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FORUM - Democrazia, politica e cultura in Italia

Questo forum è legato al percorso curato da Vincenzo Cuomo (Democrazia, cultura e conoscenza. Considerazioni a proposito di La Democrazia in Italia) ed è aperto a chi abbia interesse a parteciparvi (autori dei saggi discussi, redattori, collaboratori e lettori della rivista Kainos).
A partire dal testo proposto e dalle sollecitazioni contenutevi, potranno essere discussi i rapporti tra la democrazia, la politica e la cultura in Italia.

Gli interventi, di massimo 8000 battute, dovranno esser inviati, come allegati email, al seguente indirizzo: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo. , con l’indicazione del forum.

Sarà sempre possibile replicare ed intervenire nella discussione più volte.

 

INTERVENTI di Bruno Moroncini, Eleonora de Conciliis, Valerio Romitelli, Mario Pezzella, Aldo Meccariello, Vincenzo Cuomo, Gianvito Brindisi, Eleonora de Conciliis-2, Ludovico Fulci

 

 

 

 

 

Bruno Moroncini

Caro Vincenzo,
rispondo subito alla tua proposta di aprire un forum su Kainos sulla situazione della cultura in Italia a partire dalla recensione che hai voluto scrivere sul nostro libro La democrazia in Italia e che apre il nuovo numero della rivista dedicato appunto al tema Ignoranza e cultura. Il caso Italia. Una recensione - di cui ti ringrazio, ti ringraziamo - come se ne facevano una volta e come non se ne vedono più nell’attuale dibattito culturale fatto di veline degli uffici stampa, favori agli amici degli amici, costruzione degli ‘eroi di carta’. Una recensione rispettosa del pensiero degli autori e allo stesso tempo critica e interrogativa, che apre alla necessità di un lavoro collettivo, pratica di cui oggi, scomparse le riviste che hanno fatto grande negli anni trascorsi la cultura italiana, si sente terribilmente la mancanza.

Ovviamente risponderò di me, del saggio che ho scritto e delle critiche più o meno velate che mi fai. Che mi sembrano fondamentalmente due: la prima - e la davo per scontata - riguarda la tesi di un Berlusconi ‘La donna’, la seconda l’attacco violento alla cosiddetta cultura di sinistra, quella dei ‘ceti medi riflessivi’ a fronte della dimenticanza dell’oscenità e del cinismo di quella della destra, più in generale un appiattimento sulle posizioni ‘euforiche’ di Alberto Abruzzese (dietro il quale però c’è Benjamin) e una dimenticanza di quelle adorniane sulla semi-cultura piccolo borghese. Prima di rispondere alla prima osservazione permettimi però di fare una considerazione generale: saremo diventati tutti più civili e tolleranti, politically correct, ma alla fine è sempre il sesso l’ossessione principe dei ‘ceti medi riflessivi’ e del ‘popolo grasso’ (di cui fa parte, come della plebe, anche la maggior parte della borghesia italiana). Non si parla d’altro: preti e maestre ammalati di pedofilia, banchieri satireschi, mariti adulteri e vecchi prostatici. La questione è sempre la stessa: il godimento dell’altro. È vero anche per la xenofobia e per il razzismo: qual è il godimento dell’immigrato clandestino? Ossia: non solo gode come me, più di me, diversamente da me, ma lo fa anche clandestinamente. Tutta l’Italia si chiede, soprattutto l’Italia di sinistra: come gode Berlusconi? E quale godimento procura? Quanto fa godere? E a corollario: perché non si vergogna? (propongo che un prossimo numero di Kainos sia dedicato ai temi della vergogna e dell’indignazione, a questa fortuna postuma delle potenze psichiche di cui parlava Freud, a questo prepotente ritorno della morale).
Da qui la mia domanda: quale ruolo svolge - forse si dovrebbe dire: ha svolto - Berlusconi nella realtà dell’Italia contemporanea (eco ovviamente di eventi transnazionali come la globalizzazione e il neoliberismo)? È una vecchia funzione della sovranità politica: se una volta i re di Francia guarivano dalle malattie i loro amati sudditi con l’imposizione delle mani, quindi con il lato glorioso della loro corporeità, e in tal modo attutivano l’angoscia, oggi la stessa prestazione è ottenuta attraverso il lifting e il trapianto dei capelli, la cosmetica e le protesi, cioè attraverso tutta una femminilizzazione del corpo. Come Berlusconi ha sempre detto di se stesso egli si fa concavo o convesso a seconda della persona che gli sta di fronte e che deve convincere, ossia, detto nel suo linguaggio e in base alle sue pratiche, sedurre: aderisce al desiderio dell’altro, alla forma del suo godimento, e tenta di realizzarli offrendo in pegno il suo corpo che egli tratta alla stesso modo di un’attrice la cui carriera si fondava sulla bellezza e che si trova improvvisamente sul viale del tramonto. Quando i ceti medi riflessivi attaccano Berlusconi dimenticano sempre in che modo Hitler realizzasse il godimento e come governasse l’angoscia dei suoi volenterosi sudditi: sterminando pidocchi. Io non credo nelle ‘magnifiche sorti e progressive’ e quello che vedo all’orizzonte, scomparso Berlusconi, è il peggio che certo non si presenterà allo stesso modo - nella storia questo non avviene mai - ma sarà omologo. E tutte le proteste più o meno indignate che si propagano nel mondo preparano una nuova tragedia.

Vengo alla seconda tua obiezione: non c’è dubbio che nella diatriba fra Benjamin e Adorno sulla cultura di massa io stia dal lato del primo, e che di conseguenza, mi riconosca da sempre nelle posizioni di Alberto Abruzzese, che, se alle volte sono potute apparire troppo euforiche (ma era vero una volta, ora non più), si muovevano però nel solco delle tesi dell’autore dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: l’innovazione - la rivoluzione, e non solo quella artistica ma soprattutto quella economico-politica - non viene dalla scelta dei contenuti e dei valori, non appartiene alla sfera semantica, ma deriva dalle tecniche mediatiche, è semiologica se non addirittura semiotica. È il cambio mediatico, quindi la trasformazione delle forme, a decidere delle rivoluzioni politico-sociali. E ciò nel senso che ogni nuovo medium quando appare apre un conflitto e comporta una sfida: se la tecnica con cui provo a rappresentare il mondo quale io lo vedo è obbligata all’immobilità dell’immagine riprodotta la sfida della pittura e della scultura sarà quella di far vedere il movimento; ma se ho a disposizione il cinema, ossia posso riprodurre l’immagine in movimento, la sfida consisterà nel far vedere l’immobilità del pensiero. Qual è la sfida rivoluzionaria della rete? Essendo una comunicazione alla velocità della luce, la rete è il trionfo della connessione continua e della simultaneità fra trasmissione e ricezione. La sfida della rete, quindi, è quella di produrre la meditazione, il rallentamento e la sconnessione proprio dentro e attraverso la connessione, la velocità, l’assenza di rumore (Kainos non lo fa già?). Io non credo che oggi ci sia più ignoranza di prima e di conseguenza meno cultura: penso al contrario che di fronte alla morte delle tradizionali forme della invenzione e della trasmissione culturale (come le riviste) ci sia come sempre la resistenza dei vecchi media e di tutti quelli che essendosi formati su di essi ed avendone ricavato anche rango sociale e vantaggi economici non intendono rinunciarvi. Come la vera questione della democrazia in Italia è l’assenza di credibili alternative di governo (uno degli esiti più probabili del tramonto di Berlusconi è il simultaneo spappolamento del centrodestra e del centrosinistra con conseguente apparizione dell’ennesimo homo novus che questa volta però non verrà distolto periodicamente dagli affari di stato dalla necessità di circondarsi di ragazzine, ma essendo totalmente perverso godrà esclusivamente nell’occuparsi di noi ventiquattr’ore su ventiquattro), così quella della cultura è l’incapacità di piegare i nuovi media nella direzione della invenzione delle istituzioni culturali. Con questo termine non intendo la scuola o l’università, né tantomeno la Rai; intendo quei fenomeni ‘artistici’ (uso questo termine in mancanza di meglio) che come la tragedia attica o l’amor cortese medioevale costituiscono delle realtà oggettive e socialmente condivise in cui l’invenzione è al servizio della sublimazione, cioè della civilizzazione del godimento dell’Altro non per tenerlo a bada offrendogli masse sempre più grandi di vittime sacrificali, ma per ritagliare uno spazio di vivibilità per il suo desiderio - che è poi il nostro: il desiderio è il desiderio dell’altro - e per le forme parziali del suo godimento - e anche queste sono alla fine le nostre. Abbiamo dimenticato che il grande pensiero europeo, da Hegel a Nietzsche, dai surrealisti a Benjamin, da Joyce a Lacan si è incessantemente posto il problema delle istituzioni della cultura capaci di assicurare un controllo dell’angoscia che non dovesse ricorrere né alla vicissitudine della rimozione né a quella della forclusione psicotica. Che a loro non sia riuscito non è una buona ragione per gettare la spugna e soggiacere alla malinconia di sinistra. Mi diverto a immaginare che qualcuno sia in grado di trasformare una trasmissione come Uomini e donne in cui si tenta di insegnare a masse di maschi giovani dominati dal pene in erezione e di femminucce isteriche alla ricerca di un maître su cui regnare l’arte del corteggiamento, vale a dire di condurli alla consapevolezza che non c’è rapporto sessuale, in una nuova fioritura della tradizione dell’amor cortese.

 

 

Eleonora de Conciliis

Ai lettori di Kainos, alla redazione, all’amico Bruno Moroncini

Ho deciso d’intervenire in questo forum aperto da uno dei direttori della rivista di cui sono caporedattrice, non solo e non tanto per rispondere alle critiche implicite che l’intervento di Bruno Moroncini sembra rivolgere all’editoriale del nuovo numero di Kainos (editoriale condiviso da tutta la redazione), quanto per discutere l’analisi del berlusconismo e della situazione politica italiana fornita dallo stesso Bruno, così com’essa emerge sia dal saggio contenuto nel volume da cui parte il forum, che da un suo precedente intervento pubblicato su un’altra rivista on line (inscibboleth.org), e più in generale dalla sua impostazione teorica lacaniana.

Per brevità e chiarezza, ed anche per circoscrivere il perimetro socio-politico della discussione, elencherò prima sinteticamente i punti della sua analisi che mi trovano totalmente d’accordo, per poi concentrarmi sui motivi di dissenso.

1) Nonostante le schiaccianti vittorie alle comunali, di cui tutti ci rallegriamo e che però potrebbero esser state causate più dal delirio mediatico di Berlusconi e da alcuni mal di pancia della Lega, che dalla rinata compattezza e/o forza politica del centro-sinistra, è ovvio che l’altra grande anomalia dell’Italia degli ultimi vent’anni, accanto all’ex leader Berlusconi (ritengo che ormai vada archiviato senza farsi prendere dall’horror vacui), è il Partito Democratico, ed anche qui dovremmo parlare al passato per indicare retrospettivamente come, in vent’anni di lutto sul crollo del Muro, si sia mostrato assolutamente incapace di elaborare una proposta o una progettualità politica all’altezza dei tempi.

2) I “ceti medi riflessivi” del nostro paese appaiono effettivamente

«come l’Azzeccagarbugli manzoniano che con il latino maccheronico inganna gli umili, […] credono che l’aver imparato a fare vacanze intelligenti, il saper scrivere un buon tema all’esame di maturità, il consultare le guide gastronomiche alla ricerca del gusto perduto, l’essere informati sull’ultima moda nel campo dell’abbigliamento, l’aver letto il romanzo di cui tutti parlano, e soprattutto l’essere degli assidui spettatori di Annozero, li innalzi su quegli analfabeti che si fanno imbonire dalle reti Mediaset e che, manco a dirlo, votano Berlusconi» (B. Moroncini).

Da studiosa ormai outsider (come il caro vecchio Benjamin), che quindi non difende alcun rango o privilegio economico-sociale eroso dalla famosa “proletarizzazione” dei ceti medi (ma si tratta anche, purtroppo, di una piccolo-borghesizzazione cafona degli ex proletari), condivido pienamente questa descrizione sprezzante dei radical chic, descrizione invero poco sociologica e molto adorniana (nel senso buono: la Scuola di Francoforte, di cui lo stesso Benjamin ha fatto parte seppur tangenzialmente, non è poi da buttar via): questi ceti medi riflessivi, come giustamente sottolinea anche Vincenzo Cuomo includendovi il ‘fenomeno’ Saviano, sono essi stessi il prodotto dell’acculturazione promossa dalla società dei consumi, ma anche da quella sinistra piena di sé, eppure frazione dominata della DC, da quella sinistra assistenzialista e ahimè clientelare, che per quarant’anni ha gestito, talvolta con intelligenza, ma talaltra in modo ottusamente partitico, una gran fetta, per non dire l’intera torta della cultura istituzionale italiana. Forse è questa una delle ragioni per cui, da partito di massa culturalmente egemone e che univa simbolicamente le disiecta membra di una certa anima popolare (non ottusamente plebea) dell’Italia, il PD è diventato negli ultimi vent’anni (forse a partire dai funerali di Enrico Berlinguer) l’espressione politica di un “ceto medio riflessivo” o di una “piccola borghesia culturalizzata”, che ha perso ogni “presunta” superiorità economico-culturale – anche perché, fatta eccezione per la categoria degli evasori sistematici e dei faccendieri, dopo l’entusiamo iniziale oggi tutti i ceti sociali, sia gli ex proletari che i borghesi che i piccolo-borghesi, per non parlare degli imprenditori medi e piccoli, si scoprono più o meno danneggiati dalle non-politiche berlusconiane (resta certo diversa l’entità del danno in proporzione al reddito di partenza). Quanto al carattere reattivo, cioè impotente, della politica del centro-sinistra, esso si mostra comunque meno rozzo (e meno furbo) del carattere reattivo-territoriale della politica del centro-destra. Nel complesso, Berlusconi e i suoi denigratori risentiti e acculturati sono complementari, fanno sistema, perché, non ce lo dimentichiamo, Berlusconi stesso, in quanto risentito per il fatto che lo si voglia processare (ritenendo cioè che tutti provino invidia per il potere ‘fallico’ della sua ricchezza), è un prodotto dell’acculturazione cafona dei ceti medio-bassi. E con ciò sono già arrivata ai punti di dissenso.

Parto però da quelli meno acuti.

1) Non è che oggi ci sia più ignoranza di prima e di conseguenza meno cultura; piuttosto, c’è una superficiale (quindi in realtà ben poco riflessiva) acculturazione dei succitati ceti medi, mentre l’acculturazione delle masse non ha prodotto quei benefici socio-politici che la sinistra si attendeva: il problema non è certo l’ignoranza crassa dell’uomo della strada, ma la presunzione di poter fare a meno della fatica della cultura (anche di quella tecnica: del processo di acquisizione della cultura), sia a livello istituzionale, ad esempio ai livelli alti della gestione della cosa pubblica, sia a livello privato, ad esempio nel processo di formazione dei singoli, il che produce, a cascata, l’esibizione della propria mediocrità in ogni angolo delle istituzioni e dei media, rete compresa: c’è molta acculturazione (quella che io chiamo individualizzazione di massa), ma poca intelligenza, cioè poca consapevolezza dei condizionamenti da cui si è prodotti, e scarsa lungimiranza politica: è questa la nuova pericolosissima forma di ignoranza che dobbiamo combattere…

2) Da ciò consegue che sono platonica: detesto la democrazia quando manda al potere non il povero cristo, il chiunque (magari!), ma un miliardario canaglia che per di più crede di essere “l’unto del signore”: sono due cose completamente diverse. Il primo, il chiunque, fa sistema con la revocabilità immediata delle cariche pubbliche (stile Comune di Parigi), il secondo con la pastoralizzazione regressiva della macchina democratica – con la demagogia favorita dalla debolezza psichica degli acculturati, sia di destra che di sinistra. Perciò auspico un rafforzamento strutturale, soggettivo, di coloro che sono depositari dell’eleggibilità del chiunque: sono loro i custodi della tanto amata Costituzione (per alludere all’anti-parlamentarismo di Schmitt ma anche al patetico moralismo dei girotondini): invece di attenderla come l’a-venire di derridiana memoria, bisogna mettere le mani nella materia prima, sporcarsi con la realtà dell’educazione, fare i conti con l’ordine del discorso, insomma costruire la democrazia. In quest’ottica, poco utopica e molto concreta, provare vergogna e indignarsi di fronte all’ignoranza (o, in un’ottica speculare, vergognarsi della propria ignoranza di fronte alla grande cultura) non ha sempre a che fare con la morale sessuale civile (poi ci torno), ma potrebbe indicare la capacità di confrontarsi con l’altro, sia esso superiore o inferiore a noi. Non bisogna inoltre dimenticare che l’ignoranza intesa come assenza di introspezione ed incapacità di autocritica, durezza, non-elasticità, apatia ed afasia emotiva, come forma di de-soggettivazione e de-significazione linguistica dell’esperienza – insomma, l’auto-ignoranza produce sofferenza psico-sociale; in tal caso, provare vergogna per l’altrui ignoranza non vuol dire sentirsene minacciati (semmai ci si sente minacciati dall’altrui cultura e talvolta si reagisce con la presunzione della mediocrità), ma percepire l’impoverimento psichico, sociale e culturale dell’esperienza, in senso benjaminiano. Bisogna farcela con poco, diceva Benjamin, ma ciò non ci autorizza a rassegnarci: desideriamo il lusso culturale, la raffinatezza, la profondità, il pensiero, perché è questo il nostro unico godimento ‘umano’ – diventare soggetti, con tutti i rischi che comporta.

3) Arrivo così a Beniamin, ma con una notazione critica. L’innovazione viene certo dai media (il medium è il messaggio, diceva McLuhan), ed abbiamo un bisogno vitale di invenzioni culturali, ma a livello semiologico il processo di significazione sociale dell’innovazione non è affatto garantito dall’innovazione stessa: in altri termini, il senso sociale dell’innovazione tecnologica, artistica e/o politica non è di per sé rivoluzionario, ma può anche assumere forme mitico-regressive (vedi Barthes), cioè congelare in natura la storia che ha prodotto l’innovazione. Inoltre il pensiero, a mio giudizio, non è sempre arendtianamente “immobile”, ma anche veloce e rumoroso, è pulp (e proprio il cinema ‘proletarizzato’ lo dimostra: Tarantino contro Tarkovskij, se mi è concesso), mobile quanto e più della rete, la quale, in quanto rete, si limita a raccogliere il pescato: siamo noi a dover pensare (e pescare) nella rete, non dev’essere la rete a pensare noi. Resistere alla rete è impossibile, ma comprenderne il carattere acculturante è necessario per innovare...

4) E veniamo al berlusconismo: considero un errore leggerlo in chiave psicoanalitica, e non socio-culturale e politica. Tra l’altro, se c’è un leader politico ignorante in fatto di rete, è il vecchio Berlusconi. Forse la saturazione mediatica delle sue vicende sessuali non è più oggetto della curiosità morbosa della maggior parte degli italiani, ma, ormai, della loro indifferenza: non credo proprio che il sesso altrui sia “l’ossessione principe dei ‘ceti medi riflessivi’ e del ‘popolo grasso’ (di cui fa parte, come della plebe, anche la maggior parte della borghesia italiana)” (B. Moroncini), e neppure che gli italiani (siano essi di sinistra o di destra) si chiedano come (non) gode l’immigrato clandestino, o come (non) gode Berlusconi con le pulzelle infra-acculturate di cui si circonda. Traduco: forse i molti italiani che (in ciò inconsapevolmente e felicemente foucaultiani) non mitizzano psicanaliticamente la propria sessualità, ma si limitano a praticarla, cioè a prendersi con l’altro reale quel tantum di godimento reale che noi umani possiamo provare, sono immuni dal processo di confessionalizzazione post-analitica del sesso che trionfa sui media come nuovo dispositivo pastorale di sessualità. Vorrebbero semplicemente che, oltre a godere (o a simulare il godimento in virtù di un’incipiente impotenza psicofisica), chi governa pensasse (lentamente o velocemente, non importa) a governare. Se poi anche l’attività di governo costituisce una forma di godimento perversa, ben venga la perversione, anche se parlerei piuttosto di sublimazione.

A mio giudizio, nonostante venga usato con un certo profitto (mi riferisco anche al profitto economico) da Žižek e Recalcati (i quali sanno bene come ‘divulgarlo’, l’uno nel registro del pop cinematografico, l’altro, forse più seriamente, alla prova della clinica), e se si escludono alcune geniali intuizioni, Lacan resta un pensatore conservatore, poco adatto ad analizzare la società contemporanea. Per intenderci, nei soggetti capaci di sopportarlo, il tramonto della funzione paterna non genera angoscia, ma libertà: libertà dalla Legge e capacità di diventare se stessi, di accedere al simbolico senza attribuire il senso della sofferenza e/o del godimento al desiderio dell’Altro, alla scissione S/s, ecc. Se poi nei ceti medi riflessivi il tramonto della funzione paterna conduce ad una ri-pastoralizzazione populistico-mediatica e ad un’intronizzazione del Padre osceno, allora il compito dell’intellettuale di sinistra è quello di disattivare questa dipendenza, a tutti i livelli: politico, pedagogico, estetico, ecc.

Mi pare al contrario che l’interpretazione ‘femminile’ di Berlusconi proposta da Moroncini rincorra un po’ voyeuristicamente quella di Žižek, tentando di superarla ‘a effetto’. Ma soprattutto, il corpo di Berlusconi non è quello dei re di Francia: la sovranità, tanto per restare a Foucault, si è dissolta nella governamentalità biopolitica – nell’amministrazione della vita, non nella sua taumaturgia. Inoltre Berlusconi, al di là del suo innegabile fiuto nel costruire alleanze economico-politiche, non vuole e non sa sedurre: vuole e sa vendere, oppure comprare i corpi (e i voti) altrui, come fanno tutti coloro che non riescono a sedurre – cioè i castrati, dacché la vera castrazione psichica, che genera angoscia invece di curarla, è l’assenza di seduzione, ovvero il contrario della femminilità (e la femminilità psichica, se non pastoralizzata dalla Legge del Padre o soggettivata attraverso il suo Nome, non ha bisogno dei concetti del lacanismo). Berlusconi non va condannato perché immorale, dunque fonte di vergogna e indignazione, va liquidato perché incapace di governare – incapace di quella perversione/sublimazione che è l’esercizio culturalmente profondo del potere-sapere. Egli è stato infatti il profilo basso, mediocre, pastorale (mediaticamente pastorale) del potere, lo specchio dell’acculturazione non riflessiva dei “ceti medi” che hanno sempre avuto paura dell’emancipazione e della soggettivazione autonoma; dopo di lui, grottesco Re Sole, potrebbe certo venire di peggio, il diluvio, la “tragedia” della Lega dilagante, o l’homo novus-Masaniello, ma potrebbe anche venire (magari sotto mentite spoglie) di meglio, il risveglio dal sonno (non dal sogno), la costruzione di senso, dunque l’innovazione politico-culturale, poiché se la cultura (compresa la cultura del potere-sapere) è stata storicamente svalutata, può essere altrettanto storicamente ricostruita. Certo non si può sognare, manifestando così un anacronistico scollamento nei confronti della realtà sociale, che i partecipanti a trasmissioni televisive come Uomini e donne si facciano sedurre dall’amor cortese o comprendano la funzione politica della tragedia attica. Dal mio punto di vista, nonostante le loro giovani erezioni, costoro sono già morti al rinnovamento. Si può però lavorare affinchè la sublimazione produca non più soltanto negli interstizi del presente, ma nelle vuote distese del futuro, un altro godimento, un godimento non necessariamente istituzionalizzato e sicuramente non oggettuale, forse non fallico ma possibile, anzi reale, linguistico e orgoglioso di sé, narcisistico (perché no) eppure condiviso, in una parola: culturale. In termini nieztscheani, la cultura non è un valore, ma il nostro principale codice transvalutativo, quindi politico, contro la pulsione di morte: non abbiamo altro contro l’ottusità, la cosalità, la solitudine, la “pecoraggine” della pulsione di morte che si nasconde dentro la stessa valorizzazione dei valori.

 


Valerio Romitelli

Nell’attenta e stimolante recensione che Vincenzo Cuomo su Kainos n. 11 ha dedicato a La democrazia in Italia edito quest’anno da Cronopio e di cui sono co-autore c’è una conclusione molto interessante.

Premessa ne è questa domanda: “Che cosa, infatti, accomuna oggi (…) il popolo dei consumatori, i ceti medi riflessivi, la sinistra benpensante e la destra cinica, se non il credere nella “cultura” come valore da accettare anche senza capire, da difendere in quanto tale – in particolare se “risorsa economica” –, valore che “funziona” semplicemente perché si suppone esistente?”

Da qui il “compito “politico” non eludibile, secondo Cuomo, per far avanzare una democrazia “emancipativa”: opporre la conoscenza alla cultura-valore”.

Trovo che tale genere di questioni sia effettivamente cruciale nel nostro tempo, e non solo in Italia. Così infatti si prende per le corna quello che è uno dei maggiori fenomeni di portata globale e che, detto in due parole, concerne la centralità assunta dalla comunicazione nella vita collettiva. In effetti, ove tutto sia organizzato attorno alla circolazione delle informazioni, quand’anche se ne valorizzino quelle di maggior “spessore culturale”, ogni profonda novità reale, su cui le informazioni inevitabilmente scarseggiano e comunque non bastano mai, è destinata a restare ancor più che incognita: neanche problematizzata.

Il distacco tra politica e società, tra istituzioni e realtà non può dunque che allargarsi in una voragine sempre più ampia. Problema questo che non è solo italiano, ma che riguarda le sorti stesse del pianeta dove almeno un sesto della popolazione complessiva è praticamente condannata a sprofondare nell’estinzione, nell’assenza di aiuti adeguati da parte dei governanti pubblici o privati che ne avrebbero i mezzi (come da anni va sostenendo tra gli altri, Paul Collier). E si sbaglierebbe a credere che tutto dipenda da questioni di buona o cattiva volontà, di onestà o corruzione, di trasparenza o sotterfugi, di egoismo o altruismo. Il nodo sono convinto stia proprio nei modi pensare: di modi di pensare tanto la conoscenza, quanto la politica e soprattutto il rapporto tra queste due.

Perché la cultura non possa servire a rinnovare tali modi di pensare lo si può capire riflettendo su questo stesso termine… di origine agricola. Aver cultura significa in effetti sapere coltivare, far crescere, dunque educare. La presunzione dei politici e dei loro seguiti che invocano la cultura sta nel fatto che essi credono che la soluzione di tutti i mali stia nel trovare consensi attorno alla loro missione di elevare le coscienze al loro livello di conoscenza. Supponendo di combattere l’ignoranza così non si fa che allargarla, dal momento che la conoscenza, il sapere o si rinnovano in rapporto ai nuovi problemi reali o sono destinati ad ossificarsi in dogmi insensati - e/o in opinioni scontate, buone solo a riscuotere alti indici di gradimento comunicativo. Insomma, anziché andare a caccia di consensi educando a culture facilmente riconoscibili, alla politica starebbe piuttosto di pensare cosa conoscere, come farlo e che conseguenze pratiche trarne.

Più concretamente, tutta la questione è una questione di agenda: come stabilire le priorità tra i problemi reali da conoscere per poterli affrontare adeguatamente e quindi risolverli politicamente. Ecco allora che mi viene da ribadire proprio ciò che nel mio intervento in La democrazia in Italia ha suscitato più perplessità nello stesso Cuomo: che i primi problemi da conoscere sono quelli esperiti da “la gente che sta ai margini di tutto quello che conta per chi conta”, nei luoghi dove più faticano e soffrono. Ciò significa rinunciare ad interloquire anche coi governanti e con la stessa politica quale essa è oggi? Ciò significa dunque condannarsi alla ricerca di una politica tutta e solo “dal basso”? Così mi sembra che Cuomo abbia interpretato il mio pensiero. E in effetti non ho molta fiducia che “in alto”, tra quelli che “più possono” e i loro seguiti, ci sia oggi in Italia molta sensibilità e desiderio di cambiare abitudini culturali e famigliarità cognitive. E soprattutto non mi pare ci sia da nessuna parte “politica” un’adeguata cura verso quell’enorme bacino di possibilità di rinnovamento che si sta offrendo al nostro paese. Essendo quest’ultimo “sfinito” - come ha detto uno straniero intervistato nel corso di un’inchiesta condotta dal mio gruppo di ricerca etnografica -, a me pare che ben difficilmente saprà recuperare il suo enorme ritardo cognitivo e politico rispetto alle risorse qui apportate dalla ricca molteplicità di migrazioni in corso. Che la gestione del tutto continui a dipendere dalle direttive della Lega, vera regista del governo del paese, è quanto mai significativo del punto disastroso cui si è arrivati. Ma certo, anche dopo le ultime salutari sberle elettorali, l’ottimismo della volontà non può mai venire meno, per cui va sempre fatto ogni tentativo perché la politica quale è oggi in Italia sappia almeno un po’ di più quel che sta facendo e così diventi diversa da quel che è. In ogni caso, mi pare fatica persa sperare che i suoi “centri”, i suoi “poli” e le sue culture trovino in loro stessi di che rinnovarsi.

 

Mario Pezzella

Caro Cuomo,

la ringrazio per l’attenzione con cui ha letto il mio saggio compreso in La democrazia in Italia; vorrei rispondere soprattutto alla critica, secondo cui alla fine io sosterrei una sorta di “leghismo di sinistra” (a meno di non finire nella vaghezza dell’utopia). Per la verità, molti argomenti in proposito li avevo già sviluppati nel saggio, in particolare quelli che riguardano il concetto di “rivoluzione passiva”, che riassume le mie considerazioni sulla Lega e non starò qui a ripeterli. Faccio solo alcune precisazioni.

1) Sul federalismo: le mie idee non derivano certo dalle posizioni della Lega, neanche in una declinazione di sinistra. Il mio primo riferimento è Piero Calamandrei (non è per caso che ho accettato di essere redattore della rivista “Il Ponte”) e tutta la tradizione democratica radicale, che risale a Cattaneo, D’Azeglio, e Nievo. Più in generale, il “mio” federalismo è quello della costituzione comunalista di Parigi nel 1871, del libro “Sulla Rivoluzione” della Arendt, degli scritti associazionisti di Proudhon. Senza dimenticare le posizioni di Tocqueville nel suo libro sulla democrazia in America. Per venire più vicino a noi, io mi sono formato sin da studente su testi del meridionalismo radicale come quelli di Capecelatro e Zitara. Non ho mai trovato valide ragioni per cambiare di posizione e continuo a pensare che l’unità d’Italia sia stata realizzata in modo elitario e coloniale (lo pensavo quando la lega non era ancora nata). Il discorso che oggi la rivaluta è gonfio di vuota retorica. Mi riconosco pienamente nel ritratto critico fatto da M. Martone in “Noi credevamo”. Come ricordo nel saggio, la critica radicale degli anni 70 era spesso schierata politicamente insieme alle culture minoritarie oppresse e tendeva al loro riscatto. Tutto ciò era parte costituente di un discorso anticoloniale e multiculturalista, di una critica agli stati nazionali e imperialisti, di cui non rinnego nulla.

2) Sito e coscienza di luogo: il termine sito lo riprendo, oltre che ovviamente da Debord, a cui è dedicata tutta la prima parte del mio saggio, da Schurmann, che lo ha posto a base della sua analisi di Heidegger. Esiste una coscienza di luogo escludente, come quella della Lega: ma io mi riferisco piuttosto al processo inclusivo descritto da H. Arendt in “Sulla rivoluzione”, in cui le “repubbliche elementari”, mantenendo la loro pluralità e specificità, avviano nondimeno un processo di costituzione federale, per tutte le questioni che non possono essere risolte in modo locale. E mi riferisco anche alle “situazioni costruite” di Debord, che sono la base teorica del suo elogio politico dei Consigli e del consiliarismo. Sono infatti i Consigli, che operando nei luoghi di lavoro e di abitazione, si aggregano successivamente in una unità statuale, basata su regole di rappresentanza totalmente diverse da quelle ora vigenti (alcune le ricordo nel saggio, come il mandato imperativo o il diritto di revoca). Come ricorda Abensour nel passo che cito alla fine, non si tratta di fare a meno di ogni istituzione, ma di immaginarle in modo profondamente diverso. Certo queste esperienze sono state soffocate con la violenza ogni volta che sono apparse: questo prova la loro incapacità di funzionare? Secondo me prova solo che sono incompatibili col potere gerarchico degli Stati e dei partiti del 900. In questo processo di costituzione dal basso c’è utopia? Non lo nego. Più utopica ancora mi sembra la speranza di un potere centrale statale, che imponga la “giusta” soluzione ai cittadini, nel momento in cui lo stato nazionale è diventato l’appendice politica dei poteri finanziari internazionali. E del resto, in questo momento, quale prospettiva politica può fare a meno di uno slancio utopico? Utopia significa in questo momento tentativo di costruzione di un soggetto sociale antagonista, senza che nessuna “necessità economica” faccia da forcipe alla sua nascita. A meno di non credere, secondo una delusa prospettiva del marxismo scolastico, che lo sviluppo spontaneo di forze produttive, o comunicative, o di un intelletto generale, conduca per dialettico salto alla liberazione di una nuova forma politica.

3) Tutto ciò ha a che fare col leghismo? Se un rapporto c’è, è quello stesso che c’era nel 1922 tra fascismo e socialismo, cioè quello di una rivoluzione passiva, in cui un movimento di destra si incorpora e deforma il linguaggio e l’ordine simbolico di un movimento rivoluzionario, destituendone completamente le intenzioni. Questo concetto di rivoluzione passiva è sviluppato abbastanza a lungo nel saggio. Aggiungo solo che questo progetto, con la crisi del berlusconismo, rischia di prendere ancora più piede, mentre il cosiddetto asse Tremonti-Lega configura un progetto politico capace di sostituire il clown in via di ritirarsi dalla scena.

 


Aldo Meccariello

Intervenendo nella discussione, premetto di non aver letto il libro, La democrazia in Italia, che senz’altro può aprire una riflessione pubblica su questo tema potente ed inesauribile. Leggerò presto questo libro, limitandomi ora a formulare poche considerazioni che sono impressioni, piccole note a margine della recensione ampia e ricca di Vincenzo.

Procedo schematicamente:

1) A me sembra che la questione centrale sia la radiografia  di questi vent'anni di berlusconismo che è stato il prodotto naturale di due sistemi paralleli di potere, uno legale ed istituzionale, il detestato CAF ossia il triumvirato Craxi, Andreotti e Forlani che ha retto i governi tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ‘90 e uno illegale ed eversivo, la P2 ovvero propaganda 2 di Licio Gelli che aveva inquinato una parte consistente delle istituzioni dello stato sin dalla metà degli anni ‘70. La stagione di Tangentopoli colpisce al cuore il CAF provocando la crisi della Prima Repubblica e con essa il crollo della Dc e del Psi mentre si salva dalla tempesta giudiziaria il Partito comunista italiano. Qualche anno prima era caduto il muro di Berlino che metteva in crisi il vecchio Pci, peraltro già in affanno rispetto allo pseudo-riformismo craxiano.

La svolta della Bolognina di Achille Occhetto varata nel 1991 è il patetico de profundis del più grande partito comunista occidentale e la liquidazione di un grande patrimonio di ideali, di speranze e di alternativa per il futuro del paese. Dopo la fine della DC e del PCI, si dissolvono le due grandi culture politiche dell’Italia repubblicana e cresce senza sosta il deserto politico che la stagione di Tangentopoli non può affatto supplire. La discesa in campo del signore di Arcore si colloca in questo quadro desolante e dal 1994 abbiamo assistito, invece che alla seconda Repubblica tanto conclamata dai media e da schiere di politologi, alla fulminea propagazione del berlusconismo che, supportato da un immenso potere economico di dubbia provenienza, si è sprigionato dalle ceneri della Prima Repubblica, nutrendosi poi dei suoi mali peggiori. Venti anni terribili che hanno modificato in profondità la società italiana e alterato le istituzioni democratiche e segnato drammaticamente la fine della politica, con essa la deculturalizzazione del ceto politico e cosa ancor più grave l’asservimento di quello intellettuale.

Il berlusconismo prima ancora di essere egemone come fenomeno politico o come modello di personalizzazione della politica (centrato sulla corruzione e sul vuoto di regole) si è imposto soprattutto come monopolio di un neocapitalismo televisivo che ha narcotizzato le coscienze, ha omologato comportamenti e costumi.

Se si dovesse fare un bilancio del berlusconismo tralascerei le raffinate e colte letture psicoanalitiche e direi semplicemente con le parole di Simone Weil che Berlusconi è un Renaud (cfr. Venezia salva) di età avanzata ma lascivo e corrotto che preferisce il sogno alla realtà e con le armi del denaro, dei media costringe gli altri a sognare il suo sogno. “Il vincitore vive il proprio sogno, il vinto vive il sogno altrui”.

2) La sinistra. Mi sembra davvero ingeneroso che in alcuni saggi del libro si oscuri il decennio berlingueriano e si stigmatizzi l’incapacità della sinistra di proporre politiche alternative. La stagione del compromesso storico non può essere sbrigativamente derubricata ad una tregua tattica tra Partito comunista italiano e Democrazia cristiana solo per fronteggiare la tempesta delle varie strategie della tensione e del terrorismo rosso e nero. Quella stagione fu invece il grandioso tentativo di rinnovamento della politica e di unità nazionale nello spirito della Resistenza tra le maggiori forze popolari per realizzare una “alternativa democratica” alla direzione del Paese. Ma fu anche un laboratorio politico capace di sperimentare nuove forme di democrazia e di collaborazione dentro una crisi globale in atto. Moro e Berlinguer seppero leggere i mutamenti in atto ma scontarono sulla propria pelle una solitudine tragica e una morte altrettanto tragica esibita e catturata dai riflettori della Tv: da via Caetani a piazza della Frutta si esauriva un grande progetto per l’Italia.

E poi non è vero che la sinistra storica negli anni ottanta abbia avuto scarse capacità elaborative: il discorso sull'austerità di Berlinguer del 1977 teorizzava la decrescita, paventava i rischi di una catastrofe ambientale, denunciava i limiti dell’economia capitalistica mentre lo strappo dall'URSS anticipava drammaticamente l’esaurimento dell’esperienza del comunismo novecentesco. Dopo la sua morte, il Pci alla fine degli anni '80, prima con Natta e poi con Occhetto, ha subito l’offensiva e il movimentismo craxiano e al contempo non ha saputo leggere il nuovo che avanzava nella società italiana (il leghismo, il berlusconismo alle prime schermaglie, i mutamenti di composizione sociale e di classe, l’emergenza dei nuovi ceti, la riforma dello Stato ecc.).

Il PD, rispetto a quella stagione, è oggi un partito in affanno e a tratti confuso che non riesce ad entrare in sintonia con larghe fette del suo popolo e stenta a trovare una sua identità e un suo profilo strategico; esso è però l’unico soggetto che può aprire una fase nuova nel paese a condizione che abbandoni vecchi modi di pensare, vecchi schemi e sappia costruire un progetto politico con tutte le forze di opposizione di centro-sinistra e con tutti i movimenti che premono dal basso (giovanili, ecologisti, pacifisti, popolo viola ecc.).

Esso dovrà abbandonare tatticismi, inciuci, autoreferenzialità, vecchi dualismi e contrapposizioni (sinistra moderata e antagonista, sinistra egemone e subalterna, sinistra storica e radicale) per offrire al paese un’alternativa strategica e un programma credibile di governo.

3) Ma qual è stato l’errore storico della sinistra italiana ed europea dopo l’89 cioè dopo il fallimento dell’esperienza storica del comunismo? Non è stato tanto l’incapacità di elaborare proposte politiche alternative ma è di non aver saputo promuovere la risorsa del sapere, dell’intelligenza, di non aver aggiornato le categorie del suo vocabolario come libertà, democrazia, diritti, ambiente, nazione, federalismo e soprattutto di non aver saputo ridefinire l’idea di comunismo come un’ipotesi per la politica.

La storia di quest’idea e di questa teoria rimane in gran parte da scrivere a meno che non si voglia equiparare il comunismo al socialismo reale o a ridurlo come una risposta al capitalismo. Perchè la sinistra italiana ed europea ha optato solo per una logica liquidatoria e non si è sforzata di aprire nuove strade di emancipazione e di liberazione e/o di formulare un diverso spazio della relazione filosofia/politica?

Non credo che aver potenziato da parte degli intellettuali marxisti più noti (Lefort, Lyotard, Balibar, Rancière e altri) una pratica di emancipazione centrata sui diritti umani dopo il crollo degli Stati comunisti sia stato un discorso teoricamente e politicamente sufficiente. I diritti da soli non possono diventare il luogo e la posta in gioco di una politica di sinistra del XXI secolo perché non possono aiutare a sfidare, a combattere nuove forme di oppressione e nuove forme di sfruttamento.

Ad esempio potrebbe essere interessante aprire un confronto a tutto campo con il pensiero latino americano (Enrique Dussel) per la sua capacità di superare le categorie della politica europea e di risemantizzare termini come democrazia, nazione, cultura, classe, popolo al fine di creare modelli alternativi di comunità e di convivenza tra i popoli.

E allora, perché non aprire come rivista Kainos anche un forum sull’idea di comunismo per ri-esplorare il comunismo come un’idea filosofica? O per ri-avviare una riflessione filosofica sul comunismo? (Cfr. Costas Douzinas e Slavoj Žižek (a cura di), L’idea di comunismo, DeriveApprodi, Roma 2011).

4) Infine, una battuta finale: non sono affatto d'accordo che al lemma cultura-valore venga preferito quello di conoscenza: in altri termini, se ho capito bene, non mi convince questa dicotomia cultura-valore/conoscenza, un po’ pedagogica e un po’ culturalistica, come leva per far avanzare la democrazia emancipativa.

Lottare contro l’abbassamento del gusto e dell’intelligenza, contro la subordinazione dei produttori di cultura e di una buona parte degli intellettuali ai voleri del padrone o agli interessi del capitale, contro il pensiero unico dominante non è già una battaglia organizzata dalla cultura –valore cioè una battaglia politica?

Spero, però, di non apparire troppo impregnato di cultura idealistica.

 

 

Vincenzo Cuomo

Ringrazio tutti quelli che fino ad ora sono intervenuti, sia per la chiarezza delle argomentazioni e delle critiche che per il complessivo giusto tono “argomentativo”, necessario a che il dibattito si concentri sulle idee.

Mi sono deciso ad intervenire di nuovo per introdurre (o forse esplicitare meglio) un tema a mio avviso restato un po’ in ombra. Uno spunto ulteriore in tal senso me lo ha fornito l’aver seguito la presentazione del libro a partire dal quale stiamo discutendo, svoltasi a Napoli presso la libreria Ubik il giorno 8 giugno scorso. Vi partecipavano, in qualità di “presentatori”, Ida Dominjanni e Roberto Esposito, ma alla presenza di alcuni degli autori dei saggi.

Il tema che vorrei ri-lanciare nella discussione è quello – lo dico senza giri di parole – della mancanza, all’interno della filosofia della “democrazia” che si schiera “a sinistra”, di una “teoria del governo (di sinistra)”. Cerco di spiegarmi. Non metto in dubbio che la filosofia politica “di sinistra” sia stata capace di elaborare una teoria del governo; non ho dubbi sul fatto che un’analisi critica (anche radicale e cinica) di che cosa significhi di fatto “governare” sia stata elaborata “a sinistra”. La mia opinione è che, tuttavia, tale teorizzazione sia stata fondamentalmente o una teoria di cosa il governo sia stato de facto nella storia politica moderna, oppure – qualora ci si sia posti la questione circa l’eventualità che, in una certa contingenza storica, la sinistra debba “governare” – una semplice teoria “tattica”, una teoria di governo ridotta a “tattica” di governo.

Nei confronti della abbondanza teorico-critica della riflessione sulla democrazia “emergente”, sull’opposizione democratica e sulla lotta per la demo-crazia, mi sembra (anche se spero di sbagliare) che sul “che fare” quando si è “al governo”, la riflessione di sinistra sconti un ritardo che, mi sembra, nasconda un imbarazzo.

Se l’opposizione è “strategica” e il governo “tattico”, come non scorgere in questa distinzione la giustificazione di una subalternità politica (della sinistra) alla “destra”, cui implicitamente, assieme all’onere, si lascia anche la responsabilità, quasi strutturale, sistemica, del governo?

La domanda che quindi lancio (a chi vorrà accoglierla) è allora questa: governare“da sinistra” è impossibile? A tale domanda credo sia debole opporre, come un tempo si faceva, la tesi che solo dopo la rivoluzione sarà possibile un “governo” “comunista, “del popolo”, “di sinistra”... È debole questa tesi in quanto dà per scontato ed implicito quello che non si ha, cioè una teoria di sinistra del governo. Nel caso poi in cui si dicesse che una tale teoria dovrà essere inventata dopo la “rivoluzione” e che non è possibile prevedere in che modo si risolverà la questione, date le profonde trasformazioni culturali e psico-sociali che la rivoluzione realizzerà, allora questa risposta non farebbe altro che sancire in modo inequivocabile che una “teoria di governo” il pensiero “di sinistra” non ce l’ha. La questione si lega, ovviamente, alla relazione tra l’azione politica “dal basso” e l’azione politica “dall’alto”, così come già ho avuto modo di sottolineare nella mia recensione al libro sulla democrazia.

La domanda credo ne incroci anche un’altra, apparentemente “impolitica” (ma forse solo un po’ politicamente “scorretta”) vale a dire quella dell’educare (governare, educare …. psicoanalizzare, non sono forse per la psicoanalisi freudiana delle “impossibilità”?). Che cosa significa oggi educare (da sinistra)? Con il verbo educare intendo due cose: 1) “essere maestri” di qualcuno; 2) “essere genitori” di qualcuno. In entrambi i casi mi sembra che il pensiero “di sinistra” mostri più che un imbarazzo. Perché è imbarazzante giustificare (da sinistra) la relazione maestro/a-allievo/a? Perché ancora di più imbarazza la giustificazione dell’essere-genitori, quasi che il mettere al mondo figli sia qualcosa di cui vergognarsi un poco, da non fare sapere in giro, perché “genitori qualcuno pur deve essere” (purtroppo)? Ovviamente, io non metto in discussione il diritto a non-voler-esser maestro o quello a non-voler-essere genitore. Sto solamente mettendo in evidenza la difficoltà teorica e ideologica che sembra esserci “a sinistra” (da molti anni) a pensare come giustificata e giustificabile la scelta di svolgere il ruolo di “maestri” (con la “m” minuscola, ovviamente) o il ruolo di genitori (che è sempre con la “g” minuscola).

Tornando all’espressione utilizzata nella nostra discussione, non è che “i ceti medi riflessivi” si stanno progressivamente trasformando in “ceti medi riflessivi di anime belle celibi”? (uso l’aggettivo “celibe” pensando alle “macchine celibi” descritte da Michel Carrouges…).

Capisco che la questione così come la pongo possa essere percepita come “politicamente scorretta”. Non sto affatto pensando con nostalgia ai bei tempi passati (pieni di violenza e illibertà), ma credo che su questo imbarazzo a governare, educare e generare la sinistra debba cominciare ad interrogarsi.

 


Gianvito Brindisi

Ringrazio Vincenzo Cuomo per l’invito a discutere il testo collettaneo La democrazia in Italia. Senza indugi vengo subito al punto che ha catturato la mia attenzione, vale a dire al rilievo profondo dato al rapporto tra sofferenza psichica e ordinamento politico. In questo orizzonte mi è sembrato di poter individuare una singolare declinazione del rapporto tra angoscia e politica nella democrazia italiana, e mi riferisco in particolare ai saggi di Borrelli, Moroncini e Zanardi, che ne fanno un punto centrale dei loro rispettivi discorsi. Vorrei perciò cercare di commentare parallelamente queste tesi e i dispositivi teorici da cui prendono le mosse, e magari proporre qualche ulteriore spunto di riflessione.

Il lavoro di Borrelli mi sembra proporre una concezione dell’angoscia sviluppata a partire dall’intreccio di Machiavelli e Franz Neumann. L’angoscia contemporanea vi emerge infatti come il prodotto dell’incapacità della politica di governare gli antagonismi e di permettere il libero gioco dei desideri, e nel caso italiano come l’esito dell’incapacità della politica di integrare nel suo orizzonte la partecipazione delle singolarità sociali di volta in volta emergenti, in particolare in seguito alle lotte degli anni Sessanta e Settanta. Ora, non solo dall’incapacità della politica di sciogliere gli antagonismi sono derivati lo spegnimento dell’immaginario politico e la produzione di sofferenza psichica, ma le stesse politiche degli ultimi trent’anni hanno prodotto una soggettività incapace di riconoscere e nominare le proprie sofferenze. E così, se la sinistra è stata «incapace di problematizzare in maniera concreta la serie dei nessi tra le forme del governo misto (binario) democratico […] e le istanze indotte da tante soggettività che chiedono trasformazioni accrescitive delle libertà e dell’eguaglianza» (p. 61), l’avvento di Berlusconi ha distrutto «quell’attività libidica dei soggetti che aveva reso possibile (in una fase storica ormai trascorsa) importanti investimenti energetici produttivi da parte dei singoli» (p. 72), producendo un blocco dell’attività desiderante. Borrelli può sostenere così che viviamo attualmente esperienze politiche dominate da forme di angoscia nevrotica (che è per Neumann una situazione psichica caratterizzata da un senso di abbandono e di impotenza di fronte a un pericolo ignoto e pulsionale, e perciò differente dall’angoscia reale, che sorge di fronte a pericoli esterni): «Davvero rare sono reazioni concrete di angosce misurate ai problemi reali di una comunità in crescente sofferenza materiale e spirituale: piuttosto, i cittadini italiani manifestano segni evidenti di nevrosi, di grave malattia mentale. Ed infatti, i sintomi delle angosce nevrotiche aumentano» (pp. 80-81). Insomma, gli italiani sono attualmente incapaci di comprendere il processo storico che ha portato alla crisi e alle divisioni attuali, e dunque sono potenzialmente esposti a una manipolazione che trasformi le loro angosce in angosce persecutorie. Tale depoliticizzazione coincide con il fallimento della governamentalità neoliberale, e nel lungo periodo potrà produrre una radicalizzazione autoritaria e regressioni dell’Io.

Una valutazione differente è invece quella di Maurizio Zanardi, per cui Berlusconi sarebbe non tanto il prodotto della crisi, quanto l’inveramento cinico e osceno della governamentalità neoliberale (e in particolare di quella propria della scuola di Chicago). L’elemento interessante della sua analisi mi sembra però consistere piuttosto nella messa in evidenza dei cambiamenti apportati dal berlusconismo al registro della legittimazione politica. L’attuale configurazione politica mette in piazza l’oscenità, anzi, vi è «la pubblica rivendicazione del lato osceno, ormai non più tale perché agito alla luce del sole, come fonte di legittimazione: dal si sa ma non si dice al si sa e si dice» (p. 117). È a questo livello che ha luogo l’identificazione con Berlusconi, è qui cioè che Berlusconi suscita la somiglianza con l’uomo comune. Il riferimento di Zanardi è senza dubbio Slavoj Žižek, che nell’intervista concessa ad Antonio Gnoli sostiene che «il potere può oggi funzionare senza dignità e serietà, senza i regalia dell’autorità». A differenza di una prospettiva come quella neumanniana, non è allora con la distorsione della verità a seguito della crisi che Berlusconi promuove l’identificazione (anche se a Neumann non è certo sconosciuta la potenza del Super-Io), ma proprio con il discorso osceno, vale a dire con il supplemento coercitivo che è al di là della legge pubblica. Ora, però – e arrivo con ciò a quello che mi pare essere l’elemento più importante –, Zanardi ritiene che questo sistema non sia sufficiente a canalizzare angoscia, al contrario: non basta «la pubblica oscenità […] perché [essa] esige sempre di più e getta nell’angoscia, nel sentimento che la trasgressione deve essere ripetuta perché non offre la soddisfazione immaginata» (p. 118). La soluzione a questa angoscia sarebbe risolta dalla Lega: è questa, infatti, a tenere «insieme il carattere svincolante, disgregante, dell’impresa e la comunità calda della razza padana» (p. 120), permettendo cioè di scaricare sull’altro le proprie angosce.

Vengo infine al lavoro di Bruno Moroncini, che mi sembra quello maggiormente centrato sull’argomento, e che propone una tesi molto originale del ruolo di Berlusconi. Uno degli aspetti interessanti di questa lettura è la sua contrapposizione a quelle di Massimo Recalcati e di Žižek, che pure partono dal medesimo dispositivo teorico, e che vedono entrambi in Berlusconi l’incarnazione del padre primordiale dell’orda di freudiana memoria, nonché, nel caso di Žižek, l’invenzione dell’«autoritarismo permissivo».

Partendo da una concezione dell’angoscia come quella lacaniana, che consiste, tra l’altro, nell’esser presi nel godimento dell’Altro, Moroncini può riconoscere la prestazione fondamentale di una figura come quella di Berlusconi nel tenere a bada l’angoscia, nonché la sua potenza distruttiva. Berlusconi, tra l’altro, schermerebbe cioè la contraddizione del desiderio propria del neocapitalismo, vale a dire l’ingiunzione a godere e l’impossibilità del godimento: «con il poco del suo corpo Berlusconi tenta di schermare il fatto che l’oggetto del desiderio, quello che dovrebbe procurare il godimento verso cui ci spinge l’imperativo etico del neocapitalismo consumista è impossibile, e che se mai travalicasse i confini dell’immaginario e diventasse reale ciò costituirebbe l’inizio della fine» (p. 176). In altri termini, finché l’offerta dell’oggetto di godimento dà l’illusione di annullare l’angoscia che attraversa il soggetto, quest’ultima non assume una tensione distruttiva. Fin quando cioè l’inefficacia della legge simbolica è occupata dall’oggetto di godimento nella forma del consumo, il Super-Io non mostra la sua violenza barbarica, nel senso che non tende a offrire agli dei oscuri nessun oggetto di sacrificio; scomparsa però la cornice, nonché la possibilità di correre ai ripari dopo il segnale di pericolo, la situazione traumatica in cui ci si verrà a trovare sarà ingovernabile, nel senso che, in termini freudiani, vi sarà un afflusso di eccitazione non padroneggiabile – la pulsione non riuscirà a raggiungere più alcuna meta, in assenza di rappresentazioni che specifichino un oggetto e il relativo modo di soddisfacimento. Se Berlusconi riesce a compiere questa canalizzazione non è però perché incarna l’arcaico padre primordiale, bensì al contrario perché costituisce la cornice in cui può apparire l’oggetto del desiderio, e dunque in quanto corpo femminile: Berlusconi è promessa di un godimento «in più, un godimento che non si situa come quello del padre primordiale prima dell’uccisione e del pasto rituale compiuto dai figli-fratelli a partire dai quali si inaugura il regime degli scambi matrimoniali e l’accettazione della castrazione, ma dopo, nel punto cioè in cui un amore sovrabbondante assolve dal delitto originario e ci accoglie nel suo grembo come una madre premurosa» (p. 173). Insomma, assicurando una manifestazione fantasmatica dell’oggetto del desiderio, Berlusconi inquadra l’oggetto perturbante, lo evoca e lo incanala.

Le differenze tra queste letture mi sembrano evidenti, pur nel sostanziale e comune orizzonte d’attesa. Se ad esempio il dispositivo neumanniano conduce a negare la possibile coesistenza di angoscia (nevrotica) e democrazia (e difatti per Borrelli la sperimentazione democratica in Italia non ha avuto buon esito), quello lacaniano inquadra l’angoscia come ineliminabile, anche dall’orizzonte democratico. Diverse, poi, sono le soluzioni all’angoscia nel contesto italiano, nella misura in cui si individuano almeno due soggetti in grado di porvi un argine: Berlusconi come cornice in cui si manifesta in modo fantasmatico l’oggetto del desiderio (Moroncini), la Lega sul versante immaginario, come punto che permette di scaricare le angosce prodotte dalla coazione a trasgredire (Zanardi) – e tuttavia anche la Lega mi sembra produrre angoscia, nella misura in cui la sua radicalizzazione immaginaria ci fa guardare con angoscia al nuovo. Riguardo alla figura di Berlusconi, se per Borrelli e Zanardi è regressiva – per il primo perché produce non solo un blocco dell’attività desiderante che genera negli individui un rafforzamento delle «tendenze narcisistiche e contemporaneamente apre al godimento di oggetti per un consumo interminabile e privo di senso» (p. 72), ma in più apatia e afasia politica dei soggetti (e in questa prospettiva mi sembra vadano anche le considerazioni di Eleonora de Conciliis), e per il secondo perché getta in un’angoscia ingovernabile –, per Moroncini è invece progressiva, in quanto capace di contenere le angosce contemporanee impedendo, nell’assenza di un qualcosa di simile a sinistra, che queste si radicalizzino. Al di là però delle differenti valutazioni su Berlusconi come prodotto o come perversione della democrazia, evidentemente dipendenti dalle differenti concezioni della democrazia stessa, e al di là delle diverse valutazioni del neoliberalismo, della neotelevisione e dei new media, mi sembra che i tre autori concordino nel ritenere che la figura di Berlusconi sia in qualche modo legata all’angoscia contemporanea. Altro problema, poi, è misurare quanto essa riesca davvero a impedire che le angosce si trasformino in angosce persecutorie – cosa a mio parere evidente. Che infatti il dopo Berlusconi possa configurare il peggio è certo una possibilità, ma mi pare difficilmente contestabile che la sua figura canalizzi angoscia.

A fronte di queste analisi, che mi sembrano tutte portare sul problema del “che fare” dell’angoscia legata al neocapitalismo, penso sia evidente che l’angoscia costituisca un problema politico di primo piano, e che dunque sarebbe opportuno indagarne la genesi a partire dalle nostre forme di esperienza. E allora, considerata la prevalenza di questa tonalità affettiva, mi chiedo, e chiedo conseguentemente agli autori dei saggi in questione, se non ci troviamo di fronte alla tonalità politica affettiva propria della modernità, una tonalità che incide sulle nostre forme di esperienza perché evidentemente prodotta da una serie di meccanismi e tecniche di governo propri del moderno. Evitando di mettere in campo altri eventi propri della modernità, basti pensare anche semplicemente al carattere ansiogeno del cittadino democratico di fronte all’uguaglianza e alla libertà secondo Tocqueville. Ma pure al di là della diagnosi tocquevilliana, mi chiedo se l’angoscia come affetto politico non possa essere messa in relazione, anche se con una forse indebita generalizzazione, alla nascita dell’arte di governare liberale. È Foucault ad aver mostrato che le democrazie moderne hanno convissuto con una forma di governamentalità il cui correlato psicologico era il pericolo. Se la governamentalità moderna è costretta a produrre libertà per funzionare, nonché a organizzarla, se cioè gestisce e organizza le condizioni di possibilità della libertà, questa governamentalità ha a sua volta come condizione di possibilità la sicurezza, nel senso che i meccanismi di governo propri dello stato avranno il compito di proteggere dai pericoli interni. La governamentalità liberale opera un radicale cambiamento di direzione del problema e della percezione del pericolo (e conseguentemente dell’angoscia politica), nella misura in cui lo trasforma da esterno – e una delle prestazioni del sovrano è quella di proteggere da questo pericolo – a interno. Il fatto che ognuno di noi diventi un rischio per l’altro comporta che sul piano dell’esperienza, del vissuto soggettivo, i soggetti si percepiscano come fattori di pericolo. Se l’angoscia è il segnale prodotto dall’Io per evitare il pericolo, e dunque per stabilire un meccanismo di sicurezza, il quale a sua volta non farà altro che rilanciare il pericolo per la libertà, allora in origine il liberalismo, nel suo porre continui pericoli per la libertà, fa sì che i soggetti siano perennemente mossi un vissuto psichico paragonabile all’angoscia.

Le democrazie moderne hanno insomma istituzionalizzato una forma di pericolo cui non hanno risposto con la partecipazione politica ma con le discipline, con il sapere, con la gestione efficientistica, con il governo dell’emergenza. È possibile allora ritenere che la prestazione fondamentale dell’arte di governare liberale consista nella produzione di angoscia governabile? E che dunque il desiderio di essere governati, nel corso di una crisi di governamentalità, possa radicalizzarsi? (Berlusconi potrebbe allora essere visto tanto come una crisi del dispositivo neoliberale quanto come l’inveramento osceno del neoliberalismo, o ancora come un collettore di angoscia che contiene le contraddizioni dell’imperativo etico del neocapitalismo, ma in ogni caso sarebbe il prodotto o una risposta a una crisi di governamentalità).

Se questa ipotesi può essere verosimile, allora la sua prima conseguenza è che tanto l’angoscia quanto la libertà moderna sono il prodotto di una pratica governamentale, il che vuol dire semplicemente che possono essere modificate.

Ad ogni modo, è certo che il “che fare” riguarda anche le possibili ‘soluzioni’ all’angoscia, a partire dalla paura o dalla malinconia – soluzioni, queste, che tuttavia, almeno credo, prima o poi dovranno però essere superate, pena una radicalizzazione della prima in un orizzonte distruttivo, e una degenerazione della seconda in un orizzonte depressivo tale da favorire una regressione dell’Io.

E allora, il problema sollevato da Vincenzo Cuomo relativamente al governare da sinistra – che mi sembra riecheggiare quello posto a suo tempo da Michel Foucault riguardo all’assenza di una governamentalità socialista (appiattita sull’orizzonte di problemi inaugurato dalla governamentalità liberale) – credo possa essere letto in questa direzione: sviluppare una governamentalità di sinistra che a partire dall’angoscia contemporanea produca trasformazioni dell’assetto politico. Tuttavia, a parte il fatto che ciò sembra assente dall’orizzonte della sinistra italiana, che ha soprattutto pensato, almeno fino ad ora, a resistere malinconicamente (e la critica moralistica non ha certo poi giovato, perché ha consentito a Berlusconi di contenere i disagi di grosse fette di popolazione che hanno continuato a votarlo pur senza ricavarne alcun benessere), credo che il problema di una governamentalità di sinistra possa essere risolto nel lungo periodo solo attraverso una pratica incessante e problematica (e dunque anche un po’ angosciata) della democrazia, pena una prospettiva riformatrice al livello degli interessi e degli scopi sociali, ma reazionaria al livello desiderante – come ritenevano Deleuze e Guattari. Credo che l’elaborazione in Italia di una governamentalità di sinistra all’altezza dei processi attuali sia stata impedita anche dall’insistenza sull’indignazione morale, e dunque dall’incapacità di vedere quanto le nuove forme di esperienza siano in grado di produrre. Solo la creazione di nuove istituzioni può porsi all’altezza dei problemi attuali, e per questa ragione mi sento di concordare pienamente con l’orizzonte d’attesa degli autori dei saggi in questione laddove premono per una messa in comunicazione delle sofferenze e per l’elaborazione di nuovi dispositivi di partecipazione, per l’apertura di nuove possibilità dopo un serio lavoro del lutto, o infine per dare una durata a quei lampi sociali che fanno vacillare la consistenza del mondo.

 

 

 

Eleonora de Conciliis

 

Vorrei prendere la parola, per la seconda e ultima volta, nel vivace forum che Vincenzo Cuomo sta coordinando a partire dal testo collettaneo di Cronopio, La democrazia in Italia, nel quale si trovano numerosi spunti di riflessione relativi al nostro ‘che fare’? filosofico-politico in un momento davvero tragico per il paese, sia a causa della gravissima situazione economica, sia a causa della evidente impotenza delle forze d’opposizione a produrre qualcosa di saggiamente strategico e dunque definitivamente alternativo ad un berlusconismo ormai agonizzante.

Non ero presente all’incontro sul libro che si è svolto nello scorso giugno, ma vorrei rispondere in modo autoironico eppure molto serio allo stesso Vincenzo, che ha sollecitato l’esigenza di: 1) uno spostamento della discussione sul problema dell’assenza, nella sinistra italiana, di una ‘impura’, cioè realistica elaborazione teorica (con relativa attuazione pratica non meramente tattica) sul governo – sulla governamentalità, per dirla con Foucault; 2) un sacrosanto ritorno al reale in termini di educazione e generazione, oltre che di governo, dal momento che – aggiungo – il magistero e la genitorialità, insieme alla gestione del potere, versano in condizioni abbastanza ridicole, quando non patologiche (mi riferisco non solo all’inettitudine tecnica, governamentale, di maggioranza e opposizione che è in questi giorni davanti agli occhi di tutti ma anche, da un lato, alla mancanza di nuovi maestri in un panorama culturale e un sistema di istruzione superiore ormai autoconservativo, dall’altro – e qui sono in disaccordo con lui – alla frenesia riproduttiva di tutta la popolazione italiana, dai vip ai ceti medi ai sottoproletari, cui però difetta un’adeguata capacità di educare, presente in misura inversamente proporzionale a quella di viziare l’agognata prole). Poiché sono io stessa una specie di macchina celibe (ma solo nel senso che non ho voluto riprodurmi: sono piuttosto una macchina da scrivere) che aspira al magistero (nel senso che cerco di insegnare al di là dell’istituzione), e poiché considero le due scelte molto politicamente scorrette e teoricamente (anche se non sempre praticamente, com’è nel mio caso) indissolubili, parto da questo secondo punto.

Non credo che oggi il sedicente intellettuale di sinistra, sia esso uomo o donna, si vergogni di riprodursi e di essere genitore, anzi: lo ritiene parte integrante della sua vita ‘culturale’, del suo essere socialmente, oltre che politicamente corretto. Tranne in rari casi, da addebitare talvolta a un (in)sano egoismo e talaltra a vicende contingenti, lo fa spesso in età matura e quindi con grande coscienziosità, salvo poi subire il contraccolpo biologico della propria lentezza decisionale (anche e soprattutto in termini di crisi di ruolo e separazione dal partner). Il problema non è se generare o meno, ma perché, e come educare durevolmente i propri figli (non nel senso di vessarli fino ai trent’anni, ma al contrario, nel senso della capacità di renderli durevolmente autonomi). L’attuale svilimento della figura e della funzione socio-culturale, oltre che politica (parresiastica, in termini foucaultiani) del maestro (che non può essere anche genitore: per me le due figure, se prese entrambe sul serio, si escludono, così come la dedizione alla politica esclude l’attività imprenditoriale – c’è conflitto di interessi), la neutralizzazione della sua possibile attività più o meno compatibile con l’istituzione scolastico-universitaria o addirittura extra-istituzionale, si accompagna ad una de-responsabilizzazione edonistica oppure (nel caso dei suddetti acculturati di sinistra) ad un’enfasi autobiografico-celebrativa della funzione genitoriale: in Italia, quando non si procrea per sbadataggine, benessere o ignoranza, raramente si fanno figli per educarli, per ‘soggettivarli’ (cioè per amore dei figli stessi); molto spesso li si fa per abitudine, per rispondere a un’aspettativa familiare-sociale o per soddisfare un bisogno socio-narcisistico, prima che biologico. Questo bisogno nasce a mio giudizio da ‘un senso di vuoto’ (per citare una famosa battuta dell’attore Luca Zingaretti), cioè dalla percezione oscura ma insopportabile della propria insensatezza e/o incapacità di soggettivarsi. A differenza di quanto accadeva alle generazioni precedenti, che non problematizzavano affatto la generazione né l’educazione, a un certo punto si fanno figli per dare un senso alla propria vita – perché, invasi dall’angoscia, si cerca di porle un freno attraverso una condotta biologicamente e socialmente ‘utile’. Tuttavia in tal caso generare non è la soluzione, quanto piuttosto il sintomo.

Veniamo così al primo, importante punto sollevato da Vincenzo, al vuoto teorico della sinistra italiana, che mostra oggi di aver fallito in tutti e tre i campi cui egli allude nel suo intervento: nell’educare, nel generare e nel governare. Ha fallito, beninteso, dopo essersi cimentata. Si potrebbe infatti ipotizzare che le lacune teoriche e le debolezze di gestione del potere, da parte della sinistra, non siano solo storicamente motivate dal fatto che, in effetti, ha governato poco e mai da sola (quando non è stata strutturalmente ‘contro’, sorta di pungolo critico della democrazia parlamentare, ha sempre dovuto scendere a compromessi con altre forze politiche, e non mi riferisco solo al compromesso storico), e che lo ha fatto, paradossalmente e prevalentemente, dopo la fine del comunismo, quando cioè non era più la sinistra, ma la Cosa (anche lacanianamente apparentabile ad un congegno mostruoso e terrifico posto al centro dell’apparato psichico dei militanti…). Scherzi a parte, bisogna riflettere sul fatto che la sinistra ha pensato e poi realizzato la gestione del potere sul piano territoriale e amministrativo e non su quello socio-culturale ‘intellettuale’ (qui ha ragione Vincenzo: tanta enfasi sulla democrazia in nuce o a venire, e pochi strumenti per praticarla nella realtà), in un orizzonte storico-politico segmentabile in tre periodi completamente diversi:

- primo segmento, il bipolarismo della guerra fredda fino agli anni sessanta vedeva la sinistra culturalmente egemone, e quindi forte, pedagogica, ma politicamente sottomessa in un’Italia ancora socialmente abbastanza semplice, in bianco e nero, di cui perciò rifletteva le passioni elementari (Don Camillo e Peppone, per intenderci); la sinistra italiana ‘storica’ (Napolitano & figli) è cresciuta in questo clima, in cui si oscillava tra l’obbedienza più o meno cadaverica al PCUS, che dettava tatticamente la linea strategica ai partiti europei, e l’evasione onirica in un comunismo etico, infantilmente e paradossalmente sognato a partire dal nuovo benessere donato dal capitalismo staunitense (con una sorta di scissione, o meglio di doppia verità della politica comunista);

- secondo segmento o periodo, quello che si apre con la contestazione e culmina nel terrorismo e nel caso Moro, in cui la sinistra continua ad essere culturalmente egemone ma si confronta con una società più complessa, almeno superficialmente in ebollizione, l’Italia dei ‘movimenti’ e dell’‘in-comune’ a cui ancora oggi ci si richiama, abbastanza nostalgicamente, quando si cerca di trovare i segni di una possibile ri-politicizzazione, e quindi ri-democratizzazione, della società civile; in questo periodo, ‘scioccante’ per il partito, il sogno si è tradotto, e non solo in Italia, nel Grande Rifiuto, nel ‘no’ delle nuove generazioni al capitalismo (ma in fondo educate dal capitalismo), senza peraltro andare oltre la fase onirica che non prevede una gestione materiale, concreta, tecnica del potere (da cui anzi talvolta ci si allontana con sdegno, talaltra esercitandolo in luoghi più discreti, come l’università), ma solo una distruzione fisica (sedicente rivoluzionaria, terroristica, già delirante come i volantini delle BR) o virtuale dell’esistente (infatti le forme di vita e le psichicità prodotte dal capitalismo nel ventennio precedente non sono state realmente superate, ma soltanto disconosciute in senso freudiano se si vuole, mentre l’establishment comunista, sulla difensiva, restava legato al vecchio apparato partitico senza ‘contaminarsi’ con la cultura giovanile: fallimento pedagogico mascherato dall’istruzione di massa);

- infine, terzo periodo, quello aperto dal riflusso e forse ancora in pieno svolgimento, durante il quale si assiste, da un lato, alla formazione (nascita, crescita, familismo, istruzione, consumo, riproduzione, precarizzazione, ecc.) di soggettività che vivono il capitalismo come qualcosa di naturale e quindi di indiscutibile, di socialmente e semiologicamente mitico (in senso barthesiano: ecco perché, come nota Gianvito Brindisi nel suo intervento, sono ‘angosciati’ e incapaci di capirlo, di articolare un discorso critico su di esso), e dall’altro, con il crollo del Muro, alla pietosa nonché fallita elaborazione del lutto sul comunismo realizzata dal PCI; in questo lungo periodo, che attraversa mille impercettibili metamorfosi psicosociali, la sinistra va anche al potere ma subisce pesantemente l’inoltrepassabilità del capitale: per governare si fa riformista, centrista, filo-craxiana, veltroniana, dalemiana, prodiano-ulivista, ecc., e smette di avere le connotazioni etico-sociali che già quelli della mia generazione hanno potuto solo studiare sui libri. Il culturame del riflusso ha presto imbalsamato quest’archivio della memoria, lo ha a un tempo nobilitato e svilito come patetico, mentre accanto ad esso si faceva largo il volto antropologicamente mediocre e socialmente divisibile del potere (vedi la moltiplicazione delle poltrone), un volto che l’Italia profonda (oggi leghista e berlusconiana se con un reddito medio-basso o medio-alto, se insomma ha qualcosa da perdere) ha ereditato dal fascismo e dalla monarchia sabauda, al quale Gramsci (che è stato forse l’unico grande teorico del potere espresso dal comunismo italiano) e il ’68 hanno fatto solo il solletico, e al quale non serviva alcuna teoria per essere esercitato, un potere sostanzialmente vuoto, che veniva preso e goduto come un pranzo domenicale, non elaborato, non ‘lavorato’ eticamente e neppure tecnicamente, ma allegramente accumulato (come il nostro debito pubblico: ma il denaro è nulla, è l’equivalente universale) e consumato senza alcun domani.

Ecco il punto: un progetto politico di lungo respiro (strategico e tattico) ha senso solo se pensato da MOLTE soggettività temporalizzanti che lavorano insieme, soggettività forti che sembrano NON venire né psichicamente né socialmente prodotte in Italia da almeno trent’anni. Per avere una teoria e una pratica efficace della governamentalità socialista, sempre per rimanere al Foucault evocato da Gianvito Brindisi, ci vogliono dei soggetti che separano il potere, come oggetto di un desiderio tanto coattivo quanto inesaudibile (vuoto), dalla sua teoria e dalla sua pratica reali, che insomma da un lato sublimano, sfuggendo al fantasma del godimento, e dall’altro storicizzano e demitizzano, misurandosi con l’assetto reale della globalizzazione, dunque con le condizioni effettive della struttura psicosociale, ed economica, in cui debbono operare se vogliono (e sia ben chiaro, possono) modificarla. Ebbene, questi soggetti, se pure ci sono, non fanno (più) politica, hanno smesso o non hanno mai cominciato a credere che abbia senso (un senso sociale) impegnarsi in tale direzione. Fanno ricerca scientifica, magari sognano la democrazia a venire, ma non si impegnano in una teoria della governamentalità: forse sentono oscuramente che nella congiuntura storica attuale questa teoria è destinata a rimanere tale, impolitica proprio perché radicalmente politica.

Mi si dirà: e i movimenti? e i giovani in piazza? e quelli che, come si dice, ‘lavorano sul territorio’, che meritoriamente lo amministrano, ecc. ecc.? A rischio di essere impopolare, a sinistra, credo che tutti costoro, di cui peraltro abbiamo un gran bisogno sociale, culturale e politico, non producano alcuna teoria globale del governo, e difficilmente sarebbero disposti a sobbarcarsi l’onere di una pratica del potere politico nella sua complessità e lungimiranza, nel suo magistrale esercizio (ciò che Weber chiamerebbe un Beruf, una vocazione), ma cercano, con gli strumenti che hanno a disposizione (ecologia, buon senso, talvolta semplice onestà), di rimediare ai danni che il volto mediocre del potere, in trent’anni, ha prodotto sul LORO territorio, oltre che nelle loro teste. Non appena queste teste si alzano per guardare oltre, allo Stato o, come si dice oggi, al sistema-paese, per non dire all’Europa o al mondo, si genera qualcosa che definirei caos pulsionale (la famosa angoscia): molta comunicazione internettiana e condivisione, molte proposte, molta buona volontà, ma (se si escludono i neonazisti evergreen) nessun gruppo unitario, coerente, coeso e politicamente, oltre che economicamente capace di imporre una visione esaustiva del ‘che fare?’, mentre i partiti, ormai mummificati come i loro leader, ne approfittano per continuare imperterriti a consumare il loro potere. Non importa che sia vuoto: è un simulacro, e come tale viene adorato.

Vengo così all’intervento di Gianvito Brindisi: l’angoscia psicosociale oggi diffusa, l’angoscia ‘psicopolitica’ di cui soffrono i cittadini italiani con il loro Io poco strutturato o totalmente assente, comunque fallimentare (perché frutto dei tre fallimenti di cui sopra: generare, educare, governare), è ormai lontana da quella freudiana, anche se presenta analoghe forme infra-simboliche, nel senso che si tratta di un’incapacità di tradurre in discorso – un discorso ovviamente non confessionale – l’esperienza psicofisica del disagio. Quanto a Foucault, a partire dal ’76 ha ben compreso quali meccanismi abbiano favorito il consolidamento psicosociale del neoliberalismo (libertà/sicurezza, ecc.), più in generale della governamentalità tardo-capitalistica, nella chiave, se vogliamo angosciante, ansiogena del ‘pericolo’, e forse in virtù di tale comprensione ha teorizzato il governo di sé e degli altri come l’antitesi di ogni forma di angoscia. Detto in altri, più brutali termini: penso che Foucault, in quanto anti-pastorale teorico della cura di sé, sia incompatibile con una lettura prevalentemente psicoanalitica del contemporaneo, in particolare con quella lacaniana (nonostante abbia inizialmente subìto il fascino di Lacan) e con tutte le sue versioni applicate all’ermeneutica della politica attuale, poiché resta il pensatore non angosciato (e teoricamente non angosciante) di una democrazia illuministicamente intesa, di cui ha dribblato con largo anticipo tutte le declinazioni essenzialiste-rivoluzionario-ossessive e falsamente populistiche riducendola all’osso, ovvero a ciò che è: una pratica di governo degli uomini che riesce bene solo se si è costituiti come soggetti forti che si autogovernano liberamente. Proviamo allora ad analizzare l’assetto psicosociale, infantile e pericolosamente dissociato ma estremamente resistente (ahimè, proprio in senso foucaultiano) dell’elettorato di centro-destra. Non credo che chi vada a votare Lega o Pdl lo faccia per sfuggire all’angoscia (strategicamente indotta) di fronte all’extra-comunitario o perché attratto dal godimento promesso dall’identità sessuale di Berlusconi o dal celodurismo di Bossi; al di là della pur palese identificazione simmetrica con il proprio simile (ignorante vota ignorante, cummenda vota cummenda per godere in uno specchio di superiorità, un po’ come un tempo, a sinistra e in modo però molto più dissimmetrico, per così dire reverenziale, insegnante votava docente universitario, cancelliere votava magistrato o notaio, infermiere votava medico, ecc.); credo piuttosto che lo faccia per poter continuare a godere del suo piccolo, vuoto potere economico, sociale, politico, sessuale e anche culturale. L’elettore di centro-destra ‘resiste’ perché se ne frega, non perché è angosciato: se ne frega della realtà della crisi, della sofferenza economica (e quindi psichica) dei precari, degli immigrati e di tutti quelli che non sono angosciati, ma hanno semplicemente paura di non avere di che vivere. Da questo punto di vista, ritengo che l’angoscia classica, freudiana, sia stata superata o meglio assorbita dal vuoto psicopolitico: la nevrosi, che presuppone ancora una psichicità organizzata e residenziale (l’Io), è ormai diventata psicosi reattiva o comunque socialmente indotta, disseminata, frammentata. L’angoscia non si manifesta al momento, strategico, del voto (qui si manifesta anzi, ed anche nell’elettore del Pd, un freddo e mediocre, ancorchè sbagliato calcolo sul ‘meno peggio’ rispetto al proprio micropotere), ma dilaga o si traduce in gesto folle (il famoso ‘passaggio all’atto’ di Žižek, che ha ben poco di politicamente rivoluzionario) nel momento in cui non funzionano le fragili strutture psichiche che gli individui erigono per camuffare il vuoto che intanto consumano – che essi, in effetti, sono. Un tale vuoto caratterizza beninteso tutti i membri della società tardo-capitalistica, nella misura in cui tutti sono stati prodotti per consumare. Siano essi piccoli imprenditori o precari, docenti o immigrati, ceti medi o amministatori delegati della Fiat, in qualsiasi momento può crollare (è il famoso crollo psicotico) l’esile struttura psico-linguistica che avvolge l’insensatezza delle condotte sociali e delle loro reali conseguenze: lavorare, studiare, comprare, godere, amare, fare figli, divorziare, invecchiare e persino ammalarsi e morire, in sé, sono cose che non hanno alcun senso, ma che lo ricevono solo grazie all’investimento di senso che il soggetto conferisce loro. Ma, per l’appunto, è il soggetto a non esserci, è il suo processo di soggettivazione ad essere abortito, a non costituirsi come centro di riferimento autonomo (a sua volta vuoto, ma almeno strutturato, attivo, progettuale e dunque politico) delle sue condotte, mentre l’individuo infra-politico resta ancorato all’angoscia sociale di non farcela (di non essere come gli altri) ed esposto all’improvvisa angoscia psicotica per non avercela fatta (ad essere come gli altri). Questi individui angosciati, impauriti dalla crisi, dunque, ‘resistono’ anch’essi in senso foucaultiano: cercano di mettere in atto delle strategie, spesso a breve termine, in grado di garantire loro un altro micropotere, ad esempio in sede lavorativo-contrattuale, o familiare, o sessuale. Essi credono a buon diritto di fare politica, politica della nuda vita come sicurezza sociale ed economica, ma così facendo soggiacciono alla stessa logica che impone agli elettori del centro-destra di votare i propri leader: tirano a campare, mentre quelli tirano a campare bene.

Forse alla sinistra italiana manca, per elaborare una teoria del governo, cioè una teoria della esercitabilità non solo tattica del potere nella società attuale, una durissima teoria psicosociale in grado di eliminare tutti i paludamenti retorici ed etici della politica, di guardare in faccia la debolezza speculare dei governanti e dei governandi, e di porsi un nuovo obiettivo, in fondo molto sensato dal punto di vista ambientale, ecologista e oggi anche economico (visto che siamo in recessione ed è finita l’euforia speculativa della finanza): progettare, con una certa sublime e sublimante meticolosità, di generare, educare e governare per molto tempo – voler durare, non voler semplicemente resistere. Forse questo è l’unico modo per guardare politicamente, e senz’alcuna angoscia, al di là del nostro naso, perché il capitalismo, ormai, puzza.

 

 

 


Ludovico Fulci


Premetto d'essere nuovo di Kainos, di non avere dimestichezza con le persone che hanno accettato l'invito al forum proposto da Vincenzo Cuomo e che tratta di questioni appassionanti sullo spunto offerto dal libro La democrazia in Italia.

Io credo che, anche nelle contrapposizioni, le scuole di pensiero abbiano poi qualche sotterranea memoria di sé nel passato e, per esempio, spunti che vengono da Rousseau o da Hobbes o da Machiavelli si rinvengono in posizioni politiche diverse e tra loro magari diversissime.

Il punto, come mi pare emerga chiaramente dal dibattito del forum, è che la acculturazione – forse la molla principale che muove i ceti medi “riflessivi” a scandalizzarsi della politica di stampo berlusconiano – si risolve in un perbenismo di sinistra che non ha nulla a che vedere con una coscienza politica degna del nome. Fino a che punto tutto questo impedisce alla sinistra una convincente azione di governo? Credo sia corretto tradurre in questi termini la richiesta di Vincenzo Cuomo di discutere circa una governabilità da sinistra.

Tutti noi sappiamo che da Schopenhauer e Kierkegaard in poi la volontà corre più veloce del pensiero. La destra, magari da altre fonti, ha appreso questa verità; la sinistra tardoilluministica fa fatica a rinunciare a modelli intellettualistici nei quali si rifugia per giustificare le proprie ragioni, per darsi un fondamento. La contrapposizione diventa in questo modo inevitabile, perché riguarda due atteggiamenti differenti di fronte al presente, con la novità piuttosto inquietante di una sinistra in certo modo conservatrice. Il fatto è obiettivamente grave perché nell’attuale schema bipolaristico una delle due forze in gioco è stimolata dall’altra che la sfida a ricoprire un ruolo che ad essa sembra addirsi particolarmente, cioè stare all’opposizione, col che addio all’alternanza…

Tra moderni e post-moderni, può essere utile appellarsi allora a chi, stando sulla soglia della modernità, trapassa più facilmente nel post-moderno, cioè il vecchio Machiavelli. Machiavelli sostiene nel Principe (cap. 22) che ci sono tre tipi di intelligenze, una che capisce da sé un'altra che ha bisogno di riflettere sulle cose e infine una terza che è come se non esistesse, incapace com'è di intuire e di dedurre dai fatti.

Tra le molte leggende che nei secoli si son venute costruendo sull'uomo animale intelligente c'è appunto quella nella quale crede Machiavelli, secondo cui la prontezza d'ingegno di chi capisce le cose lì per lì sarebbe dote squisitamente politica. A guardare da vicino i fatti, per come questi possono essere analizzati con gli strumenti di oggi, si verifica facilmente che chi ha più potere ha di necessità più “prontezza”. E' quanto accade a Horace Walpole, scrittore e uomo politico inglese del Settecento, che, per un caso trova – evidentemente grazie alla posizione di potere che riveste – quel che cercava e, per “serendipidità” (a lui si deve il termine), scopre l'albero genealogico di una famiglia circa la quale aveva avuto il compito di trovare informazioni.

E’ dunque vero che la sinistra intellettuale, “pensatrice”, che vuole “educare”, che si rivolge ai “ceti riflessivi” come al proprio zoccolo duro, non ha cultura di potere e questo le impedisce di avere cultura di governo. Al contrario Berlusconi, che ha potere fino al delirio, esce sempre fuori dalle righe, cioè non si preoccupa neppure di studiare una strategia. Non perde tempo a domandarsi se si debba far questo o quello. Fa e quello che fa va bene. Ai ceti riflessivi (cioè borghesi educati a essere borghesi) tutto questo appare illogico e li sconcerta, perché per loro prima si pensa e poi si fa, prima si desidera il frigo e poi lo si compra, scegliendo ponderatamente il migliore. Atteggiamento fuori moda e forse fuori dal mondo, perché il consumatore, consuma compulsivamente e più ha da spendere, più spende bene, perché fra tante cose inutili si trova sempre a disporre di quella che al momento gli è utile.

Credo che tanti in Italia si siano resi conto del fatto che la politica berlusconiana non comprende un progetto. Non esiste un disegno, non esiste nella destra, che recita sempre a soggetto, una “filosofia”. Ma è forse proprio questo che di Berlusconi piace agli italiani. Quando c'è un problema, Lui alza maiuscolamente il telefono e dà a qualcuno l'incarico di risolverlo. Comanda. Quel che, cedendo al mito popolare dell’uomo baciato dalla fortuna e dalla natura, non si vede è che il più delle volte il problema non si risolve affatto; in compenso si dà all'opinione pubblica l'informazione che tutto quello che fosse umanamente possibile fare è stato fatto senza risparmio di risorse. La toppa insomma diventa un gioiello, con Bertolaso che, finché era uomo di punta del berlusconismo, neanche a pranzo si sarebbe cavato dalla testa il fido cappello da pompiere.

Tutto questo induce a un'autocritica della sinistra e in certo modo anche della democrazia, secondo calchi che sono stati individuati dai partecipanti al forum di Kainòs. E qui mi riferisco agli appelli a Benjamin e a Foucault in particolare. Il punto è che la sinistra sta perdendo tempo a spiegare sé stessa, a giustificarsi, mentre dovrebbe muovere all'attacco del fortino nemico, mettendo a nudo le contraddizioni presenti nel campo avversario.

A me pare che il punto debole della destra, individuato dalla de Conciliis, sia il suo essere irrimediabilmente cafona e di esercitare cafonescamente la propria volontà anche politica. Ora anche la volontà si educa perché, allo stato grezzo, conduce a scelte suicide come nel caso di Napoleone, di Hitler o di Mussolini, i quali hanno il loro prototipo più illustre in Edipo. Queste vere e proprie maschere tragiche, che conoscono solo eros e thanatos, da questi due naturali istinti dell'uomo si lasciano guidare e vi finiscono dentro. L'educazione della volontà, che è poi la maturazione dell'uomo (e del cittadino), dovrebbe costituire il nuovo obiettivo della sinistra, che in un'azione di governo, volesse coinvolgere un elettorato ormai demotivato e da motivare ex-novo. Il discorso è complesso, specie considerando il venir meno della pregiudiziale laica, dove lo spirito laico poteva essere fondativo di una volontà democratica, che si esprimesse in valori non immediatamente morali ma anche civici e perciò politici.

E allora occorre tornare più indietro e capire che cosa manca a Edipo. Edipo difetta del senso del comico (non sa ridere di se stesso perché non ride neanche degli altri) e difetta anche di quel che era costitutivo dell'ethos antico: il senso della sacralità del potere.

Quanto al ridere, oggi si ride, salvo eccezioni, sciocchissimamente, soprattutto in televisione, cioè nello spazio deputato a creare lo specchio dell’Italia fatto su misura per gli italiani. Circa la sacralità del potere, non è cosa che possa riproporsi ai giorni nostri. C'è però una ritualità del diritto, funzionale all'esercizio della giustizia, che si va perdendo. Parlo di una ritualità sostanziale, che comprenda anche i tempi rapidi dell’espletazione del processo, senza di che il processo rischia di trasformarsi in una burla. Agire perché la macchina giudiziaria funzioni è secondo me la via maestra di una politica di sinistra. Occorre però che anche governanti e parlamentari recuperino un po’ di questa ritualità e che insomma le leggi si facciano in parlamento e chi governi si limiti a fare il proprio dovere che consiste nell’amministrare la ricchezza del popolo italiano, senza di che si è rimandati a casa, senza scandalo per nessuno, qualunque sia lo schieramento politico a cui si appartiene. In fondo questo fa la democrazia. Sono cose semplici e comprensibili da parte di tutti.