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Alberto Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali

 

 

 

 

 

Alberto Asor Rosa

Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali

a cura di Simonetta Fiori

 

 

Laterza, Roma-Bari 2009,
pp. 181, euro 12,00
codice ISBN 9788842089865

 

 

…il Novecento è il secolo in cui il potere degli intellettuali raggiunge il proprio culmine,
per poi essere combattuto in forme molteplici:
dalle dittature ma anche [...] dalle democrazie di massa.
A. Asor Rosa, Il grande silenzio, p. 25

 

Alberto Asor Rosa (classe 1933) ha attraversato più di mezzo secolo di storia italiana da comunista e da professore, oltre che da studioso di letteratura (alla Sapienza lo chiamavano il barone rosso: contestato nel ‘68 perché rifiutava la valutazione di gruppo non differenziata, non ha mai tenuto un corso uguale all’altro, preparando sempre accuratamente le sue lezioni – segno, questo, di rispetto per gli studenti): a partire dalla metafora del brontosauro, con cui descrive sia la sua volontaria fine di carriera nel 2003, sia l’estinzione dei dinosauri della cultura, dall’intervista rilasciata a Simonetta Fiori emerge l’autoritratto ironico e sincero di un intellettuale militante, ma non sempre organico e allineato, uno che ‘ha fatto scuola’ credendo in un approccio multidisciplinare all’oggetto letterario (chi scrive ha studiato sui suoi testi) e che, in nome della forza del proprio magistero, si dichiara visceralmente avverso ad ogni forma di pensiero debole.

Nelle dense pagine del libro che presentiamo, quest’orgoglioso figlio di un ferroviere socialista ripercorre i momenti più significativi del suo percorso umano, culturale e politico: dalle letture di formazione al rapporto coi maestri (in particolare Chabod e Sapegno), dall’amicizia con Mario Tronti alla rottura con Achille Occhetto dopo la svolta della Bolognina, dalla collaborazione a Contropiano alla direzione di Rinascita, dall’esperienza di Laboratorio politico agli articoli scritti per La Repubblica. Capace di riconoscere gli errori commessi, ad esempio obbedendo all’ordine di entrare in politica nel ’79 (eletto parlamentare del PCI a Roma, riuscì a far passare il Dpr 382, col quale si creavano i dipartimenti e si conferivano finanziamenti alla ricerca scientitifca; si dimise dopo qualche anno), Asor Rosa ha il pregio di modificare le proprie convinzioni senza rinunciare alla coerenza – come dimostra la sua odierna rivalutazione della completa autonomia dell’intellettuale rispetto ad ogni struttura partitica.

Accanto all’analisi di tale intimo (dis)assoggettamento nei confronti del partito comunista, il filo conduttore del suo ragionamento con la Fiori è costituito da una domanda che si staglia ormai ineludibile sullo sfondo della globalizzazione, vista come gigantesco processo di omogeneizzazione economico-sociale (cfr. p. 6): cos’ha provocato negli ultimi tre decenni, in Italia e non solo, la scomparsa degli intellettuali – peraltro già annunciata da Z. Bauman nel suo La decadenza degli intellettuali (trad. it. Boringhieri 1992) e da W. Lepenies in Ascesa e declino degli intellettuali (trad. it. Laterza 1998)? Quale cataclisma ha causato l’estinzione, appunto, dei maîtres à penser, che si accompagna alla fine della loro convinzione di poter incidere sulla storia – la quale a sua volta sembra non avere più un senso?

La risposta dell’autore della voce “intellettuali” dell’Enciclopedia Einaudi appare articolata su più livelli. Nella prima parte del volume, egli affronta genealogicamente il nesso tra la cultura specialistica, propria dell’intellighenzia europea, e la modernità: nata con i Lumi e la divisione del lavoro, la classe dei colti (per usare l’espressione di Prezzolini) mostra un paradossale legame con la borghesia, poiché nutre la sua indipendenza e la sua critica al potere con il reddito, dunque con la subordinazione all’economia capitalistica (cfr. pp. 26-30). Il ruolo innegabilmente rivoluzionario e/o impossibilmente ascetico degli intellettuali, il loro estremismo sociale e politico, la loro necessità di coniugare specialismo e generalismo (cfr. p. 13), vengono analizzati da Asor Rosa sulla scorta di una demitizzazione della loro organicità nazional-popolare (tesi già sostenuta nel 1964 in Scrittori e popolo, che dovette subire la stroncatura di Salinari, marxista ortodosso) sulla soglia del XX secolo, con l’ingresso delle masse sulla scena della storia: la demolizione di un certo populismo intellettuale (incarnato da Pratolini, Pasolini, Vittorini) si affianca al riconoscimento dell’impegno profuso dai nostri uomini di cultura a causa del ritardo dell’unificazione nazionale (si pensi a De Sanctis ministro dell’istruzione); la severa denuncia dell’appeasement mostrato da molti intellettuali italiani nei confronti del potere, la condanna morale della loro riluttanza a schierarsi, si accompagna al rispetto per coloro che si opposero al fascismo e parteciparono alla Resistenza.

Ma soprattutto, in una sorta di dialogo implicito col più illustre esponente della categoria, Antonio Gramsci, l’autore muove dalla dolorosa consapevolezza del rapporto divergente tra gli intellettuali e l’antropologia del nostro paese, e la usa come strumento per comprendere l’ambiguità del nesso politica-cultura che caratterizza la nostra storia recente.

 

La parte centrale dell’intervista (cfr. pp. 47-94) è infatti dedicata all’analisi retrospettiva del comunismo italiano, a partire dall’ammissione che, oggi, Asor Rosa non potrebbe riscrivere Scrittori e popolo: non c’è più il popolo e gli scrittori scarseggiano, come gli suggerisce la Fiori (cfr. p. 33), mentre la totale disgregazione della società letteraria (cfr. ibidem e p. 113) sancisce la fine del rapporto tra politica e cultura. A distanza di centocinquant’anni, possiamo parlare di fallimento dell’unificazione e di incompiutezza della costruzione dell’identità italiana: “l’impresa nazionale non si può ancora considerare realizzata” (p. 42), poiché la nostra, parafrasando il titolo del capolavoro di Griffith, è una ‘nazione non nata’, come l’autore ribadisce anche nella sua recente Storia europea della letteratura italiana (Einaudi 2009).

Secondo Asor Rosa, si tratta di una vera e propria catastrofe, che coincide con la fine dell’egemonia culturale espressa dalla sinistra italiana e dal PCI dagli anni cinquanta agli ottanta – un’egemonia il cui simbolo furono, appunto, i Quaderni di Gramsci, ma anche il grande fermento degli anni sessanta, la stagione del pensiero al potere caratterizzata, ad esempio, dall’esperienza del Gruppo 63, dall’operaismo di Tronti e dagli stessi lavori di Asor Rosa. Il quale, confermando il giudizio negativo sul terrorismo (che invece Umberto Eco diceva di voler capire, prima di poterlo giudicare), considera perciò il ’68 come un risultato o punto d’arrivo di questo fermento, e non come un punto di partenza (cfr. pp. 62-63): con un’evidente sopravvalutazione dei ‘sixty’, egli ritiene che quel periodo abbia cambiato per sempre i costumi degli italiani (cfr. p. 60), ma poi aggiunge, riconoscendo il superficiale “processo di laicizzazione della società italiana”: “il fatto che noi oggi siamo qui a difendere quella laicizzazione contro il degrado morale e intellettuale del berlusconismo e contro la reazione clericale è il segnale della nostra presente sciagura” (pp. 60-61).

Una simile sciagura rende necessario un’adeguato sforzo di comprensione di ciò che fu il partito di riferimento per quasi tutti coloro che facevano cultura in Italia: Asor Rosa, che (a differenza di Napolitano) ne uscì nel 1956 dopo i fatti di Budapest per rientrarvi solo nel ’72 con l’elezione a segretario di Enrico Berlinguer, riconosce che la struttura aveva dei difetti (tra cui appunto quello di essere un partito, con il suo apparato e la sua nomenclatura), ma che almeno c’era un ordine, un progetto – insomma, fino al ’68, la sinistra teneva.

I primi segni di crisi e di frammentazione (si pensi ai ‘gruppettari’ degli anni settanta, cfr. p. 65) andrebbero allora accostati all’alleanza mancata, nel nostro paese, tra Intellettuali e classe operaia (titolo di un importante libro di Asor Rosa del 1974, cfr. p. 29), ma soprattutto al fallimento del compromesso storico tentato da Berlinguer e considerato da Asor Rosa come l’“ultima grande invenzione politica italiana” (p. 66), ovvero come l’ultima forma di politica culturale espressa dal PCI (cfr. p. 67) prima della svolta costituita dal caso Moro nel ’78 e dalla morte dello stesso Berlinguer nell’‘84.

Lo sbandamento degli intellettuali che seguì a tali eventi rivela tutto il provincialismo politico, la debolezza sociale e istituzionale dell’Italia dei settanta rispetto ad altri paesi europei, e prepara l’avvento del craxismo, visto da Asor Rosa come nefasta macchina di potere caratterizzata da un pericoloso pressappochismo ideologico – ma l’esempio, da lui portato, dello sdoganamento di Proudhon da parte di Craxi, appare quasi nobile rispetto all’inconsistenza culturale delle attuali classi dirigenti, ed è per questo che riportiamo per intero il pesante giudizio sul riformismo dei socialisti craxiani, molti dei quali sono confluiti nel Pdl: “il riformismo è un’arte del governo delle cose; esso arretra la propria linea rinnovatrice fin quasi a scomparire. Alla fine il confine tra cultura moderata e cultura socialista risulta totalmente sfumato” (p. 79).

Secondo Asor Rosa, il craxismo coincide dunque con la fine dell’etica della comunità (cfr. p. 57) e la prevalenza di interessi individuali, particolaristici (nei termini di Guicciardini) in un ceto politico mediocre e autoreferenziale: con lo scollamento definitivo tra intellettuali e popolo, e la riduzione della politica a mera amministrazione della cosa pubblica. Il risultato fu una “mutazione morfogenica” e involutiva (come l’autore scrisse in un profetico articolo su Repubblica nel 1984), contro la quale si levarono inutilmente le voci d’allarme di Norberto Bobbio e Andrea Barbato, come dieci anni prima si era levata quella di Pier Paolo Pasolini; poi, il nulla: “la società italiana perse definitivamente la capacità di darsi un orientamento organico e positivo” (p. 80).

La fine della progettualità politico-culturale è stata per così dire portata a compimento dal crollo del comunismo tra l’‘89 e il ‘91: secondo Asor Rosa, la morte dell’ideologia è stata un bene rispetto all’autonomia degli intellettuali, ma un male per la disgregazione che ha comportato sul piano del nesso politica-cultura e per la totale scomparsa di un piano valoriale nell’esercizio del potere. Con un atteggiamento apparentemente assolutorio nei confronti degli intellettuali, che ormai rimangono del tutto inascoltati, ed ai quali si richiede di essere soltanto dei “commessi” (p. 81) di questo nuovo potere, egli attribuisce dunque la responsabilità della catastrofe soprattutto ai politici, ma così mette a nudo un difetto tipicamente italiano: l’auto-perpetuazione o auto-riproduzione del ceto politico, la sua mediocre clonazione (cfr. p. 83) – un fenomeno, che, riconosce, vale anche per gli intellettuali, e soprattutto per l’università (cfr. p. 84).

Ed ecco che la dispersione intellettuale degli anni ottanta, proseguita con la fine delle riviste, dei circoli, delle grandi case editrici nei decenni successivi (caso emblematico: l’Einaudi, cfr. p. 113) viene saldata da Asor Rosa alla famosa svolta voluta da Occhetto e alla frantumazione del PCI, all’incapacità di reagire alla fine del comunismo se non con un’“autocritica impietosa, puramente liquidatoria” (p. 90): con il suicidio politico degli anni novanta, quando, dopo Tangentopoli, c’era spazio per una rifondazione (su ciò cfr. un altro importante testo di Asor Rosa, La sinistra alla prova, Einaudi 1996).

 

Così l’intervista giunge all’analisi della situazione attuale, della “civiltà montante” (Calvino), in cui si tratta ormai di “governare la mediocrità” (p. 92) attraverso il suo specchio letterale, i media.

Nell’era mediatica, gli intellettuali sono ormai dei fossili, nel migliore dei casi dei sopravvissuti sostituiti o sedotti dalla televisione, che “è un grande [ma acefalo] intellettuale collettivo” (p. 95). Senza il filtro della scrittura, essa si rivolge anche all’analfabeta, e lo ‘mobilita’; in una società già segnata “da arretratezza culturale, da una debole identità nazionale e una congenita fragilità delle …classi dirigenti”, ciò equivale ad una sorta di coazione a ripetere: “L’Italia […] distrugge sistematicamente le proprie élites: sociali, politiche, culturali e persino produttive. Le minoranze intelligenti e attive sono sempre state cancellate dall’azione concorde delle maggioranze passive e di potere (finte élites più masse)” (p. 97). Gli esempi tratti dalla storia moderna e contemporanea potrebbero essere numerosi (penso soprattutto alla rivoluzione napoleana del 1799).

Ma oggi c’è un elemento di novità, che riguarda la struttura di tali masse: è cambiato il “paesaggio umano” (p. 98; il che rende la sociologia, a giudizio di chi scrive, la principale forma di comprensione critica dell’esistente). Con “l’avanzare sulla scena di una enorme e indistinta massa di persone, una moltitudine che viene dopo la fine dei grandi conflitti sociali otto-novecenteschi” (ibidem), ed in cui prevalgono “comportamenti sempre più omogenei”, con l’espandersi di questa marmellata proletaria, piccolo e medio-borghese, si assiste al curioso fenomeno per cui gli intellettuali di sinistra superstiti finiscono col sembrare dei conservatori, che cercano di “difendere ciò che muore” (p. 99): se stessi e un’idea progettuale di società. La conseguenza è l’esclusione sociale, la superfluità degli intellettuali, di cui la ‘cultura’ dei neobarbari non ha più alcun bisogno (su ciò cfr. P. Battista, Il partito degli intellettuali, Laterza 2001, e il più recente I conformisti. L’estinzione degli intellettuali d’Italia, Rizzoli 2010). Ma, più che essere il segno del disprezzo per la massa, la loro ‘arretratezza’ non è altro che l’avanzamento della “pestilenza” (Calvino) dell’ignoranza – non nel senso del venir meno dell’uso della parola, ma nel senso del livellamento dell’espressione scritta e parlata (‘registrata’, direbbe Maurizio Ferraris, che nel suo elogio della documentalità non coglie il paradosso per cui si scrive tanto, ma si scrive male): “Bisogna chiedersi se questa possibilità di comunicare universalmente abbia incrementato davvero la capacità di elaborare il pensiero […]. La macchina internettiana non ha dato ancora origine a una nuova cultura” (pp. 122-123), e la mente collettiva, il cosiddetto general intellect, appare pesantemente gravata da ciò che i linguisti (sempre più inascoltati) chiamano analfabetismo di ritorno: a causa di un’alfabetizzazione diffusa ma superficiale e acritica, la gente sa leggere ma non capisce ciò che legge, e quindi finisce col non leggere più (cfr. p. 102 e naturalmente gli studi di Tullio De Mauro).

Se appare un po’ datata la constatazione di Asor Rosa secondo cui la tv prende il posto della realtà, rende straordinariamente vero il falso (cfr. p. 110) e diventa l’unico criterio di esistenza sociale (si tratta di un sostanziale accordo con le tesi espresse da Baudrillard nel Delitto perfetto del ’95, nonostante l’apparente presa di distanza a p. 103), ci sembra più lucida la denuncia della museificazione della nostra tradizione culturale, unita alla capacità di comprendere che la trasformazione indotta dai nuovi media è molto più radicale di quella prodotta dal libro e incarnata dall’uomo tipografico di McLuhan. Prova ne sia che la letteratura ne viene investita in pieno: “la scrittura dei narratori ialiani più giovani appare plasmata da codici estranei, rubati dalla tv o dal computer. Ne scaturisce uno stile ‘volatile’ che non ha più rapporto con il patrimonio semantico della nostra lingua. La sudditanza ai nuovi media è evidente anche nei discorsi dei nostri politici” (p. 120; sempre per parafrasare Ferraris, lo scripta manent equivale ormai al verba volant).

È in questo contesto che nasce e cresce il berlusconismo, ed Asor Rosa, che non conosce mezze misure, lo mette a fuoco per ciò che è: “il punto più basso nella storia d’Italia dall’Unità a oggi” (p. 126); “Berlusconi non è che il prodotto finale e consequenziale di una lunga decadenza – l’involuzione del sistema liberaldemocratico – cui nessuno per trent’anni ha saputo offrire uno sbocco politico-istituzionale in positivo” (p. 127). Berlusconi gli appare come un figlio naturale di Craxi e dell’“affarismo democristiano dell’ultima stagione” (ibidem: si tratta del CAF), cioè come il prodotto peggiore della cosiddetta Prima Repubblica, da cui ha falsamente preso le distanze.

In quanto forma di regressione, l’autore considera il berlusconismo più del fascismo, come ha scritto in un articolo del 2008 sul Manifesto, e come ha sostanzialmente ribadito sullo stesso giornale il 13 aprile scorso, profilando la possibilità paradossale di proclamare una sorta di stato d’eccezione, con un congelamento ‘militare’ delle Camere e un ‘commissariamento’ dell’esecutivo, insomma una sospensione della democrazia procedurale ormai internamente incancrenita dal populismo affaristico del cavaliere; il quale, in quanto peggiore piuttosto che emulo di un’ideologia che almeno integrava nella sua struttura il valore della coscienza nazionale, rappresenta il trionfo dell’anti-intellettualismo come tabula rasa. Nella sua svalutazione del ’68, ma anche ovviamente del Risorgimento e della Resistenza, Berlusconi non ha nessun passato: “della tradizione italiana non gliene importa puramente e semplicemente nulla: ne fa a meno” (p. 129), ma di ciò approfittano le nicchie di fascismo presenti nel sottobosco della nostra cultura, alimentando ad esempio la cancellazione neorevisionistica della differenza morale tra partigiani e repubblichini.

In ciò Berlusconi è certo aiutato dalla “dabbenaggine” dei suoi avversari politici, il cui “riformismo oggi fa pena, quando non fa schifo” (p. 62): con un giudizio tranchant, Asor Rosa si riferisce al Pd, nel quale a suo avviso “non c’è più nessuna discussione di tipo culturale” (p. 93). La sinistra italiana non solo non fa i conti col proprio passato, ma considera Berlusconi un avversario alla pari (ed è questo l’errore più grande), perché si è essa stessa mediocrizzata: “si preferisce l’appiattimento sul presente, mostrando una sostanziale subalternità al ‘nuovismo’ inventato da Berlusconi” (p. 138), col quale invece non si può e non si deve invocare il dialogo (cfr. p. 137).

Ma ad accrescere inopinatamente l’immagine politica di Berlusconi è stata soprattutto la costituzione sociale della nuova massa: “tra la massa italiana ‘post-popolare’ e ‘post-operaia’ e l’imprenditore Berlusconi si è stabilita un’intesa, un’intesa genetica e antropologica che sarà difficile rimuovere” (pp. 132-133), perché è visceralmente ‘contro’ gli intellettuali, contro ogni forma di cultura: “accondiscendendo ai peggiori istinti delle masse, [Berlusconi] li gestisce e li rafforza; rafforzando i peggiori istinti delle masse, rafforza se stesso, rafforza la negazione di ogni intelligenza e di ogni cultura” (p. 139); “La cancellazione di qualsiasi ipotesi culturale è la sua unica ipotesi culturale” (p. 141).

 

Secondo Asor Rosa, vi sarebbero tuttavia nel nostro paese ‘zone di resistenza’ molto forti da cui ripartire: la scuola e l’università. Nonostante appaiano anch’esse mediocrizzate (è lo stesso Asor Rosa a deprecare la licealizzazione dell’università inaugurata dalla riforma Berlinguer, a cui aggiungerei il sistema dei crediti e la sanatoria dei corsi abilitanti per la formazione dei docenti di scuola superiore), quindi nonostante il parziale fallimento dell’istruzione di massa, a suo giudizio la scuola (come la magistratura) ‘tiene’ rispetto al berlusconismo, gli resta impermeabile, ed è per questo che Berlusconi la vuole distruggere (cfr. p. 147); in effetti, se la scuola è sotto attacco diretto, l’università viene tanto più corteggiata nella sua parte baronale quanto più viene precarizzata la fascia dei ricercatori. Ecco perchè quando la Fiori chiede: “L’università è redimibile?”, la risposta di Asor Rosa arriva lapidaria: “è come chiedersi se l’Italia sia redimibile” (p. 156); la tempra dei docenti universitari, a suo giudizio, non è quella dei magistrati o degli insegnanti di scuola primaria e secondaria (cfr. p. 157); costoro, trovandosi per così dire in prima linea, hanno inoltre un rapporto con la realtà che di solito manca agli universitari.

In una prospettiva radicalmente pedagogica, diremo allora che la scuola e l’università non sono gli unici luoghi del possibile cambiamento, proprio nella misura in cui questo non potrà più essere compiuto da grandi maîtres à penser, ma dovrà essere avviato da molti centri di cultura diffusi su tutto il territorio nazionale. Occorrono “altre forme di pedagogia collettiva” (p. 101), e tuttavia resta vero, in un certo senso, che la scuola è l’ultima frontiera (cfr. p. 147) rispetto alla famiglia, perché, dal punto di vista sociologico, la famiglia è massa – ed è per questo che Berlusconi la invoca continuamente dal suo pulpito mediatico.

Nella misura in cui la pedagogia assume una valenza politica, bisogna lavorare pazientemente per il cambiamento che dovranno realizzare le giovani generazioni – impresa titanica, ma secondo Asor Rosa bisogna provarci, altrimenti non riusciremo a riveder le stelle: “non può scomparire il pensiero forte che è connaturato alla storia occidentale” (p. 166), l’esercizio critico dell’intelligenza. Da tale punto di vista, ci sembra significativo l’elogio finale di Obama, che “parla come un professore, non come un politicante” (p. 166): è proprio per questo che gli americani potrebbero voltargli le spalle.

 

 

 

Indice del volume:

Premessa (di Simonetta Fiori)

L’estinzione

Nascita e tramonto di una tribù inquieta

Politica e cultura

La sinistra tra egemonia e catastrofe

La “civiltà montante”

L’evo berlusconiano

Scuola e università: la nuova resistenza

“A ognuno puzza questo barbaro dominio”

Nota bibliografica

Indice dei nomi