsabilità della partecipazione alla vita politica. Per ribadire come gli strumenti della democrazia siano di per sé fragili e facilmente utilizzabili per obiettivi autoritari, Pazé evidenzia inoltre come lo stesso Luigi Napoleone, dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851, farà di strumenti volti a garantirsi il consenso popolare, quali plebisciti, misure paternalistiche a favore dei ceti più svantaggiati, retorica delle grandi opere, l’asse portante del suo governo. E’ a questo punto che appare chiaro agli intellettuali più aperti che il vero ostacolo ad una gestione davvero democratica del suffragio universale è la condizione di estrema indigenza in cui versano gli strati inferiori della popolazione: senza condizioni di uguaglianza materiale e reale opportunità per tutti i cittadini di accedere alle risorse sociali la possibilità di esercitare la libertà politica si rivela del tutto aleatoria.

La marginalità non diventa tuttavia soltanto una ragione di esclusione dalla vita democratica, più rilevante è secondo l’autrice la condizione di violenza epistemica a cui sono soggetti coloro che propone di identificare con la categoria dei “subalterni”, intesi come quanti subiscono l’egemonia dei dominatori non soltanto sotto il profilo materiale, ma più ancora aderendo alla loro visione del mondo, ai loro valori, diventando così complici della propria oppressione. Il problema cruciale ai fini del discorso, richiama a questo punto Pazé, è “per chi votano i subalterni?” Ripercorrendo la lettura proposta da Marx della già citata elezione di Luigi Napoleone, l’autrice evidenzia come il grande consenso che quest’ultimo ebbe nelle campagne e tra le fila del sottoproletariato urbano permette di capire che nell’immaginario dei suoi elettori egli dovette apparire come difensore degli interessi dei più svantaggiati e non, com’era in realtà, di quelli dell’aristocrazia finanziaria. Il legame che si instaura tra questi elettori e coloro che si scelgono come rappresentanti è di tipo emotivo, si nutre dell’immaginario, si fonda molto più su ragioni psicologiche che su argomenti razionali. Questo permette in parte di spiegare perché il subalterno “desidera contro il proprio interesse”, ma d’altro canto fa emergere tutta la difficoltà dell’idea stessa di interesse che in assenza di una chiara filosofia della storia finisce immancabilmente per risolversi nelle aspirazioni con cui di volta in volta le diverse aree della popolazione si identificano, facendo del popolo la facile preda delle lusinghe di chi vuole da lui legittimazione al proprio potere.

Tuttavia non è soltanto la condizione di marginalità sociale a motivare le decisioni che il popolo democraticamente assume contro il proprio interesse. Si è verificato spesso nella storia che ampie fasce della popolazione, socialmente integrate, stabili dal punto di vista economico e dotate di solide competenze professionali dimostrassero un’assoluta incapacità di giudizio politico, aderendo, come nel caso del nazismo, a progetti criminali dagli esiti tragici. Si tratta della ben conosciuta arendtiana “banalità del male”. Pazé propone a questo riguardo di utilizzare una categoria introdotta da Bonhoeffer, ovvero la categoria degli “stupidi”. Stupidi sono quanti, pur dotati di sufficienti strumenti culturali o intellettuali, né esclusi né emarginati, si rivelano totalmente incapaci di formulare giudizi politici o disinteressati a interrogarsi fino in fondo sulle conseguenze dei progetti a cui danno il loro assenso. Professionisti competenti, cittadini ben inseriti in una rete sociale e familiare, abili a perseguire i propri interessi, si allineano tuttavia facilmente a proposte politiche che accendono il loro immaginario e fanno appello al mondo delle emozioni, mostrando così l’insufficienza dell’impostazione illuminista nei confronti del problema del populismo. Il giudizio politico non è infatti soltanto frutto di elementi razionali che possono essere rinforzati tramite il miglioramento delle condizioni culturali della popolazione, ma coinvolge il mondo complesso dei bisogni e dei desideri che ha portato più volte nella storia i cittadini a diventare complici di progetti politici autoritari che si sono rivelati in definitiva contrari ai loro interessi.

Quali strumenti utilizzare allora per difendere la democrazia dai suoi stessi limiti? L’autrice discute quattro risposte presenti nel dibattito attuale. Innanzitutto la risposta del costituzionalismo che escludendo dal consenso popolare una serie di diritti li rende, proprio perché non oggetto di deliberazione ma al contrario indecidibili, garanzia della democraticità della vita politica. La complessità dei problemi sollevati dalla soluzione della democrazia protetta nonché la cogenza dei molti argomenti a suo favore sono resi da Pazé nel corso del quinto capitolo. In esso l’autrice evidenzia come da un lato l’esclusione dalla sfera delle libertà di alcuni comportamenti sia stata considerata necessaria dal pensiero liberale fin dalle sue origini, quando Locke ad esempio escludeva dal diritto alla tolleranza i cattolici proprio perché intolleranti e come il costituzionalismo novecentesco sia nato a partire dal rifiuto di un’idea totalizzante di democrazia e dal riconoscimento invece di un catalogo di diritti che sono appunto indisponibili perché non è facoltà nemmeno dei loro titolari di alienarli o trasferirli. D’altro canto Pazé articola ampiamente l’obiezione di quanti chiedono come si arrivi ad una definizione di tale catalogo dei diritti indisponibili se non per via democratica, ovvero perché in un determinato contesto storico, in seguito a specifiche esperienze politiche in un popolo si diffonde la consapevolezza dell’irrinunciabilità di alcuni diritti, com’è avvenuto ad esempio nel caso dei diritti umani.

Rimane comunque aperto il problema dell’educazione della cittadinanza. Anche in presenza di un meccanismo di garanzie costituzionali, osserva l’autrice, in assenza di cittadini educati alla partecipazione la democrazia stessa non può essere considerata davvero al sicuro. Si tratta del ruolo, da molti considerato fondamentale per la tenuta di una democrazia, della cosiddetta società civile, ovvero di quella parte di cittadinanza attiva e informata che attraverso la partecipazione ad associazioni, comitati, partiti, pur senza aspirare all’esercizio del potere, controlla, sollecita e sanziona il potere stesso. Ma, ci invita a riflettere Pazé, la migliore educazione alla partecipazione è dimostrato essere la partecipazione stessa. A partire da questa considerazione diventa allora di grande interesse seguire le analisi che l’autrice sviluppa di due forme “recenti” di esercizio di partecipazione politica, ovvero la democrazia deliberativa e la democrazia partecipativa. Con qualche evidente perplessità in più nei confronti della prima, Pazé illustra il meccanismo alla base di numerosi esperimenti quali giurie cittadine, sondaggi deliberativi, débats publics, processi di urbanistica partecipata. Se il punto di forza è qui evidentemente il coinvolgimento diretto di parte della popolazione nel meccanismo deliberativo altrimenti delegato ai rappresentanti politici, tale partecipazione risulta però nel giudizio dell’autrice viziata da un eccesso di tecnicismo e di artificiosità, tanto da farla apparire più una strategia di “ingegneria istituzionale” che non una risposta capace di produrre un reale cambiamento in termini di pratica partecipativa della cittadinanza. A partire dalle modalità di selezione a sorteggio dei partecipanti che spesso non permettono la costituzione di gruppi davvero rappresentativi del sentire reale della popolazione, le varie esperienze di democrazia deliberativa sembrano rimanere giustapposte alla vita civile anziché intersecarla e modificarla davvero. Accanto a questa perplessità, l’autrice insiste poi soprattutto sul sospetto che la democrazia deliberativa possa essere utilizzata in molti casi per ammantare di consenso popolare decisioni prese dall’alto e magari inizialmente osteggiate.

Torna allora centrale il tema dell’educazione che la partecipazione produce nei cittadini che partecipano, per cui la democrazia si impara facendola. In quest’ottica si chiude il libro con la descrizione e l’analisi dei complessi meccanismi del bilancio partecipativo attuato a partire dal 1989 nella municipalità di Porto Alegre in Brasile che hanno permesso ad una città inizialmente catalogata tra le più difficili per livelli di povertà, marginalità ed esclusione sociale di trasformarsi in pochi anni in una delle metropoli con il livello più basso di disuguaglianza tra i cittadini. Pur riconoscendone i limiti e soprattutto rendendo conto della degenerazione che tale processo ha subito dopo il 2004, l’autrice propone di considerarne alcuni aspetti interessanti proprio perché complessi, ovvero comprendenti al loro interno elementi afferenti a modelli diversi. Da un lato si profilano infatti nel bilancio partecipativo elementi di democrazia diretta che coinvolgono nella fase iniziale l’intera cittadinanza interessata, nell’indicazione delle voci di spesa a cui dare priorità nel bilancio municipale. D’altro canto esistono però anche elementi di delega e rappresentanza nonché regole e vincoli che garantiscono una proporzionalità nelle decisioni finali con lo scopo di superare la semplice competizione tra quartieri e di garantire un principio di bene comune. Ma ciò che nella lettura di Pazè pare più interessante è il cambiamento delle modalità partecipative che nel corso degli anni si è profilato proprio grazie alla partecipazione stessa. Poiché infatti esistono regole (anch’esse stabilite in parte democraticamente) che riconoscono priorità all’allocazione delle risorse su progetti a vantaggio di zone particolarmente disagiate, con la ripetizione della pratica partecipativa i diversi quartieri hanno mostrato la tendenza ad avanzare fin dalle prime fasi proposte di maggior interesse per l’intera collettività. Anche di questa risposta tuttavia l’autrice non nasconde i limiti. Esportato in Europa il modello della democrazia partecipativa ha prodotto risultati decisamente più deludenti almeno in termini di aumento della partecipazione e della consapevolezza dei cittadini coinvolti e d’altro canto anche a Porto Alegre la pratica per quanto ancora in vita appare sostanzialmente svuotata del suo significato originario. Eppure nel giudizio di Pazè, anche osservando molti altri piccoli esperimenti di partecipazione sparpagliati in varie parti d’Italia, questa può essere la direzione verso cui muoversi nel tentativo di risvegliare e rivivificare il desiderio dei cittadini di uscire dal proprio privato e fare della partecipazione una forma di resistenza all’edonismo dei consumi e alla politica-spettacolo. Un’analisi che oltre a fornire numerosi strumenti per leggere le diverse sfaccettature dell’attualità politica sollecita la speranza che in questa crisi uno spazio importante di rinnovamento della vita collettiva sia rappresentato dalle diverse forme con cui creativamente i cittadini provano a riprendersi le proprie responsabilità.