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Poesia critica e dittatura dell’ignoranza:
il percorso di Giancarlo Majorino

 

 

 

L’amore è la capacità di avvertire il simile nel dissimile.
Theodor W. Adorno, Minima moralia 122

 

Invitato da una professoressa di Varese, nell’autunno del 2002 Giancarlo Majorino trascorre una mattinata con i ragazzi di una classe liceale parlando della poesia, del suo valore etico-estetico, del rapporto tra l’uomo che fa poesia e la realtà, della possibilità che la poesia offre al poeta di coltivare l’unità interiore e di suscitare nel lettore interpretazioni emozioni domande, anche in una società come la nostra, il cui regime è definito dallo stesso Majorino “dittatura dell’ignoranza”. Si dirà che il poeta esagera, ma per inquadrare con immediatezza il referente, il significato concreto di questa definizione, dittatura dell’ignoranza, che potrebbe essere facilmente ridotta al valore retorico di un’iperbole o di un paradosso, è sufficiente leggere l’impressione di uno degli allievi che la professoressa di quella classe riporta, assieme ad altre certo meno apocalittiche, nella lettera di ringraziamento a Majorino, l’impressione di un ragazzo di nome Nicola, il quale, con scioltezza espressiva, scrive: «Appena la nostra prof. Colonna ci ha detto che avremmo incontrato un poeta, io non ci credevo, seriamente. Lo giuro. Non mi è mai passato per la testa che esistessero ancora i poeti. Pensavo che fossero tutti morti».1


Giancarlo Majorino, poeta, critico letterario, figura insigne della nostra letteratura, nasce a Milano nel 1928 e cresce in un clima familiare stimolante: il padre è un matematico che tenta invano la carriera imprenditoriale, la madre è autrice di romanzi e novelle sentimentali per Rizzoli. Nel 1950 incontra Enrica Villain, la compagna di una vita. Dopo svariate attività lavorative e la laurea in giurisprudenza, dal 1956 lavora in banca, ma in quegli anni è importante l’amicizia intellettuale col filosofo Luciano Amodio e lo psicanalista Elvio Fachinelli, con cui condivide un orientamento critico marxista indipendente dalla sinistra ufficiale. Nel 1959 l’esordio col poemetto La capitale del nord, segnalato da Fortini a Pasolini, e nel ’63 alcune poesie sotto il titolo La miopia pubblicate sul “Menabò” di Vittorini danno l’abbrivo alla sua opera. Nello stesso anno vince il concorso in filosofia e poco dopo inizia a insegnare storia e filosofia nei licei statali, attività proseguita fino al 1982. Dal ’90 ha insegnato estetica, semiotica e analisi della scrittura alla Nuova accademia delle belle arti di Milano. Col suo ultimo libro, La dittatura dell’ignoranza2, Majorino esplicita, nella misura icastica e corrosiva del pamphlet, con un linguaggio analitico ed evocativo insieme, l’immanenza di questa nuova forma di dittatura, manifesta più o meno ovunque nell’occidente globalizzato, ma particolarmente evidente in Italia. Riguardo alla situazione italiana, infatti, tale dittatura, già intrinseca a quella società dei consumi avviatasi a metà anni cinquanta e consolidatasi progressivamente nella sua identità neocapitalistica, al prezzo anche di quel “genocidio culturale” di marxiana memoria denunciato da Pasolini a metà anni settanta3, esprime ormai, da almeno tre decenni a questa parte, con sempre maggiore evidenza la sua volgarità totalitaria. Che un poeta affronti in prosa e in modo spregiudicato il tema della realtà socioculturale può sorprendere solo chi non abbia presente il percorso di Majorino e il contesto in cui la sua poesia si è formata. Scopo di questo contributo è quindi quello di una ricostruzione complessiva, sebbene sommaria, di tale percorso, che osservi l’orizzonte intellettuale dell’autore, il rapporto tra la realtà storico culturale e l’identità geografico letteraria della sua opera, i tratti essenziali dei suoi testi poetici e critici; una ricostruzione che, mostrando in trasparenza il mutamento della società italiana dal dopoguerra a oggi, si concluderà proprio col pamphlet La dittatura dell’ignoranza. Prima d’inquadrare le coordinate storico culturali e geografico letterarie relative alla formazione e all’opera di Majorino, cominciamo dunque osservando il suo orizzonte intellettuale, al fine di sottolinearne l’orientamento di fondo e la costante attenzione al pensiero filosofico.

L’urgenza di una cultura critica fatta di riflessione e analisi della contemporaneità è parte sostanziale del pensiero di Majorino, tra i cui maestri dichiarati, oltre Dante, Baudelaire e Kafka, c’è Marx. Nel suo orizzonte intellettuale, sebbene sia possibile riscontrare evidenti tracce di esistenzialismo, su cui torneremo tra poco, la dominante filosofica è il materialismo storico di matrice italiana e, più ancora, nella consapevolezza dell’esito fallimentare della prassi marxista, il neomarxismo critico: in pratica, Gramsci e la scuola di Francoforte di Horkheimer, Adorno e Marcuse. Al di là di un più o meno esplicito apprezzamento per la linea storico umanistica tipica del marxismo italiano e per la rivalutazione della realtà e delle idee, delle sovrastrutture, intrinseca all’analisi gramsciana, si nota infatti, nello sguardo di Majorino, una certa attenzione per i francofortesi: «un trio catapul-tante ipotesi di acuminato spostamento, miscele di scatti immaginativi e libere articolazioni del pensiero, letture anticonformiste di capillare fenomenologia quotidiana»4, che con il loro progetto interdisciplinare d’indagine filosofico sociale, attuato mediante la teoria critica della società, espressero già durante gli anni della guerra il rifiuto dello statalismo assoluto del modello russo e la critica della società industriale avanzata americana, influenzando notevolmente negli anni sessanta-settanta – gli anni del primo periodo di attività del poeta – la nuova sinistra europea e statunitense. Da questo orientamento filosofico Majorino rileva la consapevolezza della connessione tra grandi eventi collettivi e vicende quotidiane personali, quindi la necessità della socializzazione critica della conoscenza quale elemento chiave per una cultura “intellettuale e morale”, così come chiedeva la prassi gramsciana, innervata però da una criticità utopica di tipo francofortese, tutta tesa alla trasformazione della realtà. Vedremo infatti come Majorino, in sede critico letteraria, abbia inserito la sua scrittura poetica all’interno di una categoria inedita eppure storicamente determinata, da lui stesso definita “poesia critica”. Una categoria che nel caso di Majorino si esplica, in modo analogo alla teoria critica francofortese, in una poesia intesa quale espressione e rappresentazione sociopolitica del destino degli uomini, la cui dimensione utopica, invece che nel vagheggiamento astratto d’un mondo ideale, sta tutta nella tensione al mutamento derivante dalla presenza critica del poeta nel proprio tempo, nelle sue sofferenze e ingiustizie; un’utopia quindi negativa, che non definisce il bene ma denuncia il male, e trova proprio nello sperimentalismo la possibilità di dare voce alla radicale discrasia della società contemporanea. La principale confluenza dello sguardo intellettuale di Majorino col pensiero neomarxista sta dunque, a mio avviso, nella consapevolezza della negatività del modello neocapitalistico e del suo meccanismo tecnologico-totalitario; cioè nel rifiuto della dominante logica dello scambio, che produce un’adesione acritica dell’individuo alla società, trasformando la società stessa in un sistema totalitario, e a seguire nella valorizzazione dello scarto tra razionale e reale, tra linguaggio e realtà, tra simile e dissimile, sperando quindi in una loro ri-conciliazione, che però si configura come un processo aperto e mai concluso. Speranza che però resiste nell’istanza critica e negativa della filosofia, così come dell’arte sperimentale, per quanto soggetta anche quest’ultima allo scetticismo dell’artista e alla pressione mercificante dell’industria culturale. Tra i vari segnali di matrice critico marxista disseminati nell’opera poetica di Majorino, spicca una costante osservazione del ceto medio e la valutazione della possibilità ad esso inerente di operare un mutamento della realtà, possibilità che in certo senso ricorda, più che il concetto gramsciano di egemonia culturale sotteso alla valorizzazione del momento sovrastrutturale e alla formazione di un’intellettualità organica, l’analisi – posteriore ai primi lavori di Majorino – dell’ultimo Marcuse (Controrivoluzione e rivolta, 1973), dove si vede anche nella classe media e nel suo assoggettamento alla logica produttiva capitalistica, logica che l’aveva separata sempre più dal controllo dei mezzi di produzione, un nuovo potenziale soggetto rivoluzionario, che sarebbe dovuto essere organizzato e guidato dalla nuova sinistra al fine di costituire “contro-istituzioni” e “contro-quadri” interni al sistema – sebbene in Italia a fine anni settanta la realtà storica abbia poi sancito il fallimento e della sinistra ufficiale e della nuova sinistra extraparlamentare. Le delusioni relative alla cultura marxista non sono dunque mancate. Fedele al suo orientamento, Majorino non ha mai smesso di fare i conti con una realtà in cui, ad esempio, non c’è stata alcuna socializzazione critica della conoscenza. Al suo sguardo infatti, mentre risulta ormai impossibile penetrare i vari campi del sapere, troppo vasti e speciali, diventa allo stesso tempo sempre più difficile inquadrarne anche una semplice informazione, in quanto la divulgazione è generica e inadeguata; la società, invece di mettere la conoscenza al centro, ha prodotto una radicale perifericità della cultura grazie alla separazione progressiva tra i detentori del sapere, ossia la cultura alta, corporativa e gergale, e la maggioranza delle persone, soggetta invece alla pseudo cultura dei mass media. Un’altra delusione riscontrabile nello sguardo di Majorino riguarda proprio il ceto medio, il quale, invece di veicolare l’istanza sociale della modificazione della realtà attraverso la programmazione politica dei ceti dirigenti, si è lasciata incanalare nel flusso della modernizzazione capitalistica, omologandosi al modello imposto senza opporre resistenza.

Le delusioni della realtà introducono al secondo elemento filosofico inerente al pensiero di Majorino, l’esistenzialismo, con particolare riferimento a Kierkegaard e Heidegger. Il rapporto uomo-mondo come costitutivo dell’esistenza, cioè la struttura relazionale che lega l’esistenza al mondo e agli altri, nonché la nozione di possibilità intrinseca all’esistenza stessa, che in quanto tale esclude la garanzia di un esito necessariamente positivo di tale rapporto, evidenziando invece la problematicità inerente alla condizione umana, sono infatti elementi ben presenti allo sguardo del poeta. Un esempio di tale consapevolezza esistenziale è riscontrabile in alcuni ricorrenti concetti – o, secondo un neologismo di Majorino, “concetticona”, concetti cioè che non si limitano ad argomentare ma sanno anche mostrare –, quali ad esempio i tre seguenti: “l’unica vita”, ossia la centralità dell’esser-ci, la capacità di valorizzare ogni momento della vita in quanto unico; “singolo-di-molti”, ossia la consapevolezza che ciascuno si forma ininterrottamente attraverso gli altri; “vitetta”, ossia l’assorbimento acritico dei modelli di riferimento dettati dalla società che possiamo intendere come ignoranza, o “esistenza anonima”, poiché la quantità di vitette presenti nella società è proporzionale alla qualità di quel particolare regime che viene appunto definito dittatura dell’ignoranza. È da notare però che nel loro insieme questi tre concetti non si limitano, in modo coerente con l’orizzonte heideggeriano di riferimento, a indicare un duplice sbocco della possibilità esistenziale (unica vita), cioè la coesistenza autentica (singolo di molti) – in quanto l’esistenza è in se stessa apertura al mondo e agli altri (Essere e tempo, § 26) – e l’esistenza inautentica (vitetta); ma tendono anche a mediare una concezione realmente aperta, kierkeergardiana della possibilità. Così come traspare dal pensiero di Majorino, la mediazione del concetto di possibilità, costitutivo dell’esistenza, concede infatti, almeno in teoria, la possibilità che l’esistenza del singolo, l’unica vita, trovi la sua autentica coesistenza, ossia la coscienza di essere un singolo-di-molti. Ciò non significa certo che il concetto di esistenza autentica tipicamente heideggeriano, la coscienza di “essere-per-la-morte”, la condizione mortale dell’uomo, venga da Majorino messo da parte, anzi la provvisorietà della condizione umana è un tema lucidamente affrontato nelle sue opere; significa invece che il concetto di coesistenza, l’aspetto relazionale dell’esistenza, viene sottolineato con vigore. In Majorino l’esito dell’influenza esistenzialista, la coesistenza autentica intesa come singolo-di-molti, potrebbe essere anche meglio compreso se si osservasse il vario contesto delle risultanti concettuali relative al dibattito filosofico italiano sull’esistenzialismo di area tedesca avvenuto, con atteggiamenti differenti e contrapposti, tra fine anni trenta e inizio anni quaranta tramite autori quali Banfi, Paci, Abbagnano, Della Volpe, Luporini, Pareyson, dibattito tematizzato in particolare su “Primato” nel 1943. Quel dibattito infatti – i cui aspetti maggiori vedevano, da un lato il razionalismo critico di Banfi mirante a una sistematica aperta del pensiero, sciolta dalle maglie di una metafisica dogmatica, dall’altro l’esistenzialismo positivo di Abbagnano che, chiarendo la centralità dell’esperienza esistenziale, provava a liberarne la problematicità da ogni connotazione di necessità – dall’immediato dopoguerra in avanti s’intreccia a quello scaturito dalla ricomparsa sulla scena politico filosofica del marxismo e al proseguimento nell’area laica o neoilluminista della riflessione sull’esistenzialismo, trovando, tra i vari, un esito a mio avviso vicino al pensiero di Majorino nel relazionismo di Paci, il quale a metà anni cinquanta tematizza l’uomo come centro di relazioni (singolo-di-molti?). Certo, è solo un’ipotesi di lettura. Ciò che si vuole sottolineare è l’intreccio tematico tra marxismo ed esistenzialismo nel dibattito filosofico degli anni quaranta-cinquanta e una comune considerazione dell’esistenzialismo, di matrice anche francese stavolta, quale espressione speculativa aderente alla distruzione materiale e spirituale causata dalla guerra, la cui influenza nell’immediato dopoguerra ricade inevitabilmente anche nel campo letterario: «Nessun poeta – annota lo stesso Majorino – può, dirimpetto il proprio esserci e il proprio stile, non riflettere in qualche modo certe tonalità esistenziali lì assorbite e da lì ininterrottamente insorgenti. “Centralità della vita” e “comunanza” potrebbero essere i nomi dell’emergere, generatore di trasalimenti sino allora sconosciuti nel loro respirare insieme»5. Altri elementi concettuali relativi al pensiero di Majorino che, mentre riflettono la fiducia nelle possibilità della cultura, nel valore della criticità, ne mostrano anche la problematicità, sono la libertà come possibilità di essere in solitudine e comunanza, e la società – la città, le strade di Milano – come possibilità d’incontro. Da notare, poi, che l’immaginazione è per Majorino la facoltà di generare e riconoscere le possibilità; per il poeta, cultura critica significa infatti, non solo la messa a fuoco del valore estetico oltre che etico della politica, così come del valore etico oltre che estetico della poesia, ma anche la simmetria di valore tra il ragionare e l’esprimere, due modi della profondità la cui mancanza contribuisce, tra l’altro, a trasformare l’unica vita in vitetta.

In Majorino abbiamo dunque un singolare intreccio tra marxismo ed esistenzialismo, due pensieri che difendono il singolo integrandolo nel suo radicale rapporto col mondo e con gli altri. Questa duplice influenza filosofica nel suo orizzonte intellettuale agisce forse in modo originale, in quanto il poeta sembra mettere insieme l’interpretazione positiva di un pensiero pessimista, cioè il modello fortemente relazionale dell’esistenzialismo, con l’interpretazione negativa di un pensiero ottimista, cioè il modello radicalmente utopico del marxismo. Alla fine del nostro percorso vedremo come questa complessa matrice filosofica nel pensiero di Majorino assuma la fisionomia di una vera e propria dialettica, per il momento ricordiamo solo che la consapevolezza filosofica del poeta è nutrita anche dall’insegnamento ventennale della materia nei licei, lavoro sempre vissuto dal nostro come stimolo all’ardore conoscitivo, come possibilità cioè di trasmettere ai ragazzi il valore della cultura, la coscienza storica che rende possibile l’arricchimento, lo spessore interiore, e al contempo come occasione per l’insegnante di continuare a studiare e conoscere, di essere meno in balìa della coazione omologante della società. Passione per la filosofia e passione per l’insegnamento muovono in Majorino un autentico interesse per l’altro, un interesse esistenziale e materiale sintetizzato da una battuta ai suoi allievi riferita in un’intervista, quando un giorno, entrando in classe, il poeta disse: «Oggi avete una fortuna schifosa. Facciamo Spinoza per due ore. Non vi capiterà più, perché da adulti, se non vi succederà di stare a lungo in ospedale o in una cella, non è facile che ci si metta a studiare un filosofo».6

 

Osserviamo, ora, il rapporto tra la realtà storico culturale e l’identità geografico letteraria dell’opera di Majorino, nonché i tratti essenziali dei suoi testi poetici e critici, dividendo il percorso in due tempi, la cui cesura, per ragioni di ordine storico letterario, cadrà a metà anni settanta. Giancarlo Majorino, nato come si è detto a Milano nel 1928, rientra infatti nell’ultimo scorcio dell’eterogenea ed ampia generazione poetica del ’45, cioè di quei poeti che, nati tra il ’20 e il ’28, trovano il loro tempo di formazione e di esordio letterario, in misura notevolmente scaglionata, dai primi anni del dopoguerra fino a metà anni settanta, i cui nomi più importanti sono Zanzotto (1921), Pasolini (1922), Giudici (1924), Pagliarani (1927). È una generazione poetica contestuale a un periodo storico lungo e complesso, 1945-1975, che in Italia, nell’arco della più generale parabola relativa al rapporto tra cultura e politica, vede nel campo poetico prima formarsi poi consumarsi il nesso critico tra poesia e realtà.

A metà novecento la poesia italiana ha ormai esaurito il percorso della poesia pura, ermetica, autonoma nel senso proprio del termine, il cui culmine si era avuto nei tardi anni trenta; l’istituto del codice lirico, sebbene arricchito di risvolti realistici nei lirici maggiori come Ungaretti, Saba, Montale, nel suo sostanziale “monostilismo” analogico ed estetizzante aveva allora sancito la rottura del rapporto tra poesia e realtà. Nell’immediato dopoguerra inevitabilmente si apre, o meglio si riapre la strada dell’impegno, in letteratura come nella cultura in genere, sebbene tale riapertura riguardi in prima istanza la narrativa e l’intellettualità marxista. Il fatto che il nuovo impegno politico culturale sia affrontato, prima che dai poeti, da narratori e politici intellettuali di sinistra, è determinato da molteplici fattori. Per i narratori c’è, da un lato una tradizione d’impegno, per quanto articolata e contraddittoria, risalente agli anni trenta, espressa soprattutto dal “fascismo di sinistra” toscano, cioè da scrittori quali Vittorini, Pratolini, Bilenchi, la cui prospettiva era quella di una letteratura sì autonoma rispetto allo specifico della politica, ma concorrenziale ad essa nella trasformazione della realtà, quindi contrapposta alla dominante prospettiva lirica, formale, ermetica, che pure negli anni del conflitto 1939-43, tra la Letteratura come vita di Bo e il Coraggio della concordia di Bottai, aveva visto trionfare il concetto di autonomia nel senso puro, disimpegnato del termine7; dall’altro la condizione storica di miseria e distruzione, che a guerra finita enfatizza il linguaggio cronachistico e parlato della narrativa neorealista o sollecita i percorsi più importanti e singolari di Moravia, C. Levi, Pavese. Riguardo agli intellettuali politici di sinistra, da un lato, in modo analogo ai narratori, una tradizione d’impegno portato avanti nei primi anni quaranta da critici letterari già comunisti quali Salinari, Alicata, Trombatore, che saranno poi dirigenti del partito; dall’altro, la ricomparsa a fine guerra del marxismo nel dibattito politico filosofico e la conseguente necessità storica di costruire un’egemonia culturale da parte del Pci. Nell’immediato dopoguerra l’impegno degli intellettuali, letterati e politici, provoca tuttavia contrapposizioni interne alla sinistra, come dimostra il breve corso del “Politecnico” (1945-47), il cui progetto interdisciplinare e cosmopolita per una nuova cultura, legata ai problemi e alle sofferenze della società, risulta essere un esperimento, non solo troppo audace, ma sostanzialmente inaccettabile per il gruppo dirigente comunista, il quale, tra rottura dell’unità resistenziale antifascista e guerra fredda incipiente, e con un concetto della letteratura del tutto subordinato a quello della politica, di fronte alla possibile autonomia di un potere politico culturale di ordine letterario impone invece l’urgenza di una cultura organica. In tal senso, nel successivo periodo iniziale della guerra fredda, che vede l’estromissione delle sinistre dal governo e l’inizio della restaurazione democristiana, nell’area marxista guidata da Togliatti inizia “l’operazione Gramsci”, con la pubblicazione delle Lettere dal carcere nel 1947 e l’edizione tematica in 6 volumi dei Quaderni dal 1948 al 1951, mirante all’individuazione di una linea marxista italiana in termini di storicismo umanistico, da affiancare a quella ufficiale sovietica, dentro però un dogmatismo politico culturale, compresa una certa deriva ždanoviana, che, inquadrando l’impegno letterario nelle coordinate del nazional-popolare e del realismo ideologico, durerà sempre meno ascoltato fino al ’56, quando si registra il fallimento della politica culturale del Pci e la frattura netta fra scrittori e politici.

Tra immediato dopoguerra e inizio anni cinquanta le prime prove della nuova, quarta generazione poetica registrano invece, tranne poche e parziali eccezioni, ancora una sostanziale aderenza al canone novecentista, sebbene anche per la poesia non sia mancata una sottile ma importante linea oppositiva, riconducibile all’attività critica di Anceschi tra anni quaranta e cinquanta, la cui formazione è legata alla scuola di Banfi nella Milano degli anni trenta.

Al di là di una tradizione d’impegno poetico in ambiente milanese risalente a fine ottocento, per lo sviluppo del nuovo rapporto critico tra poesia e realtà attuatosi nel secondo novecento nello spazio geografico letterario dell’area lombarda, la zona poetica in cui s’inserirà l’opera di Majorino, è infatti importante la vitalità culturale e interdisciplinare milanese degli anni trenta-quaranta, la quale comprende, oltre alla presenza di tanti intellettuali letterati artisti, riuniti ad esempio nella cultura europea del razionalismo architettonico di “Casabella” o nella cultura politica rivolta alla critica del fascismo e all’ascolto della modernità di “Corrente”, anche e soprattutto, fin dal ’31, la presenza universitaria di Banfi, il cui razionalismo critico, aperto al più attivo pensiero europeo, produce una fenomenologia antidogmatica che aiuterà a ordinare e correlare le diverse forme della cultura contemporanea. Alla scuola di Banfi, che tra l’altro insegna l’arte come interrogazione inerente alla dimensione storica quale orientamento critico ed emancipatorio, si forma Anceschi, il cui primo lavoro è intitolato Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936), centrato sul problema, tipico dell’epoca, di una definizione autonoma dell’arte, che, come si è detto, in ambiente ermetico vede dominare, vista l’ideologia totalitaria fascista, il concetto di autonomia pura, disimpegnata della poesia. In questo primo periodo Anceschi, catalizza sì l’attenzione sul versante dell’autonomia, quindi sul carattere formale, prezioso e geometrizzante della poesia, tralasciandone il carattere conoscitivo, anch’esso tuttavia derivabile dall’insegnamento banfiano – sintomatica in tal senso la curatela dei Lirici greci di Quasimodo (1940), dove l’interpretazione lirica, pura, in sé conchiusa della poesia sembra effettivamente schiacciarsi sul codice analogico ed evocativo dell’ ermetismo8 –, ma lo fa attraverso un’indagine tutt’altro che astratta e separata dalla realtà, basata invece sull’osservazione delle cose in rapporto alla situazione in cui esse e gli uomini stessi vivono, cioè con uno sguardo fenomenologico mirante a una ratio riscontrabile solo alla fine della ricerca, traducendo così l’insegnamento di Banfi in metodo critico ed evitando in qualche modo la ricaduta nel concetto ermetico, difensivo e autogiustificatorio, dell’autonomia pura9. Per Anceschi, infatti, l’arte trova la sua autonomia, non in un’astratta purezza, ma nel segno infinitamente riproposto della sua eteronomia, dei suoi rapporti con gli altri ambiti della realtà. Più coerente con la sua formazione teorica è la curatela dei Lirici nuovi (1943), dove Anceschi, per quanto orientato a selezionare un’espressione elegante e adamantina, capace di ridurre gli oggetti a una dimensione immaginifica e mitica – ma senza raggiungere la vertigine metafisica tipica degli ermetici puri –, alle poesie affianca testi di poetica, traduzioni e scritti critici, in modo da evidenziare la fenomenologia dell’esperienza poetica mediante la relazione processuale di momenti diversi e complementari, quali appunto la poesia, la poetica, la traduzione, la critica, riuscendo insomma a legare e contestualizzare storicamente teoria e prassi della poesia. È quindi un ermetismo eterodosso, quello dei “lirici nuovi” selezionati da Anceschi – significativa la presenza del giovane Sereni, anch’egli allievo di Banfi e già periferico rispetto all’ermetismo fiorentino con la sua tensione a nominare poeticamente le cose –, che mentre evidenzia la complessità storico relazionale del testo poetico e rivolge l’attenzione agli oggetti, non può non caratterizzare la poesia ancora in termini di lirismo e autonomia espressiva. In una Milano che ha riconquistato la sua centralità culturale e ha stabilizzato la sua egemonia socioeconomica, in ragione della presenza, sia di un forte capitale privato, che catalizza l’immigrazione operaia dal meridione, sia di molti importanti giornali, periodici e case editrici, che vanno a costituire la rete maggiore della nuova industria editoriale, circa dieci anni dopo i Lirici nuovi, nel 1952, appare Linea lombarda, antologia curata sempre da Anceschi, comprendente oltre a Sereni, che appartiene alla generazione precedente, cinque poeti della generazione del ’45 (Risi, Erba, Orelli, Roberto Rebora, Modesti), dove la soluzione stilistico espressiva mostra una tensione alla “poesia in re”, ossia il tentativo, la cui ascendenza immediata è eliotiana e montaliana ma risale fino a Manzoni e Parini, di dare corpo agli oggetti e alle immagini, riscoperti anche nella loro funzionalità ironica o parodica; per Anceschi si tratta di una particolare disposizione “lombarda” della “lirica nuova” volta al recupero del rapporto tra poesia e realtà, recupero attuato senza, né abbandonare l’espressività ermetica, per non ricadere nella cifra contenutistica del neorealismo, né aderire alla liricità sublimante e astrattiva dell’ermetismo puro10. La novità dell’antologia sta quindi in una connotazione geografico letteraria dell’ermetismo eterodosso e lo stesso Anceschi, più che le caratteristiche estetiche, sottolinea la presenza di nuove voci poetiche – anche Sereni, ormai capogruppo riconosciuto, è ancora rivolto alle ragioni espressive, non a quelle ideologiche, a cui approderà successivamente. Malgrado la relativa novità della Linea lombarda, con l’antologia curata da Piero Chiara e Luciano Erba nel 1954, Quarta generazione, al di là di pochi poeti parzialmente rivolti alla figuratività e alla concretizzazione, alla carnalità e al realismo della scrittura poetica, si ha infine la netta sensazione di una vera e propria stagnazione novecentista: la nuova stagione dello sperimentalismo, in procinto di manifestarsi, era difficile da prefigurare. Evidentemente il modello della poesia pura concedeva possibilità espressive sufficienti a liricizzare e decontestualizzare anche l’esperienza della guerra, dal cui trauma ci si poteva in certa misura liberare trasformandolo in materia poetica; l’elisione del rapporto tra realtà e poesia, il sacrificio della realtà esterna alle ragioni formali, risulta tuttavia sempre più mistificatorio e insostenibile proprio per questa continua decontestualizzazione lirica, sfociando così, seppure in modo un po’ improvviso, in una nuova, critica relazione tra soggetto lirico e realtà esterna.

Nella generale consapevolezza di una ormai impossibile quadratura ideologica tra impegno politico e impegno letterario, dalla metà degli anni cinquanta si assiste quindi, nel panorama della poesia italiana, al tentativo di oggettualizzare il referente storico, scartando la riduzione integrale della realtà a linguaggio tipica del novecentismo, inaugurando invece il plurilinguismo e la tensione argomentativa tipici dell’antinovecentismo. Il dato cronologico è significativo: a metà anni cinquanta, quando appaiono le prime testimonianze della svolta operata dalla poesia, in un contesto politico dominato dal centrismo autoritario la trasformazione socioeconomica del paese è in piena accelerazione. Con il 1956 si apre un periodo – coincidente con la primissima attività poetica di Majorino – il cui clima è fortemente condizionato da avvenimenti quali la denuncia dello stalinismo e i fatti di Ungheria, a cui s’accompagna il boom economico, lo sviluppo dei mass media e il conseguente mutamento di abitudini e consumi, tutti fattori che porteranno nei primi anni sessanta al più o meno illusorio riformismo moderato del centrosinistra, con conseguente isolamento dei comunisti. Tra fine anni cinquanta e inizio anni sessanta si avvierà anche il primo sviluppo dell’industria editoriale, la cui organizzazione, fino ad allora ancora di tipo preindustriale e ideologicamente rivolta alla ricerca più del consenso che del profitto, assumerà la misura della razionalizzazione neocapitalistica, per quanto ancora relativa e contraddittoria, e grazie, sia alla nuova domanda generata dal boom, sia all’ingresso del capitale extraeditoriale, registrerà un aumento della produzione e della concentrazione, una progressiva divisione del lavoro interno e una certa integrazione con l’industria dell’informazione, mentre il criterio del profitto e la formazione del consenso inizieranno a interagire in modo più sistematico nella prospettiva della nuova logica del mercato. Ma per il momento è la situazione sociopolitica di metà anni cinquanta, sospesa tra autoritarismo politico ed euforia sociale, a orientare la svolta in certo senso ideologica impegnata antagonista della poesia italiana, la quale si identifica, a partire da Pasolini, col modello culturale dell’opposizione, cioè con la consapevolezza dell’impossibilità di un reale mutamento storico operato all’insegna delle ideologie ufficiali, il cui esito espressivo non può certo essere, né un linguaggio formalistico, astratto, autonomamente post-ermetico, né un linguaggio contenutistico, referenziale, fiduciosamente neorealista, ma solo un linguaggio plurimo, composto dalle rese espressive dei vari nuovi linguaggi, gerghi e dialetti compresi, che compongono la problematica, contraddittoria, conflittuale tessitura della realtà storica in atto. Già nel ’54 erano uscite le Cronache di Pagliarani, nel ’56 esce Laborintus di Sanguineti, poi nel ’57 Vocativo di Zanzotto e Le Ceneri di Gramsci11 di Pasolini (il poemetto omonimo era già uscito nel ’55 su “Nuovi Argomenti”), il quale ultimo, allo stesso tempo, sulle pagine di “Officina” inizia a parlare di neosperimentalismo e libertà stilistica fondata sul rinnovamento della cultura e dello spirito, esplicitando, tra l’altro, la crisi dell’ideologia politico culturale comunista: «Per la prima volta si affacciava nella poesia italiana la prospettiva di “uscire dal Novecento”, rifondando prima che le istituzioni poetiche, il valore etico e ideologico della letteratura, anche se tale rifondazione poteva configurarsi, per il momento, solo in negativo».

Nella nuova autonomia dell’impegno poetico, pur senza raggiungere un’ideologia comune o una grammatica unitaria capace di orientare il mutamento della realtà, imbrigliata cioè nel modello culturale dell’opposizione – modello che troverà un esito emblematico nella polemica tra “Officina” e neoavanguardia –, tra fine anni cinquanta e inizio sessanta la generazione poetica del ’45 produce quindi un’autentica cultura critica, che registra e denuncia il pericolo del mutamento storico in corso, una cultura che si esplica anche, ma non solo, nel lavoro di molte riviste, letterarie o politico culturali, quali “Officina” (1955-1959), “Ragionamenti” (1955-57), “Il Menabò” (dal 1959), “Rendiconti” (dal 1961), “Quaderni piacentini” (dal 1962), “Il corpo” (1965-68, tra i cui redattori c’è Majorino). Decisivo in tal senso è il lavoro degli esponenti di “Officina” (Pasolini, Leonetti, Roversi, Fortini, Romanò, Scalia, Volponi), che, pur aggredendo le due maggiori tendenze espressive del novecento, il contenutismo neorealista e il formalismo post-ermetico, evitano il pericolo dell’ideologismo inerente alla loro propensione critica con il ricorso, soprattutto da parte di Pasolini, agli strumenti della critica stilistica di Spitzer o Contini e alla più radicale sperimentazione narrativa gaddiana. Certo, come ha notato Raboni, quella del ’45 è anche una generazione che, dal punto di vista della realizzazione poetica, ha in qualche modo sofferto la strettoia creatasi tra il momento di maturazione, già di singolare rilievo, e quello di una ancor più decisiva evoluzione della terza generazione del novecento (Bertolucci, Caproni, Sereni, Luzi), a cui si somma l’arrembante esordio della neoavanguardia, che trova il momento di massima coesione tra la pubblicazione dell’antologia I novissimi (Sanguineti, Giuliani, Porta, Balestrini, Pagliarani), curata da Giuliani nel ’61, e la costituzione del Gruppo 6312, formazione ampia ed eterogenea di oltre trenta scrittori scaturita da un convegno tenutosi appunto nel ’63 a Palermo, il cui tema di fondo era una riflessione sui mutamenti della musica contemporanea (tra i musicisti invitati c’erano Stockhausen, Maderna, Berio). Nella sua antologia poetica del secondo novecento, Poesie e realtà 1945-2000, su cui torneremo, Majorino mette tuttavia in rilievo che proprio all’interno della generazione del ’45 si è formata una zona poetica misconosciuta dai manuali e da lui definita “poesia critica”, frutto di un preciso contesto storico culturale: «È che in un paese internato nel fronte occidentale, ma intellettualmente orientato a sinistra, prende in quegli anni consistenza un campo spostato di doppia opposizione, caratterizzato da forte criticità. Un coagularsi di estranei a contrapposizioni irrigidite, a ossequi al conforme, a fre-quentazione di rifugi corporativi»13. Si tratta della specificazione poetica di una più ampia zona letteraria, caratterizzata dall’istanza critica del suo operare e incarnata nella figura dello scrittore intellettuale, che nella narrativa annovera ad esempio Moravia, Morante, Fenoglio, Silvio D’Arzo, autori che, staccandosi dalla logica dell’industria editoriale, accettano senza remore il confronto tra letteratura e realtà. Per la poesia, Majorino ricorda soprattutto Pasolini, Fortini, Pagliarani – ma è implicita la sua stessa inclusione nella categoria14 –, il cui orientamento intellettuale non è certo compatto, tanto meno legato all’ortodossia marxista; tuttavia, «quel che conta è il sorgere di scrittori che sono anche intellettuali alias esseri non sepolti nella corporazione letteraria, centralizzanti la propria unica vita (per i più profondi: l’unica vita di un singolo-di-molti tra singoli-di-molti)».15 Poeti che inoltre si distanziano, non solo dall’ideologia del neocapitalismo consumistico, ma anche dalla cifra espressiva, quella dello sperimentalismo formale, che in certo senso la rappresenta. Sottolinea infatti Majorino che “l’arrivo delle cose”, il boom economico, «avrà poi il suo esponente principale nella neoavanguardia, la quale metterà al centro una modernizzazione, che però, lo si sappia o no, ha profondamente a che fare con questo arrivo delle cose».16

Tra fine anni cinquanta e inizio anni sessanta il nuovo rapporto critico tra poesia e realtà si riflette, dunque, anche nella polemica tra “Officina” e neoavanguardia, le cui posizioni ideologiche sono simili e dissimili allo stesso tempo: simili nella critica al neocapitalismo, dissimili nell’espressione di tale critica. Una critica che, per il gruppo di “Officina”, prevede una saldatura tra presupposti marxisti e sperimentalismo, cioè l’individuazione di un’espressività capace di accogliere, sia le tensioni tra etica e prassi generate dall’industrializzazione, sia i nuovi linguaggi ad essa connessi, tale quindi da rinnovare la nozione d’impegno. Per la neoavanguardia quella critica deve invece diventare vera e propria struttura linguistica, fino a far coincidere il messaggio con un nuovo codice; nelle sue punte teoriche, la neoavanguardia considera infatti che in letteratura l’ideologia è espressione di un determinato linguaggio, almeno a voler osservare il linguaggio nella sua funzione estetica, sebbene tale visione porti inevitabilmente al distacco tra parola e referente, cioè a una parola poetica che rischia di ridursi al suo valore di scambio linguistico, proprio come le merci della società dei consumi, le cose arrivate col boom, perdendo il valore d’uso si riducono al loro valore di scambio economico. Bisogna tuttavia sottolineare che l’applicazione della tecnica eversiva dei primi e maggiori esponenti della neoavanguardia non si concentra sul livello formale o gestuale del linguaggio in modo univoco e paradigmatico, cioè i novissimi non considerano il linguaggio un sistema esclusivamente astratto/ideologico i cui elementi risultino equivalenti e intercambiabili in quanto ridotti al loro aspetto significante, ossia un metalinguaggio; a dispetto della radicalità di certe dichiarazioni teoriche, la prassi poetica di quasi tutti i novissimi, al pari del gruppo di “Officina” e di altri percorsi sperimentali individuali come quello fondamentale di Zanzotto, in modalità e misure diverse in ciascun poeta, considera invece il linguaggio anche come valore di rappresentazione, nel suo rapporto cioè con un orizzonte esterno e referenziale, che implica in quanto tale una selezione del significato17. È vero, però, che il problema del linguaggio risulta discriminatorio all’interno della neo-avanguardia, il cui gruppo vede schierarsi su posizioni critico teoriche differenti coloro che, come Giuliani, pensano il linguaggio letterario in termini di autonomia autosignificante – quindi in estrema analisi autoreferenziale – e coloro che, come Sanguineti, pensano quell’autonomia comunque coincidente con una sorta di inveramento dell’ideologia marxista. Il che porterà a un’ulteriore divisione prettamente politica del gruppo, tra un’ala maggioritaria di riformisti moderati ossia integrati (Barilli, Guglielmi, Curi, Giuliani, Balestrini) – dove si concentra l’equivoco della neutralità, cioè di un rapporto organico e produttivo interno all’establishment intellettuale, editoriale o accademico, nella veste di un innovativo, alternativo, eppure mai veramente conflittuale specialismo linguistico – e un’ala minoritaria di riformisti spinti ossia apocalittici (Sanguineti, Pagliarani, Leonetti), il cui sperimentalismo implica invece anche una precisa scelta politica di fronte alla realtà.18

Nel campo poetico, lo schieramento contrario al neocapitalismo è infine più complesso di quanto appaia anche all’esterno della semplice opposizione “Officina”/neoavanguardia. Si è visto, infatti, che tra i poeti critici c’è, non solo Pasolini, a rappresentare il lavoro di “Officina”, ma anche Pagliarani, il cui percorso poetico è in parte intrecciato con quello della neoavanguardia, Fortini, la cui opera risulta eccentrica e centrale al tempo stesso, sospesa com’è tra rivoluzione e tradizione, e implicitamente Majorino, che rappresenta invece l’identità geografico letteraria dell’area lombarda, identità che, come tra poco vedremo, nella contrapposizione teorica alla neoavanguardia è vicina a “Officina”, tuttavia differente anche rispetto a quest’ultima nelle soluzioni estetiche19. Con una semplificazione un po’ schematica ma utile a chiarire il discorso, potremmo dire che negli anni cinquanta-sessanta abbiamo tre modalità di antagonismo poetico: “Officina”, area lombarda e neoavanguardia, le quali, pur esplorando soluzioni estetiche differenti, anche all’interno dei singoli gruppi, hanno una matrice comune quantomeno nell’intenzione di sottoporre a critica la società neo-capitalistica. A mostrare l’intreccio originario di queste tre modalità basti pensare, ad esempio, che lo sperimentalismo del primo Pagliarani è riconducibile al clima di “Officina” e che il suo poemetto La ragazza Carla viene antologizzato nei Novissimi del ’61 – pur essendo stato pubblicato integralmente sul “Menabò” di Vittorini nel ’60. O, più ancora, che un critico come Anceschi – il cui neoilluminismo pragmatico si predisponeva all’ascolto della crisi della letteratura e al suo rinnovamento mediante il concetto di autonomia della poesia, consistente come si è detto nelle relazioni sempre aperte e sperimentali sia con se stessa che con le altre attività umane –, da un lato inaugura il percorso poetico della Linea lombarda nel ’52, dall’altro nel ’56, sul “Verri”, da lui fondato con un occhio a “Officina”, ospita e coagula i prodromi espressivi della neoavanguardia; nel ’61 I novissimi sono infatti pubblicati con la sigla del “Verri”, sebbene nelle parole introduttive di Giuliani si presentino in rottura con i “lirici nuovi” del ’43 curati da Anceschi, accolgono cioè in misura estremamente mediata il vecchio concetto anceschiano di autonomia ed eteronomia dell’arte – una posizione, questa dei novissimi, in verità avallata dallo stesso Anceschi, nel momento in cui egli ne valorizza l’espressività ludica e l’analogismo irrazionale che, sebbene lontani dall’astrattezza ermetica, portano «a una concezione della poesia sempre più slacciata dalla realtà, e tesa alla divaricazione dai procedimenti razionali e discorsivi, secondo forme di sperimentalismo che molti autorevoli pareri, tra cui quelli di Andrea Zanzotto e di Vittorio Sereni, sentirono come debole e poco incisivo»20. La differenza sostanziale fra le tre modalità poetiche, che separa la neoavanguardia da “Officina” e area lombarda, è infatti la volontà di comunicazione, e una conseguente, più accentuata istanza morale di questi ultimi; comunicazione che tanto è possibile in quanto, pur con tutto lo sperimentalismo messo in campo, la funzione estetica del linguaggio non domina o non tende a dominare su quella etica, in quanto cioè l’ideologia non diventa o non tende a diventare linguaggio tout court. Non a caso la funzione storico letteraria della neoavanguardia è stata quella di estremizzare la critica al modello neocapitalistico e alla sua mercificazione linguistico culturale, nel tentativo di lasciare in eredità ai posteri, dopo un’esperienza radicale, ideologica e tecnica al tempo stesso ma tendenzialmente autodistruttiva del linguaggio, uno strumento totalmente purificato dai valori espressi dal potere egemone (nel secondo novecento poetico l’utopia di un linguaggio nuovo, vergine, realmente opposto al codice vigente è anche il segno distintivo dei neodialettali, la cui esperienza espressiva è stata tutt’altro che comunicativa e comunitaria). Da un lato, quindi, non c’è da meravigliarsi che, ad esempio, da parte di un poeta come Raboni, interno alla stessa area geografico letteraria di Majorino, sia stato contestato il formalismo della neoavanguardia: «La deplorata riduzione della realtà ad oggetti, propria del neocapitalismo, la perdita di senso da parte dei prodotti artistici e quindi la caduta della comunicazione, secondo Raboni non potevano essere risolti da una poesia che mirava a porgersi essa stessa come “oggetto” [...], rinunciando a priori alla comunicazione fra un io e un altro io, fra un gruppo (sociale, intellettuale ecc.) e altri gruppi»21. Dall’altro è invece da comprendere come la critica al contenutismo portata avanti dalla neoavanguardia, contro il neorealismo così come contro il sentimentalismo neoarcadico di matrice pasoliniana, negli stessi anni sessanta travalichi la neoavanguardia e si manifesti in un intellettuale come Asor Rosa o, sul piano analogo della critica allo stesso impegno intellettuale, in un poeta e critico come Fortini. A metà anni sessanta, infatti, – malgrado nuovi tentativi d’impegno quale quello legato al rapporto tra letteratura e industria o quello ispirato alla metafora della sfida al labirinto, testimoniati sul “Menabò” da Vittorini e Calvino –, dopo che nell’ultimo periodo si erano comunque succedute forme realistiche ideologicamente ispirate dal marxismo e nuove forme di disimpegno borghese influenzate dalle esigenze del mercato editoriale di massa, valutazioni critiche riecheggiano anche in campo narrativo e letterario, come testimoniano, da posizioni diverse e in certo senso isolate, Scrittori e popolo (1964) di Asor Rosa, il quale sottolinea il valore della letteratura borghese di livello europeo e critica la tradizione politicamente impegnata della letteratura italiana contemporanea, in particolare il modello populista e nazionalpopolare della narrativa militante di sinistra nel dopoguerra, e Verifica dei poteri (1965) di Fortini, il quale segnala lo scadimento della potenzialità conflittuale della letteratura dovuta alla logica del mercato imposta a critici e scrittori dall’industria editoriale, nonché l’urgenza di superare l’ormai inadeguato modello dell’intellettuale organico. Non manca nello specifico campo poetico chi come Roversi, nelle Descrizioni in atto (in “Paragone-Letteratura” nel 1965, poi in 3000 copie ciclostilate e diffuse privatamente nel 1969), critica lucidamente, non solo l’ambiguità di un’opposizione letteraria che isola lo scrittore in un velleitarismo poetico e politico, ma la stessa scrittura quale operazione ormai incapace di concreta incidenza o resistenza rispetto alla realtà, quindi affrontabile solo facendo coincidere la ricerca poetica con una radicale coscienza autocritica, in una scrittura che sia cioè “contro il pubblico” e “contro se stesso”.

Per quanto lucide e sintomatiche, a metà anni sessanta questi sono, però, ancora accertamenti di una crisi che troverà il suo esplicito sfogo solo all’indomani del ’68-’69, quando, con il rapido trapasso del fronte oppositivo dal campo culturale a quello più propriamente sociale, con l’assestamento del regime consumistico e della società di massa, nonché con la fine del cosiddetto riformismo del centrosinistra e l’inizio della strategia della tensione, di fronte alla quale non potrà nulla nemmeno il compromesso storico, la nuova quinta generazione che si affaccia sulla scena poetica, quella del post-sessantotto, si ritrova staccata dal sostrato storico ideologico della poesia critica degli anni cinquanta-sessanta – anche il Gruppo 63 si scioglie nel 1969, con la chiusura del periodico “Quindici” diretto da Giuliani –, ed è costretta ad arroccarsi sulle possibilità empiriche del proprio talento senza poter più confrontarsi con soluzioni orientate a un possibile rapporto critico tra poesia e realtà. Inoltre, in questi anni la razionalizzazione neocapitalistica, pur segnando un ritardo rispetto al generale sviluppo industriale, penetra decisamente la sfera della produzione editoriale, trasformando le maggiori case editrici in aziende, sostituendo man mano i dirigenti intellettuali con dirigenti manager, dividendo e parcellizzando maggiormente i ruoli del lavoro interno, inquadrando i critici di riferimento in rapporti di funzionalità e produttività, privilegiando la logica del profitto a quella del consenso il cui criterio ideologico viene risolto nel primo all’insegna del consumismo; in una parola, l’industrializzazione del settore editoriale e la mercificazione del libro è ormai irreversibile e l’intellettuale, disilluso riguardo all’autonomia e alla neutralità del proprio lavoro, perde ogni autentica rilevanza sociale. La quinta generazione poetica si ritrova quindi, nei primi anni settanta, immersa in una crisi complessiva, politica sociale economica, la cui misura rispetto al nostro discorso non riguarda più il rapporto particolare tra letteratura e politica nell’orizzonte dell’impegno culturale così come si era consumata a metà anni cinquanta, bensì il rapporto più generale tra letteratura e impegno, cioè l’elemento politico intrinseco alla letteratura. Nei primi anni settanta la poesia registra infatti la fine del mito dell’opposizione, la letteratura del rifiuto del modello neocapitalistico si ribalta in rifiuto della letteratura, vista ormai «come forma di opposizione inadeguata o inutile o addirittura complice nei confronti di esso»22. E a fronte di una generale reazione volontaristica ed elusiva inerente a tale passaggio, solo i poeti più attrezzati e maturi, per lo più appartenenti alla generazione precedente, riescono a cogliere le implicazioni relative alla propria scrittura e al proprio ruolo sociale di intellettuale e scrittore. Tale atteggiamento critico e autocritico viene espresso da alcuni in modo più esplicito, come Sereni (Poesia: per chi, 1975), Pasolini (Trasumanar e organizzar, 1971; La nuova gioventù, 1975; articoli sul “Corriere della sera” pubblicati postumi in Scritti corsari, 1975 e Lettere luterane, 1976), Roversi (I diecimila cavalli, 1976), Leonetti (Irati e sereni, 1974; Percorso logico del ’960-75, 1976), e da altri, come Giudici, Raboni, Majorino, in modo più implicito – ma in un numero di “Quaderni piacentini” del ’74, Majorino avverte esplicitamente di non sottovalutare la letteratura, di non regalarla agli “avversari”, cioè a una nuova autonomia disimpegnata23. Questi autori e le loro opere testimoniano come ormai la poesia, la letteratura in genere, sia attanagliata tra la consapevolezza di un’illusoria separatezza e quella di un’illusoria incidenza sulla realtà.

Riguardo alla poesia italiana, il termine ultimo delle possibilità relative al rapporto tra letteratura e impegno lo si può quindi simbolicamente attestare giusto a metà anni settanta. Nel 1975, infatti, se dal punto di vista storico culturale l’edizione critica dei Quaderni di Gramsci, che permette un approccio ai suoi testi meno politico e più aderente alla disillusione dei tempi, ideologicamente deboli e negativi, è solo un segno premonitore della crisi complessiva che coglierà di lì a poco la sinistra e le sue molteplici forme di marxismo (il ’75-’76 è il biennio di massima affermazione elettorale del Pci, ma già nel ’78-’79, con il cambio di rotta del Psi e la fine del compromesso storico, il Pci inizierà il suo inarrestabile declino), dal punto di vista storico letterario possiamo invece considerare almeno tre eventi particolarmente significativi di una cesura netta tra letteratura e impegno. Il primo è l’uccisione di Pasolini, paradigmatica dell’impossibilità di coniugare insieme pensiero critico e società neocapitalistica. Il secondo è Il pubblico della poesia, l’antologia di Berardinelli e Cordelli, che, pur sciogliendo l’equivoco di un’avanguardia esteticamente valida in quanto garantita dall’ideologia, rappresentata negli anni precedenti dal Gruppo 63, registra sì la pluralità e la compresenza delle soluzioni poetiche orientate a una libertà creativa e antideologica generata dalla contestazione, ma testimonia soprattutto, come ricorda Berardinelli nella nuova, recente edizione dell’antologia, che «questa libertà derivava anche da una diminuita coscienza critica, da una pretesa di innocenza che minacciava di rendere troppo disinvoltamente produttivi troppi nuovi autori. La nuova poesia nasceva ormai fuori dall’autocoscienza storica»24. L’effetto della nuova poesia degli anni settanta, causato dalla ricerca di un nuovo pubblico di massa che vidimasse una nuova giustificazione sociale dei poeti, è cioè quello paradossale d’invitare la massa a produrre poesia; un effetto che, proprio mentre attiva il mito della creatività diffusa, esprime la rottura del legame tra poesia e storia, nonché la conseguente perdita del senso della poesia, il cui pubblico reale va così scomparendo per essere sostituito da una massa di scriventi versi. Il terzo evento è il discorso di Montale per l’assegnazione del Nobel intitolato È ancora possibile la poesia?, dove il poeta, preso atto dell’orizzonte oscuro e disperato che accompagna la civiltà del benessere, dell’annientamento della solitudine e della riflessione operato dalla civiltà mediatica, e della tendenziale mercificazione persino della poesia, cioè di “un prodotto assolutamente inutile”, risponde sì positivamente alla domanda da cui prende spunto il suo discorso, nel senso che la poesia, acme dell’animo umano, non può mai morire del tutto, bensì solo eclissarsi e risorgere nell’andirivieni delle vicissitudini storiche, al pari del suo destinatario, a sua volta sempre storicamente imprevedibile; ma soprattutto, il poeta, con più pessimismo di quanto non dica la lettera, testimonia al contempo l’attuale democratismo dell’arte, la sua trasformazione in prodotto di consumo e “l’esibizionismo isterico” di cui soffre la nuova poesia di massa, i cui milioni di adepti non fanno che operare un massaggio psicofisico su ipotetici fruitori. Accanto alla poesia autentica, certo non intesa come poesia critica, la cui possibilità attuale è comunque messa in discussione, c’è dunque una poesia di massa, frutto anch’essa, al pari di qualsiasi altra merce, di una crisi radicale della condizione umana fondata sulla sfiducia nella vita e sull’orrore di se stessi. Dice infatti Montale: «ormai esistono in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e muore appena è espressa, mentre l’altra può dormire i suoi sonni tranquilla. Un giorno si risveglierà, se avrà la forza di farlo».25

Volendo leggere simbolicamente questi tre eventi, nel ’75 noi abbiamo una situazione che in sostanza vede la morte della poesia critica, la nascita di una poesia di massa inquadrabile come totale eteronomia dell’arte, una poesia prodotta cioè non più dal rapporto tra poeta e società ma direttamente dalla società poetante, e la sopravvivenza di una poesia autentica, ripiegata tuttavia, come si evince dalle parole di Montale, sul versante dell’autonomia pura e disimpegnata: il fallimento assoluto di un ventennale rapporto critico tra poesia e realtà.

Ora osserviamo, in relazione al periodo esaminato, l’identità geografico letteraria di Majorino e i tratti fondamentali dei suoi testi. Giancarlo Majorino appartiene dunque all’area lombarda, cioè a quel gruppo di poeti anch’esso folto ma definibile “lombardo” in senso necessariamente inclusivo e ampio rispetto alla specifica Linea lombarda curata da Anceschi nel ’52, un’area che accomuna, sia poeti della generazione del ’45, come Giudici o il siciliano ma milanese di adozione Cattafi, sia poeti successivi a quella generazione, come Raboni (1932) o Tiziano Rossi (1935), la cui poesia si può genericamente caratterizzare nella simbiosi tematica tra quotidianità ed etica, tra attenzione alle cose e consistenza morale del vivere, con l’ovvio riferimento storico a Parini e Manzoni, e nella miscela espressiva di elegia e ironia, che produce antilirismo e propensione al verso narrativo. L’originaria Linea lombarda identificata da Anceschi, nel distinguersi rispetto, sia al filone ermetico, cioè all’essenzialità di una poesia pura e sublimante, ante rem, sia al filone neorealista, cioè all’impegno di una poesia obbligata a dare precedenza alla realtà, post rem, pur nell’autonomia dei singoli autori trovava infatti la sua via di mezzo, la sua peculiarità espressiva, non solo in un’ade-renza sentimentale al territorio urbano e periferico, metropolitano e provinciale, ma anche e soprattutto in una dimensione realistico pragmatica, in una fenomenologia dello sguardo poetico che inquadrava gli oggetti in immagini metaforiche e materiche al tempo stesso, in un registro basso ironico parodico, anti-sublime e antiretorico, eppure lirico e colto, che aiutava a rendere corporea la poesia senza scadere in un gretto empirismo naturalistico; cioè in una poetica dell’oggetto o poesia in re che, recuperando la lezione del correlativo oggettivo di Eliot e mediando tra analogia ungarettiana e figuralità montaliana (il Montale delle Occasioni), conservava la centralità dell’io lirico e insieme inquadrava il rapporto tra esperienza individuale ed esperienza sociale26, esprimendo così un’istanza etica e una volontà di comprensione del proprio tempo storico: «A una lirica che “ritrova gli oggetti” corrispondevano, nelle parole di Anceschi, “una continua apertura sul mondo, sulla storia”, “un impegno deciso dell’uomo con se stesso e con gli altri”, “un diverso tempo di energia morale della scrittura”»27. A tali caratteri ereditari della poesia lombarda, va aggiunta l’istanza critica, manifestatasi grazie anche, ricorda Majorino, alle riviste sopra citate e alla centralità storico culturale di Milano: «Non può sorprendere dunque che si muova, proprio qui, una poesia originale, in tensione tra bellezza e verità (o, forse meglio, tra bellezza slegata e demistificazione), tra autosufficienza testuale e scavo nell’impoetico, con ricorso continuo alle miniere del parlato e dell’usato. Una poesia che può fondarsi anche su di un patrimonio precedente e contemporaneo, di forte intonazione etica. Sì, perché a Milano hanno scritto e scrivono poeti come Rebora, Tessa, Montale, Sereni, Sergio Solmi»28. Intesa come categoria poetica, la “linea lombarda” ha quindi accolto nel tempo autori di più generazioni poetiche – da Sereni a Majorino a Raboni –, sebbene abbia trovato la sua maggiore esplicazione storica nella quarta, quella del ’45. In particolare Giampiero Neri, Elio Pagliarani, Giancarlo Majorino e Giorgio Cesarano formano la leva successiva al gruppo anceschiano di Linea lombarda, le cui esperienze iniziali si collocano tra fine anni cinquanta e inizio anni sessanta, situandosi così in una zona di forte prossimità, se non di parziale convergenza com’è il caso di Pagliarani, con l’attività della neoavanguardia esplicatasi negli anni sessanta; dentro il diffuso movimento che in quegli anni porta a stringere il rapporto tra poesia e realtà, tra soggetto lirico e collettività sociale, caratteristica di questa nuova compagine “lombarda” è un’accentuata istanza dialogico narrativa e un plurilinguismo che accoglie anche gerghi e dialetto, cioè una complessità espressiva, formale, innervata tuttavia da una sempre viva tensione etico civile, da un’esplicita riflessione realistica sulle strutture socioeconomiche e relativi disagi della contemporaneità.

Rispetto ai suoi stretti contemporanei “lombardi”, grazie «al suo esplicito impegno “politico”, tutto ficcato dentro la storia»29, nella poesia di Majorino risalta l’intreccio tra una costante indagine sociopolitica e antropologica della condizione urbana, nonché una rigorosa sperimentazione linguistica espressa attraverso il plurilinguismo e la sapiente mistura poetico prosastica del verso, cioè la capacità di tenere insieme, senza ipocriti tentativi di riduzione a sintesi, la conflagrante contraddizione tra l’elemento ideologico e quello linguistico; entrambi gli elementi contribuiscono infatti a una visione critico amorosa del mondo, nel senso che «agisce, in lui, una sorta di pan-contemporaneità, una rara capacità di ascoltare e redimere ogni nuova vibrazione della parola scritta e più ancora, forse, parlata»30. Fin dall’esordio poetico con La capitale del nord (1959) – racconto in versi la cui soluzione formale anticipa di qualche mese quella analoga della Ragazza Carla di Pagliarani –, e per tutti gli anni sessanta, Majorino s’inserisce dunque in quel solco sperimentale, parallelo e disgiunto rispetto alla sperimentazione neoavanguardistica, composto da un gruppo di autori legati a Milano, la cui principale differenza rispetto alla neoavanguardia sta, non tanto nel determinare il fatto poetico come opposizione, o nel rifiuto della soggettività in quanto ambito peculiare del discorso poetico e del codice lirico in quanto espressione di tale discorso, bensì nel rapporto col linguaggio finalizzato, mediante una «sperimentazione “silenziosa”»31, a ricucire l’unità linguistica della poesia attraverso l’uso del parlato e del registro prosastico, cioè di quelle stesse soluzioni formali che, pur usate in precedenza per lacerare il canone del novecento, ora servono a rifondarlo, piegando la sperimentazione a una funzione comunicativa, trasformando la sua valenza di rottura in un nuovo codice, la cui intrinseca dimensione ideologica rivolta alla storia alla politica alla società viene sondata dal giudizio individuale e da un’attenzione privilegiata all’evento quotidiano capace di mutare la stessa opposizione ideologica in opposizione etica. L’antilirismo dell’area lombarda, prosastico e argomentativo, che evita però la atonalità di stampo neoavanguardistico esprimendo una ritmicità esplicita e una marcata ironia, si risolve quindi in una scelta insieme linguistica e morale, in una tensione costruttiva che, nel caso di Majorino, nel progressivo passaggio da uno sperimentalismo realistico a uno più deflagrante e figurale, esprimerà sempre meglio significati materiali ed esistenziali, vitalizzando così la funzione dichiarativa della poesia.

Già con La capitale del nord, i cui protagonisti sono la Milano e il ceto medio di metà anni cinquanta, la fedeltà del poeta al tempo storico o, come scrisse Pagliarani, al “paesaggio temporale” in quanto rapporto dialettico tra uomo e natura32 (nel senso soprattutto di natura urbana, cittadina, politica), si riflette in un’esplicita connessione tra realismo e sperimentalismo, in una cifra poetica che prevede, sia la rilevanza contenutistica e problematica della realtà, sia l’attualizzazione formale delle possibilità linguistiche inesplorate, cifra che fonda il progetto etico-estetico di Majorino e che, come nota Raboni, precisando sempre meglio il nesso tra frontalità politica e sensibilità linguistica si ripresenta, nel corso degli anni sessanta, in alcuni frammenti organici apparsi su varie riviste come La miopia (“Il Menabò” n. 6, 1963), Famiglia (“Quaderni piacentini” n. 17-18, 1964), Ricerche erotiche (“Il corpo” n. 1, 1965), Lotte secondarie(“Paragone” n. 186, 1965) e Storia interrotta (“Il corpo” n. 3, 1966)33. L’ultima rivista citata, “Il corpo”, pubblicata tra il marzo 1965 e il giugno 1968 (6 numeri, l’ultimo doppio), tra i fondatori e redattori vede Majorino, Amodio, Caprioglio, Fachinelli, Dolfini e Pericoli per la parte grafica; un gruppo eterogeneo rispetto alle competenze specifiche, letterarie filosofiche psicoanalitiche storiche, ma in qualche misura legato da un’amicizia intellettuale che orienta la rivista a un ideale “campo spostato” di osservazione sul mondo. La rivista, che ha avuto una ristampa completa nel 1976, rientra nella costellazione dei periodici politico culturali della nuova sinistra usciti in Italia tra il 1956 e il 1968, di quella sinistra critico marxista caratterizzata dalla doppia opposizione, all’ideologia borghese e all’ortodossia comunista; la vocazione interdisciplinare, l’orientamento alla materialità plurale del mondo indicata dal titolo, produce interventi sulla psicanalisi, sul marxismo, sulla poesia, sugli armamenti, poi il ’68 porta in primo piano le divergenze interne e la redazione si scioglie, in quanto, al rigore degli interventi e al valore di una cultura multidisciplinare, fa da contraltare fin dall’inizio una concreta difformità interna al gruppo dei redattori34. A suggellare l’attività poetica di Majorino negli anni sessanta, la raccolta Lotte secondarie (1967), riguardo alla quale si è parlato di “dialettica morale”35, della capacità di coniugare insieme denuncia politica e pietà poetica nei riguardi di quel ceto medio lombardo che continua ad essere il protagonista privilegiato della poesia di Majorino, insieme col suo centro storico culturale, la “brava Milano”, fatalmente illuminata dalla criticità del poeta e dalla sua passione per la realtà, mediata da un’intelligenza linguistica capace di produrre falde semantiche anche nei segmenti espressivi più liberi e alterati. Un’importante rilettura di Lotte secondarie da parte di Maurizio Cucchi ha evidenziato, in retrospettiva, sia il contesto produttivo dei poeti appartenenti all’area lombarda (Strumenti umani di Sereni e La vita in versi di Giudici escono nel 1965, Le case della Vetra di Raboni e La tartaruga di Jastov di Cesarano nel 1966, La talpa imperfetta di Tiziano Rossi nel 1968), sia la validità della raccolta di Majorino, dove la sperimentazione rende dignità poetica a una realtà storicamente emarginata mediante l’uso accorto, sorvegliato, di un parlato quotidiano fino all’estremo, di un registro prosastico fino alla prosa che affronta di petto la precarietà del vivere, l’inesorabile consumo dell’unica vita e, più ancora, la provvisorietà ultima, ontologica dell’uomo, il suo essere per la morte, attraverso la risposta aperta, intensa, fisica del sì alla vita, cioè l’esigenza di esplicare poeticamente e politicamente la corporeità, la materialità umana, attraverso insomma la necessità storica di un’espansione poematica dell’esserci, comprensiva tra l’altro della consapevolezza della scrittura quale “lavoro da uomo”, lavoro che, al contrario di quanto solitamente accade, permette di “rimanere unito” di fronte alla coatta dispersività della società36. Di Lotte secondarie sarà poi sottolineata da Berardinelli la radicale criticità, comune ad altri poeti degli anni sessanta come Pagliarani, Fortini, Giuliani, Sanguineti, che in Majorino porta a svelare (vedi la poesia Achtung) il nesso storico sociologico tra la felicità del benessere presente e l’orrore del nazifascismo passato: «Majorino, invece che staccare la realtà neocapitalistica dal passato più recente, la lega più strettamente ad esso: come se la macchina dello sviluppo industriale fosse una macchina di tortura e di sterminio, che ha già fatto le sue prove nei campi nazisti»37. Ma la complessità della raccolta, la sua connotazione più esistenziale che politica, sarà ancora evidenziata da Santagostini, secondo cui l’attivismo demistificatorio, brechtiano di questa poesia, facendo interagire coscienza critica e verbalizazzione oggettuale, svelando la debolezza delle convenzioni sociali mediante una tensione erotico nostalgica per il corpo vivo, scopre una parola intensa autentica materiale, una parola che paradossalmente è tanto più antilirica e antiretorica quanto più anonima ed elementare, quindi al di là o al di qua non solo del momento sperimentale ma anche di quello strettamente politico, “materialistico”, in quanto un soggetto lirico che cerca se stesso nelle cose, alla fine del suo pendolare disforico risulta sempre disilluso e alienato, trovando solo la sua “dura e inappellabile diversità”38. Nella successiva raccolta, Equilibrio in pezzi (1971), grazie alla concretezza di un registro quotidiano implicato nelle necessità del vissuto e al diretto coinvolgimento dell’io nella molteplicità dei rapporti esterni, Majorino continua a confrontarsi con la realtà, senza che l’animosità politica si stacchi dalla contraddizione intrinseca all’unicità meravigliosa e tormentata della vita individuale. Nella raccolta c’è il ’68, la contestazione, lo scontro ideologico tra gli strati sociali nella scuola e non solo, c’è la violenza maschilista e altri temi inerenti a un periodo sostanzialmente disarticolato dalla frantumazione del vecchio equilibrio sociopolitico e più ancora storico linguistico; tuttavia, il tempo storico linguistico viene riequilibrato dai suoi stessi frantumi o pezzi mediante un sondaggio poetico privo di pregiudizi e al contempo aperto alla ricezione di ogni strato, anche il più decomposto, del parlato quotidiano o dei gerghi tecnico aziendale e massmediatico, grazie a un uso consapevole della strumentazione metrico fonetica e lessico sintattica che ricostruisce, scoprendolo, il nuovo “sublime” di quegli anni e le sue inedite, disperate proposte39. Scritta nello stesso periodo di Equilibrio in pezzi, gli anni della contestazione, ma pubblicata dopo, la raccolta Sirena (1976) è poi nel percorso di Majorino una sorta di variante amorosa – una differente prospettiva del medesimo concetto affrontato nella raccolta precedente, la precarietà intrinseca dell’equilibrio –, dove la relazione critica con l’esterno, lungi dal defilarsi, si traveste da commedia borghese e premendo sul pedale dell’ironia mostra come la “tentazione” di una donna bella, ricca e innamorata, con relativa costellazione linguistico ideologica, possa mettere in discussione sogni e doveri dell’uomo impegnato nella realtà: «un testo stranamente bifronte, un moderno canzoniere d’amore che lotta per negarsi, sapendo che è l’unico mezzo per sopravvivere, ma che sopravvive proprio perché non ci riesce fino in fondo e in queste oscillazioni tra programmi di poetica e sbandamenti emotivi, tra simulazioni stilistiche e ingorghi sentimentali trova un suo salutare squilibrio»40. L’anno dopo, nell’ambito di un progressivo lavoro critico affrontato a più riprese, esce Poesie e realtà ’45-’75 (1977), la sua prima antologia della poesia italiana, caratterizzata da una sperimentazione critica in cui si evidenzia l’interazione tra produzione poetica e contesto storico, che demistifica le normalizzanti ricostruzioni letterarie di matrice borghese da un lato e inquadra dall’altro la poesia in rapporto alla realtà materiale di quegli anni, le cui contraddizioni erano tanto socialmente evidenti quanto ideologicamente esorcizzate.

Siamo dunque a metà anni settanta e la società neocapitalistica lavora a pieno regime, capace com’è di assorbire nella sua struttura ideologica ogni istanza critica di mutamento, di nutrirsi delle sue stesse contraddizioni spettacolarizzandole e facendone ulteriore fonte di profitto per i dominanti e di consumo per i dominati, di filtrare e svilire le energie divergenti rispetto all’assetto vigente tramite una matrioska di assoggettamento composta da famiglia scuola lavoro, di espellere dalla realtà riconosciuta e vidimata dalla massa ogni radicale rifiuto alla subordinazione. Il periodo storico culturale che ora osserviamo va dal 1975 ai primi anni duemila e vede, anzitutto, l’assunzione dell’occidente neocapitalistico ad orizzonte categoriale del mondo. In Italia, ma non solo, il dato storico culturale di fondo è la crisi delle ideologie, comunismo liberalismo cattolicesimo, la cui progressiva erosione è testimoniata dal dibattito filosofico, che a fine anni settanta avvia le discussioni sulla “crisi della ragione” e inaugura il pensiero postmoderno, consolidando poi, negli anni ottanta, la contrapposizione tra teorie “forti” e posizioni “deboli”, non legate quest’ultime a dottrine sistematiche e vincolanti, derivanti bensì dall’ampia presenza nel dibattito dell’irrazionalismo, dell’ermeneutica, dei post-strutturalisti; altre linee di discussione riguardano la filosofia analitica e la filosofia della scienza, ma resta preponderante la linea irrazionalista. È in questo periodo, l’epoca del capitalismo avanzato, la cui élite economico finanziaria si fa sempre più potente e ristretta, nonché dell’affarismo politico, i cui ceti dirigenti cadono in un immiserimento etico dovuto alla sempre più accentuata gestione degli interessi particolari, che inizia a sciogliersi ogni legame tra cultura e politica, producendo una costante umiliazione sociale del pensiero critico.

Riguardo alla poesia italiana, nella marea crescente del pensiero debole e del postmoderno, e nel riflusso generale della società italiana, tra anni settanta e anni ottanta le principali linee poetiche del periodo precedente, scaturite da Linea lombarda, “Officina” e, in misura dominante, dalla neoavanguardia, esaurito l’antagonismo storico ideologico che le ha originate negli anni cinquanta-sessanta, s’intrecciano e complicano, nei poeti della quinta generazione, quella del post-sessantotto, in un groviglio di soluzioni tendenzialmente oscillanti tra novecentismo e antinovecentismo, postneoavanguardismo e mitomodernismo. Lo scacco generazionale degli autori apparsi sulla scena poetica dopo il ’68, che investe non solo le possibilità estetiche ma quelle più generali dell’orientamento culturale, si riflette infatti, da un lato nella faticosa e polimorfica costruzione di concrete scelte espressive, dall’altro nella sempre più difficoltosa, se non impossibile storicizzazione dei molteplici percorsi attuati, come registrava già nel ’75 la citata antologia Il pubblico della poesia. È vero che, all’impossibilità di produrre nuove interpretazioni storico ideologiche testimoniata da quell’antologia, viene avanzata una risposta polemica da un’altra antologia, curata nel ’78 da Giancarlo Pontiggia ed Enzo Di Mauro, La parola innamorata – derivante dalla rivista “Niebo”, attorno a cui gravitano i cosiddetti neo-orfici –, il cui intento è di recuperare il valore nudo e crudo del testo poetico, la sua pura vitalità, ma non per questo i testi che La parola innamorata raccoglie riescono a tracciare la linea di una vera tendenza estetico ideologica; anzi, «questa antologia offre, sotto la specola unificante della rinnovata fiducia nell’azzardo della poesia, un ventaglio di proposte diverse, quando addirittura non contraddittorie, al pari dell’altra, salvo il fatto che, per i motivi suggeriti, si astiene da ogni suddivisione e partizione in correnti. Ma, di fatto, la molteplicità degli indirizzi resta»41. D’altronde, come Il pubblico della poesia indicava già nel titolo la situazione poetica che andava inquadrando, anche La parola innamorata indica chiaramente una poesia tutto sommato soggettiva, evasiva e indefinibile, se non nel recupero di una parola ludico amorosa contrapposta alla parola ideologizzata del periodo precedente.

Tanto meno si può dare valenza ideologica alla spettacolarizzazione della poesia, che tra fine anni settanta e inizio anni ottanta si manifesta con l’exploit della lettura pubblica, della performance teatrale, del festival – fenomeno inaugurato a Castelporziano nel 1979 –, in quanto il tentativo ad essa inerente di risocializzare e ripoliticizzare la parola poetica non significa altro che la massificazione della creatività, cioè la riduzione dell’ormai antistorico binomio poeta-pubblico alla condizione unidimensionale del poeta-massa; come si è fatto notare, «non tanto all’affermazione di una dimensione progettuale pubblica parevano intese quelle aperture spettacolari, quanto in definitiva alla conferma di un fallimento, alla constatazione di un’impossibilità storica che trovò nel crollo del palco di Castelporziano, l’ultima sera del festival, un facile, suggestivo emblema»42. In questo periodo si assiste inoltre, anche per la crisi economica, alla degradazione commerciale dell’industria editoriale, che accentua la strategia consumistica e rinnova la concentrazione in misura più sistematica; con l’ingresso di capitali stranieri e la creazione di holding, l’editoria accelera il processo di razionalizzazione e aderisce in modo acritico alla logica del profitto, ingaggiando tra l’altro, soprattutto nel campo narrativo, una schiera di personaggi reali, di scriventi più o meno noti capaci di garantire lo smaltimento di grandi tirature. È una degradazione che investe tuttavia anche il campo poetico, sebbene qui – pur registrandosi, in un più generale sviluppo produttivo del settore, una relativa ripresa editoriale e una maggiore circolazione della poesia dentro e fuori i canali istituzionali – la degradazione sia bilanciata da una notevole produzione. Nello stesso periodo, e anche oltre, appaiono infatti valide analisi critiche, importanti raccolte antologiche, collane prestigiose, a cui si affiancano, seppure in progressivo aumento quantitativo, convegni, manifestazioni, riviste vecchie e nuove; né mancano le voci importanti, di respiro internazionale – ricordiamo almeno Zanzotto e la Rosselli, attestati su una sperimentazione di alto o altissimo livello, e i “lombardi” Giudici e Raboni, testimoni con Majorino e altri di quella “etica del quotidiano” tipica dell’area lombarda, a cui si aggiungono negli anni ottanta, come ulteriore risonanza dell’originaria teorizzazione anceschiana, poeti più giovani come Cucchi o Buffoni.43

Al di là del fenomeno più sociologico che letterario della poesia di massa e della spettacolarizzazione del fatto poetico, riguardo alla produzione autentica della nuova generazione, numerosa ma priva di tendenze estetiche dominanti, ciò che invece si è potuto registrare negli anni settanta-ottanta è una duplice modalità poetica, tendente per un verso alla letterarietà vitalistica, al mito, all’affabulazione, cioè alla ricucitura del rapporto significante-significato operata, pur nelle differenze dei singoli percorsi, da molti autori, tra cui il gruppo dei neo-orfici; per un altro, sulla vaga scia della “linea lombarda”, ma sempre mediante scritture differenti, all’antiletterarietà, all’oggettualità, a una verbalizzazione quotidiana e disadorna, o al recupero di istanze formali tradizionali, che rinnova la sperimentazione; nonché delle originali vie di mezzo tra queste due modalità, capaci ad esempio di unire astrazioni simboliste e oggettivazioni lombarde, o di recuperare le ragioni espressive di avanguardia con un linguaggio saggistico argomentativo. Trasversale tuttavia, rispetto a tali modalità espressive, è la polarizzazione della presenza/assenza del soggetto lirico, cioè la biforcazione di soluzioni di scrittura che prevedono, o l’occultamento più o meno complesso dell’io a favore di un contesto parlante che risulta mutevole e precario, o la preponderanza dell’io sul contesto che si riduce però a una sua emanazione pur risultando più stabile e fisso. Nella generazione post-settantottesca, quindi, «le opzioni stilistiche e linguistiche sembrano in qualche misura indipendenti dal rapporto fra soggetto e oggetto che si stabilisce sulla pagina, come se si fosse prodotta una discrasia abbastanza netta fra piano dell’espressione e piano della rappresentazione»44. Il che ha fatto pensare al lavoro in corso di un nuovo canone poetico, di un diverso modo di rapportare la poesia alla realtà; ma il tentativo generazionale di formalizzare il rinnovamento, sebbene abbia visto distinguersi un discreto numero di autori di buon livello, pur con tutta la consapevolezza tecnica, il cruccio intellettuale e il residuo ideologico che li caratterizza, non si può dire abbia prodotto un nuovo rapporto tra poesia e realtà nel senso critico dei termini.

Negli anni novanta-duemila il mutamento antropologico iniziato negli anni cinquanta raggiunge livelli inediti, pervasivi rispetto a ogni ambito della realtà. Oltre alla crisi di sistema di una politica ridotta a pura macchina del potere che si sfalda con l’inizio di tangentopoli, e alla conseguente involuzione del modello liberaldemocratico segnata dall’egemonia berlusconiana e dall’aziendalizzazione dello stato - un monopolio di poteri (economico massmediatico politico) che connota l’attuale democrazia totalitaria fondata sul populismo e sullo pseudo consenso del voto/ sondaggio -, accade che la tramontata funzione tradizionale dell’intellettuale di tipo umanistico venga ereditata dai magnati della comunicazione. Nella nuova civiltà massmediatica la massa, che ormai confonde in sé le componenti tradizionali del proletariato e della piccola e media borghesia, si amalgama in un unico ceto medio omologato dalla comune ideologia del consumo; questa massa è cioè intrinseca all’onnipotenza dei media televisivi e telematici, che non solo non mediano nuove figure intellettuali ereditarie dello spirito critico e dell’autonomia di giudizio del vecchio ceto intellettuale, ma tendono ad appiattire, sclerotizzare e colonizzare l’immaginario collettivo, attraverso anche una dispotica prevalenza dell’immagine sulla parola. È un mutamento radicale e generalizzato che aggredisce anzitutto la cultura critica, di cui Majorino è perfettamente consapevole: «Il fare culturale si conserva presso rari solitari, quasi sempre ignorati; nella stragrande maggioranza dei casi tale fare è risucchiato, a bassa temperatura pensante, nel ben più possente fare-disfare dei media. È come se si fosse passati dalle dittature nazifasciste (e stalinista e di altri regimi) alla dittatura, più varia, mascherata o imbrogliona, delle comunicazioni di massa. [...] Il guaio è che il tutto è prodotto, riprodotto, consumato (e chissà con quali esiti nelle teste, dove l’immaginario personale sempre più annega nell’immaginario collettivo partorito con quei metodi e mezzi). Terrore e svago, notizie lontane e distrazioni, in senso profondo oltre che superficiale, cui ci siamo assuefatti e a cui non sapremmo più rinunciare».45 Il processo globale di omogeneizzazione economica e socioculturale è infine rafforzato, in Italia, da un attacco costante del potere politico alle istituzioni formative: lo scadimento dei meccanismi di selezione del corpo docente e la licealizzazione dell’università, così come l’iperspecialismo dei saperi e il dominio mediatico della divulgazione, sono tutti fattori che, sommati al cedimento di un’educazione diffusa al pensiero critico, mettono in crisi i processi di soggettivazione autonoma. Come ha rilevato Asor Rosa: «In questa nuova civiltà massmediatica, il pensiero critico non ha diritto di cittadinanza».46

Nella poesia italiana, in modo coerente con la realtà storica del periodo, dalla fine degli anni ottanta ai primi anni duemila si assiste a una riduzione quantitativa delle voci autentiche, le cui cause sono molteplici e concomitanti nello sfavorire anzitutto l’impegno della scrittura in versi: «da una parte una stretta editoriale senza precedenti, che ha via via falcidiato le collane nazionali di poesia portando alla loro soppressione o drastica riduzione, dall’altra gli orientamenti generali della civiltà dell’immagine, sempre più fondati nelle loro manifestazioni su un superficiale “valore di scambio” e su un categorico assottigliamento dello spessore intellettuale, tendono evidentemente a relegare il fatto poetico in una zona di marginalità assoluta, sempre più lontana dal cuore pulsante della cultura del presente»47. Va aggiunta la preferenza coatta dei giovani produttori di letteratura per la forma narrativa, influenzati in tal senso dalla domanda di un mercato più ampio e da un’industria editoriale rivolta tutta alla logica del profitto, una domanda cioè che nei nuovi soggetti produttori porta a filtrare quasi esclusivamente quelle soluzioni di scrittura più compatibili con le esigenze commerciali delle case editrici. Si fa inoltre ancora più evidente l’assenza di linee poetiche comuni e storicamente accertabili, nonché la mancanza di un vero rapporto critico tra poesia e realtà. L’unica, breve esperienza poetica plurale dell’ultimo periodo, il rigurgito postneoavanguardistico del Gruppo 93 (in omaggio al Gruppo 63, così come questo omaggiava il Gruppo 53 tedesco), esperienza confusa ed epigonale che ha come riferimento la rivista “Baldus”, non a caso ha fatto emergere solo chi è riuscito in qualche misura a staccarsi dalla pseudo poetica di partenza; altre esperienze invece, di carattere singolare, sono riuscite a trovare un’identità poetica proprio in quanto, pur innestate nella realtà, hanno aprioristicamente rinunciato a ogni riferimento ideologico. La situazione del periodo è precisata in misura caustica da Berardinelli, quando scrive che oggi, «invece che pluralità e compresenza di tendenze, c’è piuttosto una vera e propria confusione critica. Con gli anni Ottanta si è formato un “piccolo canone” comprendente una decina di autori, ma questo è avvenuto non perché un certo numero di critici fossero al lavoro e si discutesse della qualità dei testi. È avvenuto per decisione editoriale o perché alcuni autori mostravano di avere un talento autopromozionale più spiccato di altri. Così oggi se si vanno a vedere le collane di poesia dei maggiori editori italiani si può trovare di tutto: i nomi dei poeti effettivamente migliori si trovano accanto a quelli di autori che non si capisce neppure perché siano stati pubblicati e da quale mai genere di lettori possano essere letti»48. Inoltre, con la tecnologizzazione avanzata della società e la vasta possibilità di comunicare e diffondere la poesia in rete, il processo di massificazione, spettacolarizzazione e mercificazione del fatto poetico raggiunge un punto limite. Da un lato, infatti, c’è l’estrema marginalità della poesia autentica, cioè il ritorno a un accentuato elitarismo del rapporto poesia/editoria, la cui concreta possibilità di veicolare il testo è data quasi solo dalla conoscenza personale tra addetti ai lavori, unito a una sostanziale indifferenza dei media classici – sembra che tra il ’90 e il ’95 sul “Corriere della Sera” sia uscito un solo articolo riguardante la poesia italiana contemporanea, una recensione di Barilli al gruppo 9349. Dall’altro c’è una sconcertante produzione/pubblicazione di massa: «Nei primi anni ’90 uscì una specie di censimento dei libri di poesia editi allora in Italia, e fu stimato che ci si aggirava intorno ai 70 esemplari al giorno. Ci sono una cinquantina di piccoli editori che pubblicano a pagamento anche quattro, cinque libri di poesia quotidianamente. Questo fa sì che ogni giorno in Italia venga pubblicata in realtà moltissima poesia. Venduta, assolutamente nulla. Un grande esubero di carta autoreferenziale, perché i poeti si leggono da soli»50. Si tratta di uno sfogo lirico esistenziale strettamente legato all’involuzione antropologica in atto, spesso caratterizzato da estroversione incontrollata e analfabetismo di ritorno; una massa di giovani o meno giovani scriventi versi, in preda al vuoto esistenziale, affascinati cioè dal mondo dell’arte quale occasione di mutamento per una vita più felice o rattristati dall’incapacità di una vita effettivamente felice, chiedono ai versi il loro centesimo di gloriola e spesso, sebbene non sempre, vanno a formare le coorti corporative dei poeti più spregiudicati. Come fa notare Majorino, soprattutto i giovani potrebbero spendersi nel compito della conoscenza storica: «Invece stanno tutti lì, a scrivere poesie. Ce ne sono milioni! Se cominciassero a fare un lavoro di conoscenza, sarebbe una meraviglia, per loro e per tutti!»51. Facendo mente all’incipit del nostro percorso, bisogna dire che brilla di luce propria questa medaglia della situazione attuale, dove su un lato l’adolescente liceale pensa che i poeti siano tutti morti e sull’altro il poeta considera che siano milioni gli scriventi versi: immaginifici quanto si vuole, questi due pensieri restituiscono a pieno la concreta impossibilità con cui deve fare i conti la poesia italiana contemporanea.

Insomma, la “reale devastazione” e la “cadaverizzazione della storia” sottolineate da Zanzotto in un saggio del ’9952, che hanno investito la società neocapitalistica dagli anni ottanta in poi, sono state evidenziate dalla critica come segnali di un cambiamento corruttivo allo sguardo dei poeti, cambiamento che sembra aver dato il solo adito alla poesia di sperimentare il dolore e il disorientamento esistenziale in molteplici forme53. Tale complessiva situazione storica, negli ultimi due o tre decenni ha prodotto sì delle reazioni riguardanti il discorso poetico, tra cui le tematiche di carattere filosofico, l’esplorazione di nuovi linguaggi settoriali, il ritorno delle forme chiuse, ma tali reazioni, molteplici e singolari, non hanno certo generato poetiche forti, rendendo inoltre improbabile, come si è detto, ogni tentativo di comporre un quadro d’insieme.

Ciò malgrado si è tentata un’interessante, seppur parziale, visione della poesia contemporanea, l’individuazione cioè di una linea esistenziale intesa come equilibrio tra metafisica e nichilismo: una fedeltà all’immanenza non insensibile al richiamo della trascendenza, un’apertura all’esistente a cui segue la dislocazione dell’io, la pluralità dei punti di vista, la tessitura narrativa del discorso, che spinge il soggetto a transitare tra l’una e l’altra sponda, «con un movimento così rapido e inquieto da far pensare che l’abituale distinzione tra lirico e antilirico, utile in passato, non sia più qui produttiva: l’io, quando è presente, resta [...] per lo più autobiografico, empirico e anche familiare [...] ma non, per questo, intona il proprio discorso ad un’egologia solipsistica. Non è labile o flebile [...] ma, piuttosto, attento a quanto lo circonda. Consapevole di non avere “altro supporto che un rapporto” (Nancy), è sul confine tra il proprio e l’improprio – in una comune piega o presenza, dove l’altro è intricato in noi stessi»54. A mio avviso, questa visione parziale eppure comune della situazione poetica contemporanea, se confrontata con la storia poetica recente, che abbiamo provato sommariamente a inquadrare, potrebbe far pensare a una poesia nuovamente sbilanciata sul versante dell’autonomia, un’autonomia però opposta e complementare rispetto a quella primo novecentesca. Mi spiego: nella visione appena descritta abbiamo il riscontro diffuso di un’istanza poetica esistenziale e relazionale, di un’aperta disponibilità da parte della poesia a rapportarsi con la realtà esterna, con la sua eteronomia; ma a tale apertura non corrisponde affatto un’istanza individuale e antagonista, cioè una consapevolezza critica della propria autonomia. È come se la poesia si fosse totalmente concentrata sulle possibilità oggettive, relazionali dell’io, depotenziandone radicalmente, per molteplici e profonde cause storiche, le possibilità soggettive, di unità interiore. Per quanto non si possa eccedere nella generalizzazione, il riscontro di un io decentrato e di una rinnovata tendenza alla poesia in re, di una disperata fiducia nella dicibilità del mondo, dagli anni ottanta ad oggi è storicamente accertato ed è inoltre inquadrato nella categoria della “onestà”: «Nel momento in cui l’io accetta di rinunciare a qualsiasi ruolo protagonistico, e anzi sceglie consapevolmente di misurarsi in modo paritetico con qualsivoglia altro da sé (sia esso il mondo grande della storia, o quello ben più piccolo che ha accompagnato il vissuto di ogni autore), tende a sostituire all’evocazione/effusione autoreferenziale un giudizio comunque argomentabile, un ponte verso l’esterno che, seppur precario, deve disporre di una minima solidità, e soprattutto di una minima considerazione per la natura dell’altra riva che andrà a toccare. Mi pare che se un tratto comune può unire i prodotti dell’ultimo decennio, esso andrà cercato nell’“onestà” che ispira e condiziona l’atto poetico».55

Ora, la categoria letteraria dell’onestà risale a Saba, a un suo saggio, Quello che resta da fare ai poeti, scritto nel 1911 per “La Voce” ma non accettato dalla redazione, rimasto nel cassetto e pubblicato postumo solo nel ’59. Tale onestà richiamava il poeta alla necessità etico espressiva, al rigore nella scrittura come nella vita (Manzoni contro D’Annunzio), a una poesia che fosse ricerca del vero; al poeta chiedeva di essere, invece che letterato di professione, ricercatore di verità56. Con questo appello all’onestà, Saba indicava «un chiaro programma di poetica, una scelta insieme morale e intellettuale»57, legata all’introspezione e alla terapia analitica, alle letture di Nietzsche (il Nietzsche psicologo, estraneo a D’Annunzio) e di Freud, volta a un percorso etico conoscitivo dell’io lirico che, per quanto aperto alla coralità della storia e della società, anzi proprio perché aperto all’osservazione e all’ascolto della vita umile e quotidiana degli uomini, potesse smascherare con la sua parola le menzogne giacenti al fondo dell’esperienza esistenziale. In Saba l’istanza individuale, psicologica ed autobiografica, fa infatti da ponte, da relazione tra l’io e gli altri, regge il rapporto tra autonomia ed eteronomia dell’arte, tra poesia e realtà; non a caso, pur bilanciato dalla musicalità del ritmo e della misura, il suo linguaggio prosastico narrativo drammaturgico, cioè antiermetico, produce immagini che non sono mai autonome nel senso puro, metafisico del termine. La ricerca lirico esistenziale di Saba mira a una verità che è scoperta della profonda identità dell’uomo, il bene e il male di vivere comune a tutti; la sua «verità individuale è anche quella di tutti, è, quindi, una verità mitica personale che può essere verità di valore universale»58. In ciò, Saba è in netta antitesi con l’agnosticismo esistenziale di Montale (“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato...”)59, in quanto egli dichiara la propria identità, pur senza rinunciare a conoscere disagi e dissonanze della realtà, così come non teme di riconoscerne le possibili meraviglie, poiché sta proprio nella sua onesta apertura al mondo la ricerca del vero60. Quanto, tuttavia, il suo appello all’onestà risultasse slegato da un vero e proprio antagonismo critico con la realtà, lo dimostra da un lato la sua poesia (cosa che ovviamente non toglie una virgola alla sua grandezza), dall’altro il fatto che, al di là dei cattivi rapporti con i vociani, il saggio sull’onestà fu rifiutato dalla “Voce” della prima fase (dicembre 1908 - novembre 1911), quella che si distingueva proprio per la ricerca d’impegno morale e onestà intellettuale, per la sua polemica con la letteratura estetizzante di D’Annunzio, per il tentativo di rapportare il letterato con la storia, per l’esigenza critica di rinnovare insieme cultura letteraria e realtà sociopolitica. La poesia onesta di Saba, infatti, ha in sé un’irriducibile istanza individuale, un’io contemplativo su cui si fonda la relazione tra poesia e realtà, un soggetto lirico autonomo capace di essere allo stesso tempo presente e assente nel mondo, una “serena disperazione” che permette al poeta di conoscere, senza però cedere di fronte ad esse, le due malattie che fanno il mondo ingiusto e dolente: «l’estroversione, che è malattia storico-sociale, violenza, culto della forza e logica della vittoria; e l’introversione, che è malattia del rifiuto e dell’assenza dalla storia, come assenza della “verità che giace al fondo”, sia essa assenza dall’impegno politico che dall’impegno lirico di “fare la poesia onesta”».61

Quindi, a conti fatti, l’onestà di Saba a me sembra indicare una poetica differente, non solo da quella dell’autonomia pura della poesia ermetica, ma anche da quella dell’autonomia, diciamo così, spuria della poesia degli ultimi decenni. La differenza, infatti, tra l’onestà di Saba e l’onestà della poesia italiana contemporanea è legata proprio al concetto di autonomia, nel senso che in entrambi i casi non si tratta ovviamente di autonomia pura, ermetica, bensì di un’autonomia capace di far entrare la poesia in rapporto con la sua eteronomia; tuttavia, la prima si fonda sulla sostanziale, per quanto fragile scissa lacerata, centralità dell’io, mentre la seconda sulla sua perifericità, sulla “delocalizzazione” dei punti di vista del soggetto lirico. Insomma, è certo una poesia che si rapporta alla realtà, quella che si profila all’analisi storica degli ultimi decenni, ma è anche e soprattutto una “poesia debole”, cioè incapace, sia di una profonda autonomia soggettiva (Saba), sia di un’autonomia oggettiva antagonista (poesia critica degli anni cinquanta-sessanta); una poesia che andrebbe ormai interrogata criticamente, con l’intenzione quantomeno di svelarne le eventuali contraddizioni interne. Ci sarebbe infatti da valutare se questo particolare, parziale ma diffuso orientamento della poesia italiana contemporanea, che si riscontra in varia misura, in modo occasionale o sistematico, in tante voci degli ultimi decenni, possa ancora oggi reggersi sulla categoria dell’onestà, una categoria che recupera sì l’istanza etico comunicativa del linguaggio poetico, ma non certo quella critico soggettiva dell’io. L’onestà del poeta contemporaneo potrebbe, cioè, risultare tanto più paradossale quanto più coincidente con la tendenziale, progressiva, inevitabile rinuncia alla centralità del soggetto lirico: rinuncia necessaria da un lato, se si vuole sostituire all’autoreferenzialità del soggetto lirico generata dalla caduta del contesto ideologico il confronto e l’apertura con l’altro da sé, effimera dall’altro, se si considera l’intrinseca debolezza dello stesso soggetto lirico costretto a scegliere tra autoreferenzialità e referenzialità acritica. Rispetto a tale orientamento, che non sembra essere il segno di un nuovo rapporto critico tra poesia e realtà, bisognerebbe allora capire, ad esempio, perché negli ultimi decenni le scelte stilistiche e linguistiche dei poeti sono risultate indipendenti dal tipo di rapporto soggetto/oggetto che si attua nel testo, perché cioè si è registrata una discrasia tra il piano dell’espressione e quello della rappresentazione; ma, più di tutto, sarebbe necessaria un’indagine volta a ricostruire la genealogia del soggetto lirico contemporaneo e della sua onestà, in quanto tale onestà, oggi, potrebbe risultare il riflesso di una vera e propria astinenza critica, il segno di un fin troppo consapevole (assuefatto) e comunicativo (informativo) rapporto con la realtà.

Riguardo al percorso di Majorino, negli anni ottanta-duemila, gli anni del cedimento collettivo di fronte al modello neocapitalistico, la sua poesia ha saputo certo rinnovarsi sia sul piano dell’espressione che su quello della rappresentazione, ma non per questo ha perduto la valenza critica del suo poetare. In tal senso è utile anzitutto segnalare, in quanto emblematico del mutamento storico antropologico avvenuto tra anni settanta e ottanta, il commento di Mario Santagostini alla ristampa, nel 1994, dell’opera prima La capitale del nord: «Era un libro centrale, [...] critico, spesso polemicamente caustico verso la Milano del boom economico [...]. Ma si trattava di un’opera in fondo ottimistica, attraversata da una pacata adesione alla vita e alle sue contraddizioni. Mostrava come Milano, allora, possedesse una voce unitaria, ascoltabile e riconoscibile, composta da innumerevoli toni anonimi e in grado di amalgamarsi in una coralità. Ecco: quello che forse oggi è davvero scomparso [...] è l’unità polifonica capace di tenere insieme tutte le voci che affiorano e si inseguono in un’appartenenza reciproca. Voci che, probabilmente, sono rimaste le stesse. Manca però il quadro d’insieme: lo spirito della città. Non è cosa da poco»62. Va poi notato che la prima raccolta degli anni ottanta, intitolata Provvisorio (1984) e composta tra il 1970 e il 1981, da un lato è altrettanto emblematica di quel tormentato assestamento della inautenticità sociopolitica relativo agli anni settanta, dall’altro sintomatica dell’inizio di un secondo tempo della poesia di Majorino, caratterizzato da un distacco dalle radici “lombarde” e dalla cifra prettamente cittadina riscontrabile in una maggiore stratificazione linguistica, da Mengaldo definita “polistilismo”, cioè in un’apertura sperimentale capace di esprimere la «disseminazione esistenziale e psicologica del soggetto, che ci parla chiaramente dell’oggi»63. Anche Santagostini noterà come in questa raccolta il mutamento storico antropologico costringa ormai l’io a relazionarsi con la realtà mediante una ricerca ritmico sonora: l’unico livello in cui è ancora possibile metaforizzare la vita reale, sensibile, corporea, è cioè un canto, non più corale e armonico come accadeva nella Capitale del nord, ma sconnesso e spezzato, in cui l’io e gli altri si appartengono reciprocamente in un terreno verbale che non appartiene a nessuno, una lingua appunto provvisoria, pre-dialogica, forse utopica, certamente onirica, nel senso che essa è possibile solo nel momento in cui viene estrapolata dalle convenzioni verbali pur senza potersi ritrovare in una realtà, né lirico individuale, né antilirico sociale64. Questa modificazione della poesia di Majorino va intesa, quindi, come un rinnovamento dell’armamentario critico estetico, in quanto, se prima si provava a inquadrare “realisticamente” la conflittualità sociale mediante una sperimentazione che mettesse in evidenza la dimensione etica delle cose, del quotidiano, ora la sperimentazione avanza sulla scena del testo, zoomando sulla frantumazione interna del soggetto contemporaneo e sulla implicita necessità di provare a porre rimedio all’unità perduta; non a caso Fortini fa notare che, in Provvisorio, Majorino «è squassato da un’energia tragica e patetica, come chi si muove in un caos inafferrabile e nel medesimo tempo vuol far sentire che esistono, al di fuori della poesia, armi intellettuali ed etiche che debbono ricostruire e riorganizzare il mondo»65. Com’è stato poi efficacemente analizzato da Cepollaro, l’intenzione di formalizzare in modo adeguato il nuovo assetto della realtà esterna, evitando sia il formalismo iperletterario e gergale sia il contenutismo piattamente referenziale, porta Majorino a sperimentare modelli retorici del testo poetico che, miscelando figure di reticenza e di ripetizione, riescono a tacere il significato e a semantizzare il significante della parola66. Provvissorio costituisce dunque una rinnovata, fratturata relazione tra linguaggio e vissuto, dove l’intrinseca necessità della sperimentazione, innestata, per dirla con Porta67, “nel bel mezzo della lingua parlata”, si esplica in un contesto tematico ai limiti della disperazione. L’esperienza fibrillante a cui è sottoposto il tipico registro di Majorino è infatti dovuta, non solo alla violenza della realtà esterna, ma anche alla sofferenza originata da eventi familiari, che proprio testimoniando la provvisorietà della materia umana mettono in rilievo la passione per l’unicità del vivere: «Il titolo accentua la precarietà di quel lungo periodo (1970-1981), vuoi sul piano generale, un riflusso impietoso stava disgregando le speranze di un mutamento, vuoi sul piano personale con la morte di mia madre. [...] È la prima volta che mi impegno per così tanto tempo. In realtà tra la morte di mia madre, il suo essere paralizzata, e quelle vicende comuni sempre più amare... pensavo ormai di non scrivere più niente. E questa raccolta prende forma ciò nonostante. Assistere mia madre con questa paralisi è stato tremendo. Un po’ all’ospedale, un po’ a casa, la portavo a fare dei giri in carrozzella, la vedevo continuamente degradare, perché all’inizio era ancora abbastanza presente, capiva, poi via via... Per me Provvisorio è proprio uno spartiacque, cioè abbandono un tipo di scrittura ironicamente aggressivo, ma comunicativo tutto sommato, il modostile dei miei libri precedenti, e “invento” una specie di ridda sperimentale, che ha punti molto violenti»68. Nello stesso anno, due nuove tappe del lavoro critico. Prima l’antologia Centanni di letteratura (1984), che nasce come testo per le superiori ma sarà adottato anche all’università, dove viene ripreso il metodo inaugurato con Poesie e realtà ’45-’75, cioè l’intreccio di produzione letteraria e analisi socioculturale (ideologia, economia, religione, costume), quindi centralità del testo letterario e ricostruzione storica di un’epoca al fine di recuperare il senso della letteratura, allagando però l’ambito spazio temporale, sia della situazione storica, nazionale e internazionale, sia della produzione letteraria, italiana e mondiale, dal 1880 al 1980 (il programma scolastico di solito non andava oltre le tre corone: Carducci, Pascoli e D’Annunzio), e innervando l’indagine di una specifica intenzione critico didattica: «leggere e studiare collegando scritture e verità può consentire la conoscenza profonda della complessità quotidiana, contemporaneamente alimentando il sogno di una bellezza non mortificata, di un mondo finalmente giusto e felice. Mentre, in questa società, si è costretti a scegliere tra felicità ingiusta e giustizia infelice»69. Per avere anche solo un’idea del metodo, che unisce didattica e spirito critico, è sufficiente osservare la struttura dell’antologia: tre parti, “1880-1915, anni di svolta”, Il periodo fra le due guerre”, “Il tempo presente”, ciascuna divisa in quattro sezioni: “La letteratura italiana del periodo”, “Sfondi internazionali di chiarimento: serie di elementi storici; il sistema della cultura; l’ambito letterario”, “Sfondi italiani di chiarimento: serie di elementi storici; il sistema della cultura; problemi della lingua”, “Scritture e autori”70, con l’aggiunta di quattro monografie su Marx, Freud, Nietzsche e Einstein, protagonisti fondamentali della cultura tra fine ottocento e inizio novecento. Il secondo lavoro è Passaggi critici (1984), una riflessione composta da più saggi sul problematico rapporto tra letteratura e realtà, sul condizionamento ideologico dei sistemi filosofici trattati come sistemi di verità, sulle modalità di scrittura relativi agli anni che vanno dal 1970 al 1980: il contraltare critico di Provvisorio, il cui materiale in parte convoglierà nella successiva rielaborazione di Poesie e realtà 1945-2000 e il cui metodo, proprio riprendendo la parte saggistica di Poesie e realtà ’45-’75, è sempre quello di uno sguardo critico che inquadra l’interazione, le influenze reciproche, i nessi tra produzione letteraria e svolgimento socioculturale della storia nell’orizzonte della società neocapitalistica. In particolare si evidenzia l’influenza economico ideologica del mercato editoriale, che sempre più gestisce o media il rapporto testo/lettore attraverso la mercificazione del libro, anche di poesia e di narrativa, mercificazione attuata dalla politica delle case editrici mutate in imprese editoriali e diffusa in un generico ma sostanziale clima d’indifferenza da parte di scrittori e critici – riflessione quindi su una società il cui sforzo critico, la lotta, anche in ambito letterario sta man mano voltando dalla necessità del mutamento a quella della sopravvivenza: «Contro, insomma, l’alienazione, l’inerzia, la disgregazione, l’inutilità: “quei caratteri che Marx aveva iniziato ad analizzare denunciandone correttamente le matrici economiche e sociali”»71. In questi anni Majorino fonda e dirige, con la poetessa napoletana Rina Li Vigni Galli – residente in Calabria, dove si avrà una seconda redazione – la rivista di poesia “Incognita”, uscita dal 1982 al 1984, tra i cui collaboratori da lui chiamati alla redazione di Milano figurano Nanni Cagnone, Giuseppe Pontiggia e Alfonso Berardinelli, che rappresentano le istanze rispettivamente dell’avanguardia, della tradizione e della critica marxista. A seguire, la raccolta poetica Ricerche erotiche (1986), che riprende due serie di testi già pubblicati nella seconda metà degli anni sessanta sulla rivista “Il corpo”, dove la sperimentazione trova un’esplicita tensione tra verso e prosa, con largo uso del livello gergale e un’immersione ironica nella materia linguistica che ne provoca un immediato distanziamento storico, mentre l’intelligenza poetica si esplica nella resa trasfigurata di tipici paesaggi semiotico psicologici, relativi all’ambigua realtà di un periodo in cui convivono l’ottusa euforia del boom economico e l’incipiente tensione socioideologica che all’indomani della contestazione sarebbe sfociata nella lotta armata e nello stragismo. Non a caso, a proposito di questa raccolta Raboni ha parlato di “memoria critica”72. Alla fine degli anni ottanta, dopo Testi sparsi (1988), che recupera una serie di poesie rimaste al margine della fibrillante sperimentazione di Provvisorio ma che al tempo stesso tentano un primo riassestamento armonico, riguardo alle quali si è ribadito come il percorso del nostro tenda a oltrepassare le zone espressive tipiche dell’area lombarda73, il linguaggio di Majorino approda a un’inedita, lineare sobrietà con La solitudine e gli altri (1990), dove un io lucido e saldo si tende a un’apertura diretta con l’altro, al fatto, esistenziale più che sociale, della mescolanza col somigliante, a una continua e mai risolta interrogazione sul nesso tra solitudine e comunanza. Ma riguardo a questa raccolta si è notato pure come una parola poetica purificata e fedele al suo patto col silenzio, senza risuonare di altri sensi e corrosa dal tempo, riesca comunque a dire la misura relazionale del corpo, il rapporto con gli altri e l’incontro con le differenze, “la prossimità dei volti e delle cose”74. Franco Loi ha poi notato come qui il linguaggio di Majorino, pur attenuando la vis sperimentale, colga sempre l’oralità della vita breve, dei piccoli eventi, delle cose, mantenga sveglia cioè la coscienza critica e poetica di una realtà flagellata: «Un’illusione è stata comune alle avanguardie: fare delle istituzioni spezzate e dei linguaggi correnti una voce di denuncia e di barbara rivolta. Però Majorino ha compreso il grosso equivoco sperimentale, di avanguardie ben pagate e accademiche, lui che è sempre stato ai margini e tra i bisognosi: la poesia non può e non deve omologare la decadenza delle istituzioni e il tradimento della lingua. In questo libro, alla chiarezza del pensiero si accompagna la coscienza della propria poesia»75. Seguono ancora due piccole raccolte, in collaborazione con due artisti, Cangiante (1991) e Sosia (1994), dove resta costante il riferimento stilistico al tono basso, colloquiale, prosastico, con relativa attenzione al quotidiano, ma con l’innesto inusuale di segmenti alquanto ellittici. Con Tetrallegro (1995) invece, raccolta composta tra il ’90 e il ’95, in una società ormai in piena “frenesia dell’esserci”, la scelta espressiva di Majorino, ritrovando smania lessico sintattica e accentuata percussione ritmica, si orienta all’abbozzo, al dettaglio, alla frammentarietà delle situazioni, nonché alla deformazione linguistica, il cui insieme diventa un cumulo poematico lontano dalla riflessione e da ogni tentativo di normalizzazione testuale, ma proprio per questo trasparente di un possibile rapporto con l’esterno sociale, il quale, sebbene rimandi la delusione della realtà, riflette pur sempre l’inderogabile adesione alla vita, come ben avvisa l’ossimoro del titolo. Proprio nella figura dell’ossimoro si è vista la chiave di volta della raccolta, dove un linguaggio che nella realtà è soggetto a una triste e deflagrante entropia viene raccolto dalla poesia nella sua irriducibile e allegra unità di suono e senso76. Non si tratta più, cioè, di distinguere una sperimentazione lombarda da una neoavanguardistica, ma di individuare uno spazio espressivo che sia in grado di rendere conto della violenta e volgare inautenticità in cui è immersa l’esistenza di ognuno, di riflettere la totale estromissione del referente storico psicologico dalla strutturale innominabilità del reale, il che, in prima istanza, sembrerebbe dover portare alla rinuncia della parola poetica: «Ma proprio questa indifferenza del referente storico, la sua non identificabilità se non in termini di impulso, è in grado di rassicurare il testo rispetto alla mimesi sociologica o alla semplice degustazione ambientale; e contemporaneamente si fa luce la conferma che la perdita del nome e della direzione dei comportamenti sia frutto di un potere sempre più lontano (sfuggente, non responsabilizzabile) e ubiquo (incombente, capillarizzato)»77. Tra il 1994 e il 1995, Majorino fonda e cura anche la sua terza rivista, “Manocomete, quadrimestrale di profondità e superficie”, caratterizzato dalla convivenza di studi specialistici, scritture letterarie e, attraverso la partecipazione attiva dei lettori, cronache personali: una progettualità obliqua che prova a mettere insieme le competenze specifiche e il vissuto quotidiano.

Arriva un momento di pausa, di messa a fuoco sul già fatto, un complessivo sguardo sulla propria poesia e sulla poesia italiana del secondo novecento. Prima Le trascurate (1999), testi lasciati in disparte negli anni in quanto disomogenei rispetto alle raccolte precedenti, ma accomunati nel loro insieme da elementi quali la “quietitudine” del privato o la sospensione di una quotidianità amorosa, nonché un’accentuata visionarietà che, come nota Cucchi nella prefazione, annuncia un terzo tempo del percorso di Majorino78. Poi, sempre nel ’99, l’Autoantologia (1953-1999), che raccoglie il meglio di quasi cinquant’anni di attività poetica, a cui si aggiunge, l’anno dopo, l’audiobook Milioni di minuti, che raduna numerosi testi non inclusi nell’Autoantologia. L’Autoantologia dà modo di verificare, nell’insieme delle varie tappe poetiche e relative differenze, i tratti dominanti della poesia di Majorino: ad esempio, il costante registro di un’ironia critica, che contribuisce attivamente alla destrutturazione della liricità e della retorica tipica del linguaggio poetico, sia dal punto di vista formale che contenutistico, mediante forme linguistiche quali «la dissonanza, la deformazione e scomposizione lessicale, l’annessione del parlare anonimo e neutro, del balbettio stralunato, della parola usurata dalla banalità e svenduta al mercato del senso comune»79, o contenuti inerenti alla struttura singolare-plurale dell’individuo, all’appartenenza di ogni singolo agli altri singoli, alla consapevolezza della comune mortalità. Ma l’elemento più caratterizzante è il rapporto critico tra poesia e realtà, inteso come intreccio, relazione intrinseca tra scrittura e vissuto: «Ogni testo è immagine /suono – direbbe Deleuze – poiché il poeta non si isola, non si separa dal contesto in cui è ma sta proprio “nel mezzo”, in relazione con il mondo, in quel nesso mobile in cui la scrittura è “carne del mondo” – direbbe Merleau-Ponty. [...] La poesia di Majorino mira alla verità ma vuol restare “nel mezzo”, in quel luogo di relazione dove l’io non è mai separabile dal reale, né questo può essere colto in sé, isolato»80. In pratica, una poesia critica espressa in una lingua che, senza essere veramente né formale né comunicativa, riesce tuttavia a dire la fluidità migrante sommersa catastrofica della parola contemporanea, una lingua che testimonia di riflesso, in Majorino, «l’onnipresenza del rovello politico, la posizione critica e oppositiva, la certezza che il mondo sociale creato dalla borghesia capitalistica è un mondo avvelenato e guasto, nel quale ogni facoltà e attività umana continua a rischiare l’asfissia, niente è gratis e niente è natura, nessuna fibra di pensiero e di linguaggio sono immuni dal contagio»81. Nel 2000 Majorino fa poi il punto della situazione storico poetica con l’antologia Poesie e realtà 1945-2000, dove, come già in passato nei suoi testi critici, ma ora in modo più chiaro e organico, una selezione testuale del secondo novecento della poesia italiana viene fatta interagire con la realtà attraverso un’indagine critica mirante, più che a contestualizzare lo sfondo storico sociale delle opere, a far dialogare direttamente queste ultime col proprio tempo, a inquadrare poesia e realtà come due poli di una reciproca causalità effettuale. Di questo testo, che tira le somme del lavoro critico di Majorino e su cui torneremo più avanti, per ora è sufficiente segnalare le linee fondamentali, così come indicate dallo stesso autore. I punti importanti sono quattro: la valutazione dell’opera letteraria non solo in sé ma in rapporto alla realtà esterna, cioè autonomia ed eteronomia dell’arte; la necessità di un’emancipazione critica o spostamento rispetto alle due ideologie dominanti del novecento, individualismo e collettivismo alias capitalismo e comunismo, le due visioni dell’individuo in quanto, o base del tutto o particella di un tutto; dalla necessità di spostarsi rispetto alle ideologie dominanti deriva la visione dell’uomo in quanto individuo che si forma ininterrottamente attraverso gli altri, cioè l’uomo in quanto corpo di corpi o singolo di molti; a monte di queste tre intenzioni c’è la prima, la necessità di prendere coscienza della mortificazione culturale in atto: «A mio giudizio c’è un clima orrendo. Lo stesso titolo dell’anno di estetica che sto facendo è “La dittatura dell’ignoranza e le possibilità dell’arte”. Un’altra versione poteva essere: “La dittatura dell’ignoranza e i piaceri dell’arte”. La dittatura, insomma, dell’ignoranza è terribile e grava su tutto. E naturalmente grava anche sulle poesie e sui poeti, lo sappiano o no».82

Dopo questo articolato e fecondo momento di pausa, inaugurando un terzo tempo della sua poesia, la tipica adesione all’esistere o inerenza al tempo di Majorino si rinnova con Gli alleati viaggiatori (2001), dove, anche attraverso l’uso accorto di una versificazione prosastica e minimamente ritmica, il poeta affronta una pluralità di istanze quotidiane con un linguaggio di carattere epico civile capace di sollecitare, in misura nuova rispetto al percorso precedente, la metaforicità e la visionarietà delle parole proprio nel loro affollarsi e accalcarsi a rappresentare l’esterno. È un registro/ brusio contemporaneo che, sfrondando il velo degli inganni comuni, scopre il gremito della società, la sua radicale organica creaturale esigenza di spostamento, di viaggio migratorio, di lotta per la sopravvivenza, ma scopre anche l’altrettanto radicale impossibilità dell’altrove. Esigenza e impossibilità dello spostamento, di un viaggio negativo che sembra rimandare, come è stato notato, alla dedica introduttiva dei Minima moralia di Adorno: “Quella che un tempo i filosofi chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria”. Nel resoconto poetico di questa migrazione resistente, di questo tentativo impossibile di spostarsi rispetto al vigente, si tratta quindi, come sempre nelle opere di Majorino, di lavorare il verso, non solo a livello linguistico letterario, ma anche a livello linguistico politico. Si tratta di poetare criticamente, in quanto la sua poesia è volontà di capire la realtà sociopolitica: «Un’indagine colma di indizi raccolti dai versi, dalle parole calibrate che traducono parole in scene, dove è proprio il constatare, il prendere nota a diventare chiave di lettura per comprendere quanto il debordiano “mondo dello spettacolo” sia una sostanza assorbente che ci cattura e ci restituisce per essere ripresi di nuovo e di nuovo “strizzati”, riposizionati»83. La nuova matericità figurale della poesia di Majorino riproduce, quindi, la caotica varietà di un mondo creaturale in fuga, che trova sì la sua alleanza migratoria, la sua variegata somiglianza destinale, ma la trova in un viaggio veloce di anime-corpi che si fanno carico del male all’infinito, la cui libertà sta solo, forse, nella poesia che lo vive e racconta. Lo stesso poeta ha scritto negli Atti del Convegno di Letture. Per la poesia tra Novecento e nuovo Millennio (1997): «“Il mondo è un mondo in vendita, di soprusi, di autopromozioni, accompagnato da una costellazione mortificante di modelli di successo. Tra questa realtà e la scrittura sono intervenute mediazioni che non sono solo mediazioni: le comunicazioni di massa, l’industria culturale, le tonalizzazioni corporative. Il terreno di custodia della poesia è la libertà. Ma il poeta riesce ad essere libero in un mondo del genere? Solo mantenendo il più dilatati possibile gli ambiti propri della persona del poeta e dell’indipendenza della scrittura...”»84. La nuova fase poetica dettata da questo esplicito vigore visionario prosegue con Prossimamente (2004), dove versi nuovi convivono con altri, segnalati dal corsivo, prelevati da un poema iniziato nel ’69, in un periodo caratterizzato per il nostro dallo sperimentalismo realistico. L’esigenza è quella d’introdurre, da un lato il lungo poema che uscirà completo nel 2008, dall’altro l’attualità storica, in quanto i versi nuovi, scritti negli ultimi anni, hanno la funzione d’immettere il lettore nella contemporaneità85. In questo magma poetico, il linguaggio di Majorino rappresenta l’esterno con un registro complesso, tra il realistico e il visionario, alimentato dalla sua acuta volontà di capire, da un’istanza critica che, con una poesia fatta di versi, righe, “rigaversi”, mentre tenta di orientarsi nell’irrimediabile caos del mondo, riattualizza la sua tipica e originaria frontalità86. Infine, Viaggio nella presenza del tempo (2008), il lungo poema cui si accennava, scritto dal 1969 al 2007, l’opera di una vita, il maggiore contributo di Majorino alla poesia italiana, dove l’intreccio di realtà personale e storica si proietta in una combinazione di trame personaggi situazioni, in un’oscillazione delle direzioni temporali orientate al passato-presente e al presente-futuro, in una costellazione di quotidianità, riflessione e percorsi onirici capaci pure di alludere agli interstizi dell’ignoto, in un’inquietudine linguistico formale che, attingendo a registri e modalità della narrativa e della saggistica, produce un flusso poematico capace sia di esprimere la provvisorietà dell’ esserci che di reinventarne la meraviglia.

Tirando le somme del suo percorso di vita e letteratura, bisogna anzitutto dire che quello di Majorino è stato e continua ad essere un lungo agone poetico con la realtà, sempre innervato da un pensiero critico capace di affrontare a viso aperto il destino storico dell’uomo contemporaneo. Anche nei testi critici, dalla prima antologia Poesie e realtà ’45-’75 del 1977 a La dittatura dell’ignoranza del 2010, il confronto con la realtà ha sempre trovato spazio per argomentare le proprie ragioni e “irragioni”. In particolare, nella più volte citata antologia Poesie e realtà 1945-2000 la scrittura critica di Majorino trova un acme teorico espressivo, di cui sarà forse utile, anche per meglio inquadrare il concetto di dittatura dell’ignoranza, riportare la pagina iniziale, ribadendo che l’intera sezione saggistica è altra rispetto a quella dell’antologia del 1977, ritenuta dall’autore stesso ormai inadeguata soprattutto rispetto all’orientamento critico, basato lì sul concetto di opposizione, qui sul concetto di spostamento, su cui tra breve torneremo: «la giornata faticosa - Vivere è diventato stancante. Presso persone che lottano per non soccombere, stanno persone che non sanno che fare, persone immerse in un tran tran e persone che opprimono o sfruttano. Il groviglio dei fatti e la mescolanza di verità e falsità delle informazioni ostacolano il capire. Una quota sempre maggiore di affaticati si lascia andare, puntando a sopravvivere e basta. Altri, per non cadere, si aggrappano a valori spenti, a riferimenti inidonei. Stringendo al viavai quotidiano: sproporzioni tra impegno e gratificazioni, montagne che ininterrottamente partoriscono topolini; umiliazioni di ogni genere e ri-mozioni a pioggia; un vortice di rabbie trattenute che distruggono o devono rientrare; recitazioni insostenibili di felicità e di senso; incomprensioni di variatissima gamma e specie; errori e fraintendimenti faziosi che si rincorrono; al centro, un logorìo senza tregua di possibilità. Applausi dai muri sembrano risuonare per chi rincasi sano e salvo. La canzoncina che ha vinto nel 1997 a Sanremo, “Fiumi di parole”, emblematizza il girare a vuoto dei discorsi, delle promesse, delle prediche. L’incremento delle confusioni tocca livelli mai raggiunti: non esiste boss né autorità di alcuna risma o sovranità capace d’intendere cosa accada o stia per accadere. Tutti in balìa o dalla balia (naturalmente, su piani diversi di responsabilità, di arroganza, di significato). Le comunicazioni di massa straripanti e pervasive sino all’ultimo capello, costruendo “stalle di realtà”, cooperano al marasma, pur svagando. Sogni di facilità riempiono i cuscini ma non di giorno. Il denaro, questo equivalente imbattibile, risana i malati, raddrizza gli storpi, abbellisce i brutti ecc. come dicevano Shakespeare e Marx? sì e no. Il potere, a volte il poterino di avere anche un solo dipendente, o una sola ammiratrice, sembrano disputarne il primato. Potremmo continuare; premeva dire dove siamo».87

Questo moto critico sociale con cui Majorino apre l’antologia s’interseca, poi, in un unico movimento discorsivo, con quello critico letterario, nel sottolineare ad esempio, riguardo all’esegesi poetica, la necessità di una terza coordinata oltre quelle tradizionali di “musica e senso” alias forma e contenuto, cioè quella del “dissenso”, onde evitare il pericolo di una riduzione del valore poetico alla sola testualità. Se è vero cioè che la benemerita centralità del testo evita lo sviamento di ogni psicologismo, storicismo o biografismo, è vero pure che il testo di per sé non è autosufficiente a esplicare la sua relazione con la realtà, c’è bisogno per questo di osservare il suo incrociarsi con essa, il suo approssimarsi o distanziarsi da essa, il suo fattore di criticità – la sua, volente o nolente, ideologia. Il fattore di criticità dell’opera non va inteso, però, in termini di opposizione, bensì di spostamento, concetto che si caratterizza nel «rifiuto sia delle adesioni, sia delle opposizioni al suggerito, all’elogiato, al vidimato (che sono procedure tutto sommato complementari, una sorta di cupola automanifestantesi e chiacchierante senza tregua, e per l’intero globo, di Cultura, Arte, Sapere, Bellezza e altri Nomi Numi)»88. Nel senso critico del termine, lo spostamento è necessario più che mai, prosegue Majorino – richiamando le analisi di Lotman, i cui studi di semiotica, ispirati a criteri strutturalisti, hanno affrontato interpretazioni relative all’intera realtà culturale (vedi La semiosfera, studio sui meccanismi delle “strutture vive”, capaci di trasmettere significati) –, poiché oggi la cultura, intesa come sistema secondario di modellizzazione, con relativi sottosistemi e codici, tra cui quello letterario, non è più in grado di mediare tra la realtà, strutturata nella sua informità iniziale dalla lingua cioè dal sistema primario, e la possibilità di elaborare e trasmettere conoscenze e informazioni, di essere portatrice di significato e memoria non ereditaria di una collettività, mediazione da cui deriverebbe la sua vitalità e la sua qualità formativa. Ciò è dovuto a «una combinazione di fattori ostili o indifferenti, forse mai così agguerriti»89; in pratica il neocapitalismo, che ha sviluppato oltremisura il dominio del denaro e della tecnologia, cioè l’egemonia del campo economico finanziario sia su quello sociopolitico sia, attraverso l’asservimento delle comunicazioni di massa, su quello psicologico. Se, quindi, il rapporto tra realtà e cultura si manifesta sempre nel segno, o dell’opposizione o del passaggio (assimilazioni, rifiuti, combinazioni), se cioè, come sempre accade – mediante l’attività modellatrice e normativa, attraverso il complesso di testi e linguaggi relativi alla loro trasmissione (metalinguaggi) che la cultura stessa produce –, il congegno della cultura tramuta ogni opposizione o in variante o in interpretazione, «emarginando o rifiutando ciò che non si presta alla “tramutazione”»90, oggi è proprio tale processo sistemico a passare inosservato, provocando la coazione di ogni spostamento a rifluire in canali approssimativi ed elementari, essendo la collettività soggetta alla dittatura dell’ignoranza. Il condizionamento ideologico sempre più o meno inerente ai processi di autodeterminazione, autovalorizzazione e automitizzazione della cultura oggi è così sottile e pervasivo da essere sottaciuto, da risultare invisibile, ed è proprio per questo perfettamente in grado di limitare in misura inedita la libertà necessaria alla cultura stessa per essere tale. È venuto meno insomma il fattore di criticità, la cui assenza generalizzata provoca inevitabilmente la dittatura dell’ignoranza, un sintagma, o concetticona, che Majorino declina in ogni ambito linguistico a lui proprio, poesia critica didattica, consapevole com’è che in queste condizioni l’immaginario collettivo tende a fagocitare l’immaginario personale, producendo una progressiva impossibilità di soggettivazione autonoma, alias “bambinizzazione” della società.

Osservata l’impostazione dell’antologia, e tenendo presente il complesso orientamento filosofico inquadrato all’inizio del percorso, possiamo provare a delineare la matrice dialettica del pensiero di Majorino. A mio avviso, la dialettica di Majorino ha certo un’ascendenza hegelomarxista, in quanto il processo dialettico è di stampo hegeliano e l’ambito di applicazione è la realtà esterna concepita come prodotto dell’agire storico sociale dell’uomo, tuttavia con una singolare differenza: essa contempla sì tre passaggi – tesi, antitesi e sintesi –, ma la sintesi non ha carattere di necessità ed è strutturalmente aperta. Nel pensiero di Majorino, la contraddizione viene risolta solo a determinate condizioni, che rimandano sempre al concetto di criticità: se il finito in questione vuole raggiungere la sintesi della sua contraddizione, bisogna che attivi l’elemento critico – tesi e antitesi, incarnate nei poli della contraddizione, vengono cioè dialettizzate solo dall’innesto di un terzo elemento capace di sovvertire o “spostare” l’opposizione. La sintesi del processo dialettico, sebbene attuata da un elemento che mantiene la funzione costante, in ogni ambito linguistico e ad ogni livello di discorso a cui viene applicato, di attivare una mediazione consapevole, intelligente, critica appunto, tra gli altri due in opposizione polare tra loro, non è infatti necessaria; l’opposizione potrebbe benissimo restare in tensione senza che si determini il passaggio alla conciliazione, in uno stato potremmo dire di angoscia, nel senso kierkegaardiano del termine, o anche, che è lo stesso, in uno stato di ignoranza, potrebbe cioè cristallizzarsi in una struttura diadica simile alla dialettica negativa adorniana. Inoltre la sintesi, quando si attua, non implica una logica dell’identità o del dominio, in quanto il differente, il negativo, cioè l’antitesi, non viene ridotto a risultato unitario, all’inveramento di tesi e antitesi, ma confluisce in una ossimorica unità differenziale che mantiene aperto o attivo lo scarto tra positivo e negativo, e che potremmo definire sintesi critica. Quindi la dialettica di Majorino implica le seguenti caratteristiche: è inerente alla dimensione storico sociale dell’uomo; ha un’esplicita valenza etica, nel senso che implica l’apertura di un’alternativa, presuppone una domanda esistenziale; infine la sintesi è aperta e non necessaria. Agendo infatti in diversi ambiti teorico linguistici, concetti e sintagmi nel pensiero critico di Majorino si articolano spesso in strutture dialettiche aperte. Ad esempio i due concetti, della centralità dell’esistere di ognuno, ossia la crucialità dell’esserci, l’unica vita – tesi –, e della struttura della società contemporanea che, rispetto al proprio modello, trasforma e omologa ogni unica vita riducendola a vitetta – antitesi –, trovano la loro dialettica grazie all’elemento critico della triade, in questo caso il valore relazionale di ogni persona, ossia il fatto che ciascuno, oltre ad essere un’unica vita, è anche un singolo-di-molti tra singoli-di-molti – sintesi –, con cui s’intende molti incontri passioni esperienze studi ricerche ecc., una rete di potenzialità effettuale capace di contrastare, se attivata, la coazione della società mirante alla trasformazione dell’unica vita in vitetta. Ma qui sta il punto: se attivata. Non è affatto necessario che ogni persona, la tesi/unica vita, acquisisca la consapevolezza critica del proprio valore relazionale, né si può dire che, una volta acquisita, l’antitesi/vitetta venga totalmente risolta nella sintesi, in quanto i molti della sintesi/singolo-di-molti possono essere sia altri singoli-di-molti sia vitette. Altro esempio di dialettica aperta può essere, come si è visto poco sopra, l’aggiunta dell’elemento del dissenso inserito al fianco di quelli di musica e senso, un elemento critico valido, non solo in sede di analisi, ma anche in sede di creazione del testo, tuttavia niente affatto necessario e tanto meno pacificatorio. È dunque il fattore di criticità il perno dialettico del pensiero di Majorino, sebbene sia possibile riscontrarne anche l’assenza problematica, ad esempio in una valutazione di ordine sociopolitico come l’opposizione tra ricchezza e miseria. Non a caso, chiudendo l’introduzione dell’antologia Poesie e realtà 1945-2000, Majorino si chiede cosa sia la letteratura, l’arte, la cultura in una società che separa e distanzia sempre più chi ha e quindi è da chi non ha e quindi non è, dove la forbice allargata riguarda pure chi ha conoscenza letteraria, artistica ecc., e chi no. Anche rispetto a questo pensiero oppositivo, connotato dai poli letteratura e società, il ritmo dialettico stenta ad attivarsi, sebbene il poeta, di fronte a una letteratura che pur così osteggiata e umiliata continuare ad esistere e resistere, tenti una risposta: «Si potrebbe, forse, riesumare un bel sostantivo: l’onestà. Liberabile dallo squame se inteso entro l’inquietudine primaria del rapporto tra scrittura e verità; quindi, nella pienezza di una responsabilità duplice, e nei confronti dei propri materiali e nei confronti dell’esistenza altrui e propria. Carenti risultando i portatori di una sola delle due responsabilità, perché ricadenti, rispettivamente, in ciò che un tempo si appellava “formalismo” oppure in ciò che un tempo si appellava “contenutismo”. Nomi gioia per la pigrizia docente»91. Ritorna, qui, il concetto sabiano di onestà, per quanto intriso di scetticismo (“Si potrebbe, forse, riesumare...”) e considerato, a me sembra, al di là di ogni astinenza critica (“Liberabile dallo squame se inteso...”). Anche in questo caso, comunque, quella di Majorino (evidenziando, forse, una vena blochiana) si presenta come una dialettica aperta, critica, la cui sintesi non è necessaria né pacificatoria; una dialettica, né positiva o hegelomarxista né negativa o adorniana, né ottimistica né pessimistica, ma scettica con speranza.

Nessuna meraviglia, quindi, se nella coerenza di un perpetuo confronto critico con la realtà l’ultimo scritto di Majorino, La dittatura dell’ignoranza. Il regime invisibile (2010), in cui torna in misura sintetica parte del materiale saggistico dell’antologia, si presenta come un atto di resistenza critica di fronte a quella che, in Italia come altrove – sebbene l’Italia “ne rappresenti un campione effervescente” –, è una situazione culturalmente degenerata fino alla dittatura92. Si tratta di una dittatura inedita, fatta di comunicazioni di massa, pubblicità, spettacolo, omologazione, separazione tra società e conoscenza, dominio del denaro e del potere; una sintonia tra flussi informativi, interessi capitalistici e immaginario collettivo, che genera un regime autoritario strutturato sulla “divisione irreparabile” tra chi gestisce le ricchezze e chi cerca di sopravvivere. Nei brevi capitoletti che compongono il pamphlet, la cui forza sta in un linguaggio capace di tenere insieme critica e metafora, ragione e immaginazione, si susseguono, in sequenza lineare o a salti, cause ed effetti di questa inedita dittatura, quasi intrecciati in un’unica causalità strutturale ed evidenziati da schemi logico metonimici come il seguente: crescita illimitata della popolazione mondiale sempre più concentrata nelle metropoli / sopraffazione sistematica (irresponsabilità menefreghismo profitto) mirata alla “distruzione dei vivi” / popoli migranti in fuga dai paesi poveri verso le metropoli congestionate. La dittatura dell’ignoranza è un cosmo dittatoriale, nei paesi ricchi “arredato democraticamente”, rispetto alla cui pervasività politica sociale economica le possibilità di non adeguarsi sono scarse, di fronte alla quale bisogna tuttavia provare a “spostarsi”. Metafora, quest’ultima, utile a ribadire la necessità di un pensiero critico che, sebbene alla portata di pochi, può essere attivato da molti, in quanto ciascuno di noi è, sì un’unica vita, ma anche un singolo-di-molti: ogni persona, essendo un nucleo di relazioni con altre persone, è una ricchezza da far fruttare, un’alternativa possibile al massacro antropologico in atto cadenzato da slogan imperativi e rasserenanti come “comprare, quietare, avere successo”, analoghi ma diversi da quelli del fascismo: “credere, obbedire, combattere”. La dittatura dell’ignoranza, la forma centrale del potere attuale, non ha infatti bisogno della mano armata, come ancora accade nelle “dittature periferiche”; essa conduce per mano al mercato, gestito dai “sopra” dei paesi ricchi, una massa di consumatori-lavoratori di continuo rinfoltita dai “sotto” dei paesi poveri che migrano. In mezzo, tra le due lame della forbice – ma dal punto di vista socioeconomico quasi sempre tra i sotto –, il “cetomedio”, per la più parte quiescente, in alcuni casi lucido riguardo al regime in cui è immerso, tuttavia contento del suo piccolo spazio vitale, che preferisce tenersi ben stretto invece di rischiarlo per cambiare la realtà – per questo il lavoro è sopportato da chi ce l’ha, cercato da chi non ce l’ha. I “cetomedisti”, cioè, conoscendo i caratteri delle due lame della forbice, potrebbero guidare il cambiamento della realtà, ma vivono assoggettati da una duplice persuasione: la speranza di arricchirsi lavorando di più o meglio, raggiungendo i primi gradini dei sopra, a volte un “poterino”, e la paura di impoverirsi lavorando di meno o perdendo il lavoro, precipitando tra i sotto, nell’emarginazione. Tutto questo perchésono venute a mancare le passioni conflittuali della cultura e le sue possibilità inattuali; la cultura si è barricata nell’autoreferenzialità di specialismi più o meno corporativi, le “fortezze assediate”, e nello stesso tempo è stata allontanata dalla gente grazie a una stretta alleanza tra potenti, governanti e mafiosi. Riprendendo l’analisi di Lotman, Majorino nota come la cultura, dopo che la lingua ha dato una prima forma alla realtà, non riesca più ad assolvere il suo compito strutturante ossia mediare tra la realtà e la società al fine di elaborare e trasmettere conoscenza e informazione; nell’ignoranza diffusa del suo congegno, che tramuta le opposizioni in interpretazioni o varianti, emarginando e rifiutando tutto ciò che non si subordina alla “tramutazione”, accade che ogni tentativo di spostamento rispetto alla realtà vigente è costretto su piani approssimativi ed elementari. Chi vuole acquisire cultura, ha bisogno di un radicale dispendio di energie per costruirsi da solo la propria “spina dorsale”, lo spirito critico, cioè il rapporto con l’esterno, l’elemento comune a ogni opera d’arte o di ragione che, in quanto tale, porta necessariamente in sé il segno della realtà da cui nasce, “senza, con questo, trasformare la filosofia in ideologia, l’arte in cronaca”. E lo spirito critico si forma poco alla volta, con gli incontri, lo scambio, lo studio, attraverso soprattutto un’acuta autocritica. L’alternativa possibile a tale dittatura è data dunque, per Majorino, dal pensiero critico, coltivato in sé e condiviso con gli altri, le cui forme, per quanto poco o nulla evidenti, costituiscono, quando ci sono, “vie-di-mezzo spostate” rispetto alla pressante omologazione a cui è sottoposta la vita di ognuno. Un’alternativa che potrebbe assumere la forma di una rete di criticità resistente se coinvolgesse, non solo la poesia e la letteratura in genere – sempre più marginalizzata perché traduce in parole le immagini, nonché offuscata dalla mercificazione sovrapproduttiva e consumistica del libro/merce –, né solo le forme d’arte nel loro complesso – la cui ricerca, ormai esasperatamente problematica, produce sempre più in regime di autonomia e sempre meno in regime di eteronomia, intesa quest’ultima come criticità inerente al proprio tempo da intrecciarsi all’autonomia dell’artista –, ma ogni sapere critico, senza dimenticare la scuola, dove diverse metodologie didattiche e di ricerca sono essenziali di fronte a una dittatura che ha delegato la trasmissione del sapere al sistema dei media, il cui status servile nei confronti del potere economico non può che produrre, invece della cultura, la sua spettacolarizzazione, la pseudo cultura. Artisti e pensatori dovrebbero recuperare magnanimità e libertà relative al proprio operare, così come un po’ tutti quelli che possono dovrebbero possedere il necessario e incontrarsi con i somiglianti nel colloquio dei vissuti, per non cadere nello stato paravegetativo del “buon beato”, cioè di colui che si lascia permeare dall’ignoranza, dal modello di vita inautentica che, calato dall’alto per la natura stessa del sistema dittatoriale, porta a non desiderare, a non domandare, a non conoscere più nemmeno ciò che si pensa. Alla dittatura dell’ignoranza non può contrapporsi che la resistenza di una cultura critica connessa alla realtà di coloro che stanno sotto, senza sperare in opposizioni canoniche. In modo retorico, il poeta infatti si chiede: “è possibile andare al potere se non si è ignoranti?”. La risposta è implicitamente negativa, anzi, a ragione sottintende che, senza essere ignoranti, è impossibile pure mandare al potere, poiché un condiviso stile di vita, immedicabilmente orientato alla ricerca del profitto, accomuna eletti ed elettori. L’opposizione canonica, che si attua in campo politico ma non solo, sarebbe un nascondersi nel no di quel sì, “gli stessi rappresentanti politici dell’Opposizione appaiono quasi sempre omogenei più alla cultura di massa che alla cultura”. L’unica è spostarsi, ricentralizzare pensiero, arte, etica, “le tre bestie nere dei media”, congiungendole alla realtà degli umiliati senza voce; lavorare sull’immaginario collettivo, viaggiare nella presenza del tempo chiedendosi e chiedendo continuamente: “ma sai cosa vuol dire vivere in Italia?!”93. Per la persona munita di criticità, spostarsi significherebbe infatti, rispetto al presente evitare percorsi preconfezionati e rispetto al futuro inquadrare varianti effettivamente ignote. In questo senso artisti e pensatori, soprattutto chi usa la scrittura, dovrebbero fare interagire il loro sapere con la realtà, dovrebbero creare o produrre testi che siano vie-di-mezzo, passaggi che, al contrario dell’imposizione comunicativa, mettano in contatto le persone che sanno con quelle che non sanno, le persone che sanno molto con quelle che sanno poco, le persone critiche con i somiglianti, i “similidissimili”. Non è facile, per niente, il tono del pamphlet è tanto propositivo quanto scettico. Lo scetticismo traspare soprattutto nei capitoletti costruiti su immagini naturali invece che concettuali, negli squarci espressivi che si aprono all’improvviso nel testo, dando al lettore la sensazione di un precipizio immanente, un baratro sempre mezzo passo davanti ai piedi. Eppure questa è la proposta che resta: la persona e il suo spirito critico al centro. “Meno comunicazioni di massa, più vie-di-mezzo, cioè ipotesi di connessioni che non si fanno impaurire, passaggi temporali indagati personalmente (sempre che la persona, continuando a usare sto nomignolo, non si reputi particella di una massa matassa né individuo scisso). È un impegno spostato, un ampio sogno di carne per chi ci crede”.

Un sogno certo necessario, perché oggi si vive sotto la dittatura dell’ignoranza e se l’uomo di cultura non ne diviene pienamente consapevole, se non usa l’arma della criticità, se non attiva le possibilità inattuali e conflittuali della sua stessa cultura, toglie a tutti gli altri la possibilità di ogni (r)esistenza critica, aiutando così la dittatura a durare. Tuttavia, che ci si creda oppure no, alla fine anche questo “sogno di carne” fallirà, perché la (r)esistenza critica non è un rimedio, nel senso che da sola non basta a cambiare la storia. Come le generazioni di Gramsci, di Pavese, di Pasolini, in questa (r)esistenza critica contro la dittatura dell’ignoranza anche la nostra generazione fallirà: l’evidenza negativa del processo storico in atto non lascia speranza, falliremo ancora, abbiamo già fallito, perché noi sappiamo bene cosa vuol dire vivere in Italia. Vivere in Italia vuol dire fallire, il fallimento è il nostro für ewig, la nostra esistenza autentica, la nostra alienazione strutturale – ma la poesia, la filosofia, la cultura è vita disalienata dalla critica del suo perenne fallimento. Conoscendo la necessità del fallimento e le possibilità del pensiero critico, possiamo solo decidere se in Italia noi vogliamo vivere oppure no.

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Giancarlo Majorino (Milano, 1928) ha pubblicato testi di poesia: La capitale del Nord (Schwarz 1959, Edizioni dell’Arco 1994), Lotte secondarie (Mondadori 1967), Equilibrio in pezzi (Mondadori 1971), Sirena (Guanda 1976), Provvisorio (Mondadori 1984), Ricerche erotiche (Garzanti 1986), Testi sparsi (Prova d’Autore 1988), La solitudine e gli altri (Garzanti 1990), Cangiante (Scheiwiller 1991), Sosia. Lampada (Edizioni Rizzardi 1994), Tetrallegro (Mondadori 1995), Le trascurate (Edizioni Stampa 1999), Autoantologia (Garzanti 1999), l’audiobook Milioni di minuti (Ruggimenti 2000), Gli alleati viaggiatori (Mondadori 2001), Prossimamente (Mondadori 2004), Viaggio nella presenza del tempo (Mondadori 2008), La nube terra (Il Faggio 2008). Inoltre, testi critici e antologie di poesia italiana: Poesie e realtà ’45-’75 (Savelli 1977), Centanni di letteratura (Liviana 1984), Passaggi critici (Punti di mutamento 1984), Poesie e realtà 1945-2000 (Tropea 2000, 2005), La dittatura dell’ignoranza. Il regime invisibile (Tropea 2010); testi di teatro e di musica: L’uccellino meschino (1979), Fanno notte del giorno (1987), Elektra (1990), Castigo e delitto (1993), Io io io (1993-94), Provvisorio: primo viaggio (1994), Provvisorio: secondo viaggio (1996), Viali con le ali (2000), Carne capitata (1999-2001); ha curato le riviste Il Corpo (1965-68), Incognita (1982-83), Manocomete (1994), e le collane “Poesia e realtà” per l’editore Savelli con Roberto Roversi, e “Poesia” per la Società Editrice Napoletana. Recente ma di difficile reperibilità è Nell’epoca del gremito. Conversazioni con Giancarlo Majorinodi Victoria Surliuga e Giancarlo Majorino (Archivi del '900 2008). Vincitore di numerosi premi letterari, tradotto in più lingue, è tra i fondatori della Casa della poesia di Milano; negli ultimi anni ha insegnato estetica, semiotica e analisi della scrittura alla Nuova accademia di belle arti (NABA). Per la bibliografia critica, vedi la sezione Critica nel sito http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm; l’Autoantologia (Garzanti 1999, pp. 347-399); Poeti italiani del secondo Novecento, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, 2 voll., Mondadori 2004, II, pp.1203-1205.

 

 

Tre poesie di Giancarlo Majorino

 

Trentaseiesimo canto

il proprietario, vòltosi alle ombre che susseguono fuori dai vetri, canta:

tu devi entrare! o tu! o tù o tù

ti prendo... ti tiro dentro...

qualcuno entrerà in sto cazzo di negozio...!

te ti prendo per le braccia te le spacco se non entri... èentra!

devi venire dentro... guarda: quante cose... troverai ben qualcosa

da comprare, da prendere ché ti piaccia, qualcosa da portar via

stronzo! stronzo maledetto! io ti spacco la giacca se non entri

ti strappo le braccia le mani le dita una per volta uno per tutti

vòi dovete comprare: uno via l’altra prendere un coso e andare

pagando s’intende, come quella che dice: che bella quella: io vorrei...

è mia moglie..! pagando, s’intende, capito, hai capito testa di cazzo

tu che passi e vai, quanti come pesci dentro il vetro e basta! singoli coppie

terzetti quartetti, fermi per un attimo, poi vìa! ma hai guardato bene

che meraviglia, guarda: quante cose una meglio dell’altro

belle utili, tù devi entrare dovete entrare comprare se no son sfottuto

con tutti i soldi i debiti che devo, starò mica qua come uno scemo guardando

guardare le mie robe sole solitarie zitelle che nessuno le vuole

tutte le mattine vedo la morte: passo prima d’entrare per le molteplici

le quindici venti vetrine delle grandi Spa, di chi mi sta

uccidendo, stan per aprirsi, qua e là volteggiano commesse altre

si fermano dietro le casse, tra poco decine entrano, macroaziende

tutti e tutte dentro lì a girare circolare guardare poi altre decine

centinaia migliaia prèndono fanno la fila impacchettati anche loro

e vanno vanno pagando s’intende dopo aver pagato stronzi maledetti

tutte le mattine vedo la mia morte nelle mie due vetrine penetrando

quasi furtivo buie colle mie cosine che sembrano chiamare e loro là

loro là le Spa di grande vendita grande consumo file file e file

di vetrine e personcine in un marasma di cose da guardare da

scegliere comprare pagare andando

vìà!

portano la morte la morte

mìa

(Giancarlo Majorino, da Viaggio nella presenza del tempo, Mondadori 2008, pp. 120-121.)

 

 

 

i ricchi:

 

la bell’epoca del massacro taciturno distante labell

tacete dunque

tacete, voi non sapete

labell il nostro attuale dilaceramento

e in un sifà perdire svolavan svompì cupola flesh wompì

o cosmo azzurro blì

 

bianco invece illustre d’omertà, lurido che parla anche se tace

 

era una tesa mammella grondante salute ahi

nella vetrina dell’aria ciascuno col prezzo sì

memoria di garofani all’occhiello ahi

forchettate di fesa

forchettate di fesa, silenzio, proletaria dovunque ssstt

laccio di scarpe giù dalle gengive

tacete dunque – no – tacete! tacete voi!

che non sapete! tacete voi non sapete

labell

 

(Giancarlo Majorino, da Provvisorio, in Autoantologia, Garzanti 2009, p. 201).

 

 

andavamo tutti come fosse un’emigrazione

 

andavamo tutti come fosse un’emigrazione

chi per acqua chi per terra, allarmati

notammo che un leone ci oltrepassava

ma era come quando nella tundra incendiata

fuggivamo insieme felini e prede uccelli e serpi

cos’era cosa poteva esser stato nulla ricordo

non fatti precisi non odor di bruciato migravamo

in ratti gusci motorizzati e caschi a piedi scalzi

da chi sa che mossi transitavamo nel piano sembrante discesa

così potevamo saremmo riusciti a scampare a arrivare ansando entro

quando? in tempo e non contavano orario e luogo transitare

occorreva, altro corpo! snello basso e tozzo su quattro sciolte zampe

quasi una lotta di molte zampe gambe

una testa bianca tra colli di giraffe

sandali orme zoccoli nella sabbia

nel suo trotto a zig zag cinghiale irsuto

con famiglia a fianco bimbo su bici

gara di motocicli chiatte e scafi accanto

una universale processione forte respirante

sbandata ma diretta senza macchine da presa

o per quegli apparecchi occhialuti ritrasmessa

eravamo dentro pure per noi scorreva noi fissi davanti

cosa preoccupava il rinoceronte con intorno il vuoto?

la mandria pelosa che panicata quasi s’ingoiava?

la coppia remante arti e respiro sotto forte ipnosi?

il caduto rischiava tutto ma

capitava e dopo un grido d’aiuto

quasi tranquillizzato si chetava

trafitto schiacciato

 

trafitto schiacciato, per le mosche

i fastidiosi insetti non v’era tempo

di notarli, né i canterini uccelli

dardeggianti vi saranno stati

non era il momento di ricercarli non era il momento

andava come l’acqua un’acqua umana

e animale a non si sa che pozzo tentando

abbandonando non si sa che male

 

(Giancarlo Majorino, da Gli alleati viaggiatori, Mondadori 2001, pp. 7-8).

 

 

Materiale video:

1) La dittatura dell’ignoranza, intervista a Giancarlo Majorino, a cura di Dario Guzzeloni:

http://www.youtube.com/watch?v=8oAU4RLGvu0&feature=player_detailpage;

2) Voci e luoghi, poeti contemporanei, Giancarlo Majorino, ideazione e regia di Vincenzo Pezzella:

http://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=TLt8QHv-K40;

3) 79/centodecimi, trailer per il documentario su Giancarlo Majorino, directed by Martin Cannas, Alberto Violante and Enrico Deconti (NABA):

http://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=hDv6dVJidA8;

4) Paroledipoeta, Giancarlo Majorino, videoritratto a cura di Bruno Bigoni e Fabio Carlini:

http://www.youtube.com/watch?v=Rpru93h8djA&feature=player_detailpage;

5) Sulla lastra del giorno, la poesia di Giancarlo Majorino in un video del 1995:

http://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=4uWF1TP82As.


Note con rimando automatico al testo

 

1 In http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Lettere, Isabella Colonna Preti e i suoi alunni.

2 Vedi MAJORINO G., La dittatura dell’ignoranza. Il regime invisibile, Tropea, Milano 2010.

3 Cfr. PASOLINI P.P., Il genocidio (Scritti corsari); Le mie proposte su scuola e Tv (Lettere luterane), in Id., Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 2006, pp. 511-517; 693-699.

4 MAJORINO G., Poesie e realtà 1945-2000, Tropea, Milano 2005, p. 124.

5 Ivi, p. 32.

6 MAJORINO G., http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Biografia (insegnamento).

7 Cfr. ASOR ROSA A., Lo Stato democratico e i partiti politici, in Letteratura italiana 1, Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1982, pp. 549-569.

8 Cfr. D’ALESSANDRO F., Appunti in margine ad alcune antologie poetiche del Novecento, in Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, a cura di Giuseppe Langella e Enrico Elli, interlinea, Novara 2004, pp. 31-32.

9 Cfr. PORTINARI F., Milano, in Letteratura italiana, Storia e geografia III. L’età contemporanea, Einaudi, Torino 1989, pp. 266-268.

10 Cfr. ivi, p. 277.

11 Cfr. GIOVANARDI S., Introduzione, in Poeti italiani del secondo Novecento, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, 2 voll., Mondadori, Milano 2004, I, pp. XVI-XVII.

12 Cfr. RABONI G., La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004, a cura di Andrea Cortellessa, Garzanti, Milano 2005, p. 198.

13 MAJORINO G., Poesie e realtà 1945-2000, cit., p. 37.

14 Cfr. MAJORINO G., http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Bibliografia, Poesie e realtà 1945-2000.

15 MAJORINO G., Poesie e realtà 1945-2000, cit., p. 111.

16 MAJORINO G., http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Bibliografia, Poesie e realtà 1945-2000.

17 Cfr. GIOVANARDI S., Introduzione, in Poeti italiani del secondo Novecento, cit., I, p. XIX-XXIV.

18 Cfr. FERRETTI G. C., Il mercato delle lettere, il Saggiatore, Milano 1994, pp. 157-169.

19 Cfr. LISA T., Le Poetiche dell’oggetto da Luciano Anceschi ai Novissimi, Firenze University Press, Firenze 2007, p. 51.

20 D’ALESSANDRO F., Appunti in margine ad alcune antologie poetiche del Novecento, in Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, cit., p. 34.

21 BULLETTA S., Ideologia e linguaggio nella neoavanguardia, in Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, cit., p. 197.

22 FERRETTI G. C., Il mercato delle lettere, cit., p. 243; cfr. ivi, pp. 243-262.

23 Ivi, p. 178, n. 4.

24 BERARDINELLI B., Cominciando dall’inizio, in BERARDINELLI A. / CORDELLI F., Il pubblico della poesia. Trent’anni dopo, Castelvecchi, Roma 2004, p. 7.

25 MONTALE E., È ancora possibile la poesia?, in Id., Sulla poesia, Mondadori, Milano 1997, p. 10.

26 Cfr. LISA T., Le Poetiche dell’oggetto da Luciano Anceschi ai Novissimi, cit., pp. 43-53.

27 MOTTA U., Vittorio Sereni e i poeti della “linea lombarda”, in Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, cit., p. 182.

28 MAJORINO G., Poesie e realtà 1945-2000, cit., pp. 39-40.

29 PORTINARI F., Milano, in Letteratura italiana, Storia e geografia III. L’età contemporanea, cit., p. 285.

30 RABONI G., La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiana 1959-2004, cit., p. 209.

31 GIOVANARDI S., Introduzione, in Poeti italiani del secondo Novecento, cit., I, p. XXV.

32 Cfr. PAGLIARANI E., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, “Avanti!”, 30 maggio 1959.

33 Cfr. RABONI G., “Aut aut”, marzo 1966, in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), Garzanti, Milano 1999, pp. 349-351.

34 Cfr. GIUDICI G., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, Alla ricerca della “nuova sinistra”, “Corriere della Sera”, 19 dicembre 1976.

35 Cfr. MAJORINO G., http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Bibliografia, Lotte secondarie.

36 Cfr. CUCCHI M., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, “Lotte secondarie” di Giancarlo Majorino, “Poesia”, maggio 1990.

37 BERARDINELLI A., Letterati e letteratura negli anni sessanta (Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, Einaudi, Torino 1995), in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., pp. 382-383.

38 SANTAGOSTINI M. (Istmi. Tracce di vita letteraria, a cura di E. De Signoribus, Arti Grafiche Stibu, Urbania 1996), in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., pp. 388-391.

39 Cfr. PEDULLÀ W., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, Come curare la “vergogna” di produrre letteratura, “Avanti!”, 29 agosto 1971; BELEZZA D., “Paese Sera”, 15 ottobre 1971, in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., pp. 354-355.

40 PONTIGGIA G., “Il Verri” n. 5, 1977, in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., p. 356.

41 PICCINI D., I poeti del “Pubblico della poesia” e della “Parola innamorata”, in Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, cit., pp. 234-235.

42 GIOVANARDI S., Introduzione, in Poeti italiani del secondo Novecento, cit., I, p. XXXIII.

43 Vedi LUZZI G., Poeti della Linea Lombarda 1952-1985, CENS, Milano 1987; cfr. LISA T., Le Poetiche dell’oggetto da Luciano Anceschi ai Novissimi, cit., p. 43, n. 2; pp. 50-51, n. 43.

44 GIOVANARDI S., Introduzione, in Poeti italiani del secondo Novecento, cit., I, p. XXXV.

45 MAJORINO G., Poesie e realtà 1945-2000, cit., p. 224.

46ASOR ROSA A., Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, Laterza, Bari 2009, p. 104.

47 GIOVANARDI S., Introduzione, in Poeti italiani del secondo Novecento, cit., I, pp. XXXVIII-XXXIX.

48BERARDINELLI A., Cominciando dall’inizio, in BERARDINELLI A. / CORDELLI F., Il pubblico della poesia. Trent’anni dopo, cit., p. 8.

49 Cfr. NOVE A., http://www.sparajurij.com/tapes/deviazioni/AldoNove/HASCRITTOholden.htm, La poesia dopo la fine della poesia. Traduzione letteraria e happening, Baci Perugina e rap.

50 Ibid.

51 MAJORINO G., http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Bibliografia, Poesie e realtà 1945-2000.

52 ZANZOTTO A., Tra passato prossimo e presente remoto, in Id., Le poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 2007, pp. 1366-1377.

53 Cfr. Dopo la lirica, poeti italiani 1960-2000, a cura di Enrico Testa, Einaudi, Torino 2005, pp. XVII-XXX.

54 Ivi, pp. XXVIII-XIX.

55 GIOVANARDI S., Introduzione, in Poeti italiani del secondo Novecento, cit., I, p. XLI.

56 Cfr. SABA U., Tutte le prose, Mondadori, Milano 2001, pp. 674-681; pp. 1406-1407.

57 MORETTI M. C., «Guardare e ascoltare». Il “Canzoniere” onesto di Saba, in Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, cit., p. 303; cfr. ivi, pp. 303-319.

58 Ivi, p. 310.

59 Cfr. MONTALE E., da Ossi di seppia, in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1990, p. 29.

60 Cfr. PERRELLA S., Prefazione, in SABA U., Scorciatoie e raccontini, Einaudi, Torino 2011, p. XII.

61 MORETTI M. C., «Guardare e ascoltare». Il “Canzoniere” onesto di Saba, in Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, cit., p. 312.

62 SANTAGOSTINI M., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, “La capitale del Nord” ristampato dopo 35 anni, “La Repubblica”, 16 maggio 1994.

63 MENGALDO P.V., “Panorama”, 10 febbraio 1985, in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., p. 363.

64 Cfr. SANTAGOSTINI M. (Istmi. Tracce di vita letteraria, cit.), in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., pp. 391-394.

65 FORTINI F., “L’ozio”, genn./sett. 1988, in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., p. 364.

66 Cfr. CEPOLLARO B., “Lengua”, giugno 1989, in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., pp. 366-372.

67 PORTA A., “Alfabeta”, luglio/agosto 1985, in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., p. 362.

68 MAJORINO G., http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Bibliografia, Provvisorio.

69 MAJORINO G., http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Bibliografia, Centanni di letteratura.

70 Cfr. DE SIGNORIBUS E., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, “Marka”, 14 aprile 1985.

71 LOLINI A., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, Alla ricerca del “mutamento”, “il Manifesto”, 13 ottobre 1984.

72 Cfr. RABONI G., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, Loi e Majorino: scambi fra lingua e dialetto, “Tuttolibri”, 7 novembre 1986.

73 Cfr. CEPOLLARO B., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, “Varianti” n. 8, inverno 1988-1989.

74 Cfr. PRETE A., “Aut aut”, novembre/dicembre 1991, in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., pp. 375-380.

75 LOI F., “Il Sole 24 Ore”, 24 febbraio 1991, in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., pp. 373-374.

76 Cfr. COMOLLI G., “l’Unità”, 25 marzo 1996, in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., pp. 396-397.

77 LUZZI G., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, Il poetico violato, “L’immaginazione”, 12 luglio 1996.

78 Cfr., CUCCHI M., “Prefazione a Le trascurate”, in MAJORINO G., Autoantologia (1953-1999), cit., pp. 398-399.

79 PRETE A., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, Il mantello dell’antilirico, “Alias 44”, “il Manifesto”, 6 novembre 1999.

80 FANTATO G., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, Punti precisi che ci mirano, “L’im-maginazione”, marzo 2000.

81 BERARDINELLI A., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, Storia della letteratura italiana – Il Novecento – Scenari di fine secolo, Garzanti 2001.

82 MAJORINO G., http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Bibliografia, Poesie e realtà 1945-2000.

83 RAIMONDI S., in “Poesia”, novembre 2001, p. 67.

84 Cfr. GARDELLA G., in http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Critica, Il destino della poesia di Giancarlo Majorino, “La Mosca”, gennaio 2002.

85 Cfr. MAJORINO G., http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_foto.htm, Bibliografia, Prossimamente.

86 Cfr. ZATTONI M., in “Poesia”, giugno 2004, p. 70.

87 MAJORINO G., Poesie e realtà 1945-2000, cit., p. 9.

88 Ivi, p. 13.

89 Ivi, p. 15.

90 Ibid.

91 Ivi, p. 27.

92 I virgolettati rimandano a MAJORINO G., La dittatura dell’ignoranza. Il regime invisibile, cit.

93 Cfr. MAJORINO G., Viaggio nella presenza del tempo, Mondadori, Milano 2008, p. 337.