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Considerazioni su La democrazia in Italia

 

 

(Su questo tema vedi anche il forum aperto a lettori e collaboratori della rivista).

 

 

 

Il recente volume La democrazia in Italia (Cronopio, Napoli 2011)1, che raccoglie sei saggi sulla situazione politica italiana, è un’occasione preziosa non solo per riflettere sui motivi di fondo che impedirebbero l’affermazione della “democrazia” in Italia, ma anche per porre a problema la complementare ma fondamentale questione dei rapporti tra gli intellettuali e l’elaborazione della teoria politica nel nostro paese.

Le analisi e le proposte teoriche che si trovano nel volume, pur partendo da un orizzonte comune di letture e suggestioni (Badiou, Rancière, Abensour, Laclau, ma anche Foucault e Lacan), non solo sottolineano aspetti differenti della condizione politico-culturale italiana ma prospettano anche esiti in alcuni casi divergenti.

Gli snodi teorico-critici intorno a cui potremmo riannodare i diversi saggi sono due: il primo è l’analisi critica del “berlusconismo” (e delle sue relazioni con il “leghismo”); il secondo è la critica alle deficienze della sinistra post-comunista nella elaborazione di una vera politica “democratica” in Italia.

 

I partiti della sinistra e le insorgenze

I saggi di Valerio Romitelli2, Rino Genovese3 e Mario Pezzella4, pur con accenti diversi, sviluppano un’analisi impietosamente critica della sinistra storica (di origine comunista) in Italia, accusata fondamentalmente: 1) di non aver fatto i conti, se non molto tardivamente, con i suoi legami d’origine con il comunismo sovietico; 2) di non essere stata in grado di elaborare una analisi critica (all’altezza) della complessità e della radicalità dei cambiamenti indotti dalla globalizzazione del capitalismo; 3) di essersi arroccata nella difesa “conservatrice” delle istituzioni repubblicane (Costituzione, Presidenza della Repubblica, Magistratura), finendo per fare il lavoro della destra tradizionale. A queste valutazioni – che si ritrovano anche, più o meno negli stessi toni, negli altri saggi del volume – questi tre saggi oppongono, con un gesto al contempo deciso e “schematico”, delle indicazioni politiche di “alternativa” e di uscita dall’impasse, per quanto sostenute da analisi sostanzialmente pessimiste della situazione politica italiana.

Valerio Romitelli sostiene che la crisi della politica in Italia sia il risultato della non risolta presa di coscienza, da parte del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana, del “vizio d’origine” della repubblica italiana. Vizio duplice, a suo parere, in quanto, da un lato, è consistito nell’esser saltati sul “carro dei vincitori” (USA e URSS) dopo la caduta (per implosione) del fascismo – e nell’essere stati perciò condizionati dal successivo conflitto internazionale tra le due superpotenze – dall’altro si è concretizzato nell’incapacità di valorizzare la lotta delle “bande partigiane”, vale a dire, a suo dire, «l’unica vera esperienza di autodeterminazione politica nell’Italia post-fascista»5. Per quel che riguarda la valutazione dell’azione del Partito Comunista Italiano da Togliatti a Berlinguer fino alla svolta di Achille Occhetto e, infine, alla nascita del Partito Democratico, il saggio di Rino Genovese è ancora più demolitorio. Il Partito Comunista si è sciolto per «estenuazione»6, senza essere stato capace di risolvere le sue contraddizioni d’origine e continuando a credere nella correttezza di una strategia politica fondata da un lato sulla infinita ricerca di un compromesso con il “partito cattolico” (strategia politica che taglia tutta quanta la nostra storia repubblicana da Togliatti a Berlinguer fino alla nascita del PD), dall’altro sulla difesa ad oltranza delle Istituzioni e della “centralità” del parlamento. Su questo punto Mario Pezzella, in un saggio centrato sull’analisi della progressiva affermazione (non solo in Italia) di una Società Autoritaria che «procede intensificando, allo stesso tempo, l’atomizzazione e la separazione degli individui e la loro riunificazione immaginaria o fittizia»7 e in cui «l’uguaglianza immaginaria di fronte al denaro e al consumo nasconde la sempre più feroce disuguaglianza reale»8, ribadisce che «i partiti della Sinistra italiana non hanno compreso la natura spettacolare (nel senso di Debord) di tale nuova società; sono entrati, come poveri cristi a un banchetto di signori, nelle giunte, nel parlamento, nel governo. Si sono cioè identificati anima e corpo con gli istituti di rappresentanza formale dello Stato, nel momento in cui in verità questi non contano e non decidono più nulla»9. Nei confronti di tale incapacità politica della sinistra storica italiana tutti e tre questi saggi propongono, come accennavo, delle “vie d’uscita”: Romitelli ritiene che dalla impasse politica italiana si possa uscire ricominciando a fare politica «dal basso, tra la gente che sta ai margini di tutto quello che conta per chi conta»10; Pezzella, in modo ancora più netto, richiamandosi esplicitamente a Rancière, sostiene la tesi che alla Società Autoritaria non possa che contrapporsi la «Democrazia Insorgente»11, capace di dare «voce e articolazione alla lotta dei “senza parte”, cioè a coloro che sono di fatto esclusi dalla cittadinanza e ancor più dall’élite dominante»12; Rino Genovese, invece, si appella alla «riproposizione e [alla] riscoperta del ruolo del partito politico, a partire da una sua democrazia interna di base, che rifiuti il leaderismo e rilanci l’idea di una progettualità collettiva»13, anche se ritiene opportuno che tale nuova forma di partito “di base” abbia un’impronta federalista transazionale, «che sappia riprendere il progetto di unione europea»14. Insomma, l’attivazione della democrazia in Italia dovrebbe passare necessariamente da una scelta di campo del “basso” contro “l’alto”, del “locale” contro il “globale”, della “partecipazione delle comunità alle decisioni” contro le “decisioni imposte dall’alto” – sebbene sia un po’ paradossale che Genovese, sullo sfondo di tale opzione, invochi un “governo giacobino” capace di «raddrizzare la situazione»15 attraverso una drastica legge anti-trust che recida il conflitto di interessi su cui si regge, cosa comunque vera, il potere di Berlusconi.

Pezzella, con argomentazioni abbastanza convincenti, sostiene che la Società Autoritaria sia «una risposta al disagio e alla crisi della democrazia spettacolare»16, tanto che «la disgregazione dell’identità individuale, unita al suo solipsismo narcisista e al venir meno di ogni legame sociale e di ogni sicurezza materiale, [ne] costituiscono il fondamento propizio»17. Tale società non «si sta costruendo contro il popolo, ma al contrario col suo largo consenso»18. A tal proposito Pezzella rileva come molti “frammenti” del tradizionale discorso della sinistra (sia di quella della tradizione comunista che di quella radicale e antagonista) siano stati fatti propri dal leghismo e riutilizzati – direi attraverso un inquietante détournment – come strumenti coerenti alla effettiva realizzazione di una forma autoritaria e “immunizzata” di società: «il federalismo, la critica dello Stato-nazione, la difesa delle identità locali e dei dialetti, l’autodecisione dei territori – egli scrive –, sono tutti elementi della cultura della Lega e non sono definibili come pura e semplice ignoranza: facevano tutti parte del linguaggio della sinistra – e di estrema sinistra – in Italia negli anni ‘70»19. Tuttavia, è lo stesso Pezzella ad indicare in quegli stessi elementi, ma evidentemente sottratti alla logica leghista, l’unica chance per l’emancipazione democratica. Si tratta, a suo dire, di radicare l’azione politica «nel “sito”, nella specificità del luogo e dell’ambito vitale, in cui sono coinvolti i suoi attori»20. Infatti, «il “sito” è l’essere-in-comune dove gli umani possono convenire insieme, rovesciando i rapporti asimmetrici di potere»21. Si tratta allora di escogitare le modalità attraverso cui sia possibile “legare” i siti in una «forma comune, senza ricadere nell’ottica ingannevole dei Partiti e delle istituzioni dello Stato»22. E ciò nello specifico significa la realizzazione di «istituzioni democratiche partecipative e non formali, fondate su meccanismi di delega controllabili»23. Pezzella, per la verità, ammette l’esistenza di «decisioni che non possono essere prese facendo riferimento a un unico territorio specifico», ma ritiene che il superamento dei possibili conflitti tra “comunità locali» (o “siti”) e strutture politiche di “livello superiore” possa avvenire attraverso la contrattazione e in una “logica federativa”.

Le proposte “alternative” sostenute in questi tre saggi mi sembrano viziate da alcuni (evidenti) limiti. Se è vero, infatti, che non c’è emancipazione democratica se non quando i “senza parte” sono capaci di “prendere la parola” rivolgendosi a tutti gli altri, è pur vero che una strategia politica deve necessariamente includere una “teoria di governo” che sia capace di fare i conti non solo con i problemi dei “territori” – come si dice – ma con quelle questioni di ordine globale e radicalmente trans-locali a cui non è possibile opporre solo “resistenze” ed “insorgenze” locali (cosa che, ovviamente, non escludo affatto in linea di principio) ma strategie esse stesse globali, che, tuttavia, abbiano una qualche “effettualità”. In secondo luogo, la riproposta di una politica della “partecipazione” delle “comunità” alle decisioni politiche, se pensata come l’unico strumento di critica materiale del capitalismo globalizzato, credo che finisca per essere una battaglia di retroguardia e di conservazione che, paradossalmente, può trovare effettualità politica, per quanto di breve respiro, solo trasformandosi in quella “difesa” dei territori e delle “comunità”, in quella “chiusura” non tanto alle “ragioni degli altri” – su cui tutti, anche a destra, sarebbero d’accordo – quanto a quei processi materiali, culturali e tecnologici che, nel nostro mondo, forzano di continuo le “piccole patrie” a disgregarsi o quanto meno a trasformarsi, difesa a cui la Lega in Italia è l’unica forza politica che è stata capace di dare concretezza. Insomma – le tesi di Pezzella stanno a dimostrarlo – la prospettiva inquietante è che solo il leghismo sia capace di rendere effettuale la strategia politica di contrapposizione della “partecipazione” e delle “comunità” al “capitalismo globalizzato”. Il che vuol oggi dire che la scelta politica di opporre le “belle” comunità al “cattivo” globale, pur con le migliori intenzioni, o è semplicemente utopistica oppure non è che una delle tante varianti del leghismo localistico che si sta affermando in Europa (e nel mondo).

 

I non-soggetti e il popolo-mai-visto

I saggi di Gianfranco Borrelli24 e di Maurizio Zanardi25 racchiudono analisi e tesi capaci di portare l’argomentazione politica su di un piano, a mio avviso, molto più concreto (nel senso hegeliano del termine) e aperto ad un effettivo confronto con la complessità dell’attuale situazione dell’Italia (e del mondo). Le ragioni di questa mia differente valutazione sono fondamentalmente due: la prima è che nel saggio di Borrelli compare in modo evidente – per quanto non nelle sue conclusioni esplicite – la preoccupazione per la mancanza (e per l’urgenza) di una strategia politica di respiro globale che sia in grado di riattivare anche in Italia l’emancipazione della democrazia; la seconda è che, nel saggio di Zanardi, il popolo che-si-emancipa è tematizzato non come un “dato” storico e culturale ma come una costruzione, per così dire, a-venire.

Borrelli affronta il problema della democrazia in Italia sostenendo, correttamente, che si tratta di «un oggetto teorico fortemente complesso»26. Le ragioni del malessere della democrazia italiana, infatti, sono «un sintomo del malessere che da decenni ormai affligge l’intera civilizzazione politica Occidentale in tratti specifici: la crisi della legittimazione del modello governement fondato sulla moderna tecnologia della rappresentanza, gli esiti estremi del fallimento delle ideologie/pratiche ispirate dalle speranze di rivolgimenti radicali, l’esaurimento progressivo delle strategie della governamentalità neoliberale»27. In quanto fondamentalmente sintomo “locale” di una complessa crisi globale, la situazione italiana è descritta, quindi, attraverso otto tesi che, incrociandosi e completandosi, si propongono di restituirne la complessità problematica.

La “scomparsa” della politica in Italia ha la sua origine, a suo avviso, nel fallimento della sperimentazione democratica lungo il processo che va dall’assemblea costituente repubblicana del 1948 all’assassinio di Aldo Moro nel 1978. Tale fallimento ha amplificato gli antagonismi storici tradizionali che, in Italia, a partire dalla sua unificazione statuale, hanno visto il contrasto o il continuo compromesso tra forze sociali plurali ed eterogenee, quali i partiti, i sindacati, le varie clientele, la Chiesa, le mafie ecc. È questo il motivo per cui in Italia non si è mai affermato un moderno stato “di polizia” (Foucault) di tipo “governamental-disciplinare”, ma sempre e solo uno stato “di diplomazia”, frutto di una continua e non sempre riuscita ricerca di equilibrio e compromesso tra quella pluralità di forze. In questo quadro storico, l’unico tentativo di “avanzamento democratico” sono stati, sostiene Borrelli, i movimenti di resistenza che «prendono avvio dal ’68 e producono la carsica sedimentazione di pratiche libertarie e di comportamenti di autentica singolarità»28. Con l’eccezione di tali movimenti libertari, la storia dell’Italia repubblicana è stata segnata dalla pax disciplinare democristiana e dall’incapacità della sinistra di proporre proposte politiche alternative. Dagli inizi degli anni Ottanta la “fine della politica” in Italia è stata caratterizzata dalla progressiva affermazione di una vera e propria «microfisica della corruzione generalizzata […] diventata fenomeno sistemico»29. E si arriva così all’Italia berlusconiana che può essere interpretata, scrive Borrelli, come un laboratorio politico avanzato in cui potrebbe realizzarsi un esito “post-democratico” e “autoritario” alla crisi contemporanea delle strategie e delle pratiche neo-liberali di «autodisciplinamento delle condotte prodotte dai singoli individui su se stessi»30. Egli sostiene che il fenomeno politico-sociale “Berlusconi” attesti, nello stesso tempo, la piena realizzazione e la crisi dell’ideologia neo-liberale che spinge gli individui al successo psico-fisico ed economico in cambio dell’obbedienza al potere politico. A suo avviso, nel contesto della globalizzazione contemporanea «si è forse pervenuti alle forme estreme di quegli scorrimenti che […] hanno promosso l’attivazione di un governo dei comportamenti e dei corpi da realizzare attraverso la produzione del benessere ergonomico dei soggetti con finalità determinate di depoliticizzazione dell’azione dei singoli»31, per cui «segnano il passo quelle modalità del disciplinamento neoliberale che restituivano ai soggetti la possibilità di scambiare l’incremento energetico dei propri poteri psico-fisici con pratiche di consapevole obbedienza nei confronti delle autorità istituzionali. La tendenza predominante delle nuove forme di dominazione favorisce piuttosto processi di desoggettivazione al fine di indebolire volontà e condotte antagonistiche»32. La de-politicizzazione dei cittadini è un prodotto di tali processi di de-soggettivazione, di cui in Italia il berlusconismo si è fatto lo strumento. La conclusione cui Borrelli giunge è che, quindi, «il populismo mediatico berlusconiano [ha] prodotto modalità di crescente desublimazione, di perversa distruzione di quell’attività libidica dei soggetti […] rafforzando negli individui tendenze narcisistiche»33. Assistiamo così in Italia «all’affermazione di uno stato autoritario post-democratico in grado di gestire con lucida consapevolezza la fine di ogni genere di politica»34 .

È possibile allora “uscire” dal berlusconismo? Qui la risposta di Borrelli mi appare meno convincente. Egli, infatti, si limita ad esprimere l’esigenza di inventare e diffondere «pratiche di resistenza inedite e radicali, non violente e diffuse nei territori: capaci di introdurre scarti di novità»35. Quindi la prospettiva di uscita dall’impasse della politica italiana mi sembra che sia lasciata all’evento e alla contingenza. In effetti, a mio avviso, la “chiusa” del saggio di Borrelli è il sintomo più generale di una difficoltà che non è affatto imputabile all’autore, ma ci coinvolge tutti. Se non si è berlusconiani né leghisti, né si vuol occupare il comodo posto dell’anima bella di turno, come capita in Italia alla “sinistra antagonista”, allora forse sperare che uno “scarto di novità” in qualche modo si dia e che, come si dice, “faccia segno” e ci induca a (ri)pensare la politica, significa almeno lasciar viva l’esigenza che il cinismo non prevalga. Ma, evidentemente, questo non basta.

Anche il saggio di Maurizio Zanardi sostiene posizioni simili. Ciò che lo distingue da quello di Borrelli è, tuttavia, la piena assunzione di una politica dell’evento e della contingenza.

Zanardi parte da un’ampia analisi critica del fenomeno del berlusconismo. Comincia con il ricordare la famosa critica di Pasolini alla società dei consumi, distruttrice delle “espressioni” delle culture dei “luoghi”. Nei suoi scritti degli inizi degli anni Settanta, Pasolini chiamava questo processo di annientamento delle differenze culturali (soprattutto contadine) non solo “neo-capitalismo televisivo” ma addirittura neo-fascismo, poiché «il potere [cambia] natura: da lontano e dittatoriale, repressivo e dunque “esterno” rispetto alle culture, ai corpi, ai volti, si è fatto ubiquo e tanto vicino da diventare “intimo”, da effettuare un’integrale cattura dell’anima»36.

A tale pessimistica ed “apocalittica” analisi pasoliniana, Zanardi contrappone quella “euforica” di Abruzzese che, all’apparire di Berlusconi sulla scena politica italiana ne difende la “positiva” novità. Con Berlusconi, secondo l’interpretazione di Abruzzese37, «si sarebbero finalmente affermate le ragioni della neo-televisione, dei consumi e dell’interattività indotti dai media elettronici»38; con lui «l’industria culturale dopo un lungo travaglio è andata al governo»39, liberando gli italiani «da un sistema di regole e da un insieme di valori che non funzionavano più»40. Zanardi, invece, prendendo le distanze da entrambe queste impostazioni, interpreta il berlusconismo come l’affermazione italiana del discorso “neo-liberale” – il cui sorgere è stato analizzato da Michel Foucault41 – ma in versione cinica e oscena. Se nel neo-liberalismo americano la logica dell’impresa e dell’agire strategico è estesa ad ogni ambito dell’esistenza delle soggettività, tanto da concepire l’economia come un «investire sé, sé come capitale, per produrre se stessi»42, allora tende a sparire «non solo la differenza tra capitale e lavoro ma anche la possibilità dell’antagonismo»43. Nella società neo-liberale, commenta Zanardi, si dà solo competizione mai antagonismo. Infatti, «il soggetto-impresa, l’homo oeconomicus, non solo non vuole il conflitto, lo evita, ma, più profondamente, è soggetto proprio perché non è in conflitto. […] Obiettivo di un tale soggetto – obiettivo anche psichico – è adattarsi al mondo, entrare in relazione con quelle chance e forze ambientali che possono permettergli il successo-profitto»44. L’affermazione della visione neo-liberale comporta una progressiva deregulation in tutti gli ambiti dell’esistenza. Ma l’arretramento della legge “pubblica” «consente l’emergere della legge non scritta, delle regole oscene e, aspetto particolarmente significativo, la pubblica rivendicazione del lato osceno, ormai non più tale perché agito alla luce del sole, come fonte di legittimazione: dal si sa ma non si dice al si sa e si dice»45. Tuttavia, secondo Zanardi – che rielabora su questo punto teorie di Žižek e di Badiou – perché il tutto “si tenga” non basta «la pubblica oscenità […] perché [essa] esige sempre di più e getta nell’angoscia, nel sentimento che la trasgressione deve essere ripetuta perché non offre la soddisfazione immaginata»46. E allora c’è bisogno di una struttura che “leghi” e che sia principio di ordine sociale, culturale, economico, psichico. Il berlusconismo ha cioè bisogno del leghismo (e non il contrario). Il vero alleato di Berlusconi, egli scrive, è la Lega: «la Lega lega impresa e razza nella promozione della razza imprenditrice. La Lega tiene insieme il carattere svincolante, disgregante, dell’impresa e la comunità calda della razza padana»47. Questa alleanza, che dura da vent’anni, per quanto la Lega possa ambire a sopravvivere alla scomparsa del capo, come sostiene Zanardi, non è detto che riesca a diventare “forza nazionale”, come egli sembra credere. Ma queste previsioni oggi lasciano il tempo che trovano. È invece importante, a mio avviso, l’aver colto il nesso “tattico” tra il leghismo in genere e l’affermazione delle condotte neo-liberali, a patto di concepire, come più esplicitamente fa Borrelli, un’espressione politica come il berlusconismo non solo come l’apoteosi della concezione del mondo neo-liberale ma anche, contemporaneamente, come la sua crisi.

Come prima accennavo, il saggio di Zanardi, oltre ad essere un’ampia analisi del fenomeno del berlusconismo, contiene anche una esplicita presa di posizione a favore di quella che prima ho definito “politica dell’evento”, con espliciti riferimenti a Badiou48, di cui Zanardi si fa qui interprete. La politica, infatti, quando c’è, sostiene Zanardi, è “fedeltà all’evento”49. Ed è l’evento che, nel momento in cui si impone, crea/inventa le sue categorie e le sue parole d’ordine. L’evento però sorprende sempre – altrimenti che “evento” sarebbe? L’evento non può essere, quindi, radicalmente “inventato” – sarebbe un “falso evento”. L’evento viene e ci trasforma, anche se ci “opponiamo” ad esso o cerchiamo di “contenerlo”. L’evento potrebbe portarci, certo, un «popolo mai visto», come scrive Zanardi ad un certo punto. Ma chi ci dice che l’evento sia sempre “evento di emancipazione”? Forse, facendoci questa domanda, forziamo il discorso di Zanardi, ma seguire ciò che ci trasforma nell’intimo, ciò che sconvolge gli assetti della nostra esistenza che cosa significa in ultima istanza? Certo, significa “assecondare” e forse anche “inventare” le categorie politiche che riescono a “pensarlo” – ma nel senso in cui Heidegger diceva che il “fare autentico” è sempre solo un “portare a compimento” (Vollbringen) ciò che è “già-per-la-via”, vale a dire l’Ereignis, l’evento che ci “appropria” espropriandoci50. Tuttavia, è del tutto evidente che, in tal modo, siamo fuori da qualsiasi “progettualità” politica e siamo esposti ad un ad-venire che o potrebbe non arrivare mai o potrebbe essere “non emancipativo”.

Eppure una politica di “emancipazione” non implica una scelta di campo progettuale, per quanto minima? Siamo pronti a chiamare “ciò che viene” sempre e comunque con il nome di “democrazia”?

 

La democrazia e la cultura-valore

Il saggio di Bruno Moroncini51 mi sembra che ruoti proprio intorno a tale domanda. Ciò che “democraticamente” viene potrebbe anche essere una tirannide o un regime in cui regna la corruzione; ciò-che-viene potrebbe essere anche il male o la dittatura. L’evento, cioè, potrebbe anche non essere “emancipativo”. Eppure, sembra essere questa la tesi di fondo di Moroncini, alla demo-crazia che, nella sua essenza, potrebbe anche capovolgersi in tirannide, non si può che opporre la stessa democrazia che ha sempre in sé il suo correttivo nell’alternanza di governo tramite nuove elezioni. A patto che un’alternativa politica e democratica ci sia. Ed è questo il vero problema della democrazia italiana, non il berlusconismo. Il vero problema è la mancanza di un’alternativa politica credibile, che sia capace di abbattere il berlusconismo con le armi stesse della demo-crazia.

Prima di commentare questa presa di posizione, che, al di là della sua apparente provocatorietà, mi sembra che metta “i piedi nel piatto” della situazione politica italiana, vorrei brevemente riassumere l’analisi che la supporta.

Partendo dall’assunto che l’autentica domanda circa la democrazia “a-venire” (per dirla con Derrida) «nasce in riferimento al comunismo e non al liberalismo»52 e che il corrispondere ad essa sia oggi l’unica dimensione all’interno della quale lo stesso comunismo può essere ancora pensato, Moroncini, con riferimento a Rancière e Badiou, definisce la democrazia come «l’impossibilità di fare uno e quindi [come] il riconoscimento dell’esistenza di un “molti” non unificabile, un “molti” che continua ad opporsi all’“uno” e ai “pochi”»53. La democrazia è certo il potere del popolo, ma senza che Il Popolo sia mai dato come “uno”. Infatti, «non esiste Il Popolo ma solo quella parte che, come dice Rancière, non è contata, non vuol farsi contare, ma pretende di contare dentro la città, dividendola e spaccandola, se ciò dovesse essere necessario»54. Tuttavia, come dicevamo, è sempre possibile che la parte che prende democraticamente il potere porti di fatto al governo della città una canaglia, un criminale. Ciò che caratterizza la democrazia, in particolare quella moderna, è che l’accesso al potere di governo avviene tramite elezione e non per trasmissione ereditaria. Per tale ragione chiunque può arrivare al governo, anzi, ribadisce con forza Moroncini, la ragione strutturale della democrazia è proprio che davvero chiunque possa giungere al potere, anche se non è il “migliore”, anche se è il “peggiore di tutti”. Il vero pericolo, secondo Moroncini, non sta in tale eventualità, ma nel fatto che il chiunque «dimentichi di aver avuto questa chance per la sua natura di uno qualsiasi»55 e si convinca di essere stato eletto in virtù di una qualche sua qualità specifica (o convincendosi di essere “l’unto del signore”). Da tale punto di vista Berlusconi appare, quindi, davvero come il chiunque. Non c’era niente della sua storia personale che avrebbe potuto giustificare una sua scelta in base a specifiche qualità morali, politiche, tecniche. In effetti, Moroncini sa bene che l’elezione di Berlusconi ha ragioni profonde nell’economia globalizzata dei consumi, impostasi anche in Italia, soprattutto grazie alla neo-televisione commerciale, a partire dagli Anni Ottanta del secolo scorso. Su questo punto le sue analisi convergono in buona parte con quelle svolte sia da Zanardi che da Borrelli, ma con una differenza. Mentre nella valutazione che ne dava Zanardi il berlusconismo è interpretato come l’affermazione in Italia dell’ideologia neo-liberale del “soggetto-impresa”, ma in una declinazione cinica e oscena, tanto da aver bisogno del correttivo normalizzante del leghismo che funzioni come “argine” all’angoscia dell’imperativo del godimento infinito, nella valutazione di Moroncini è Berlusconi stesso, tramite il suo stesso “corpo”, a proporre un limite a quell’angoscia. Attraverso una ardita interpretazione lacaniana – forse un po’ forzata proprio dal punto di vista, per così dire, “fenomenologico” –, ma rispetto alla quale non posso che rimandare alla lettura del testo e ai riferimenti testuali in esso presenti, Moroncini sostiene che «la prestazione fondamentale di Berlusconi nell’attuale situazione del capitalismo [sia quella di] assicurare l’apparizione dell’oggetto fallico e scongiurare l’angoscia in un’epoca che assiste alla decadenza della funzione paterna e in cui l’imperativo etico è diventato: Godi!»56. Berlusconi, che «è l’uomo del desiderio e del consumo»57, è anche, con il suo “corpo”58, colui che riduce l’angoscia dell’imperativo mortifero del godimento: «con le scarse risorse del suo corpo Berlusconi para l’angoscia montante della postmodernità, con il poco del suo corpo Berlusconi tenta di schermare il fatto che l’oggetto del desiderio, quello che dovrebbe procurare il godimento verso cui ci spinge l’imperativo etico del neocapitalismo consumista è impossibile»59. E qui torniamo alla tesi politica centrale del suo saggio: il problema politico in Italia non è Berlusconi, ma «il partito democratico»60, a suo dire assolutamente incapace di elaborare una proposta politica, una progettualità politica all’altezza dei tempi. Sempre in ritardo sulle grandi svolte della storia del Novecento e del post-Novecento, i discendenti del Partito Comunista Italiano «sono diventati liberali fuori tempo massimo, hanno scoperto i diritti universali della persona nell’epoca della fine dell’universalismo e dell’avvento dell’impersonale, hanno sostituito la lotta di classe con l’etica della solidarietà mentre il mondo era dominato dalle questioni della biopolitica»61.

Molto più che un ritardo strettamente “politico”, il maggior partito della sinistra in Italia sconta un ritardo “culturale” che gli impedisce la comprensione delle trasformazioni attuali della società e, potremmo dire, delle nuove “forme di vita” che si stanno affermando. Nella chiusa del suo saggio Moroncini sostiene sostanzialmente questa tesi. E ricorda, utilizzando una categoria socio-politica della tradizione marxista italiana, che il Partito Democratico è l’espressione politica di un “ceto medio riflessivo” che, timoroso di una nuova “proletarizzazione”, fa leva, reattivamente, sulla sua “presunta” superiorità culturale per denigrare i sostenitori di Berlusconi, supponendosi superiore a quella massa “ignorante”: «essi rappresentano oggi una piccola borghesia culturalizzata […] che [recalcitra] di fronte alla nuova proletarizzazione, quella specifica della cultura di massa e della globalizzazione che corrode i privilegi e le rendite di posizione»62. Questi “ceti medi riflessivi”, «come l’Azzeccagarbugli manzoniano che con il latino maccheronico inganna gli umili, […] credono che l’aver imparato a fare vacanze intelligenti, il saper scrivere un buon tema all’esame di maturità, il consultare le guide gastronomiche alla ricerca del gusto perduto, l’essere informati sull’ultima moda nel campo dell’abbigliamento, l’aver letto il romanzo di cui tutti parlano, e soprattutto l’essere degli assidui spettatori di Annozero, li innanzi su quegli analfabeti che si fanno imbonire dalle reti Mediaset e che, manco a dirlo, votano Berlusconi»63. Se volessimo continuare a “caratterizzare” la fenomenologia culturale di questi ceti medi riflessivi, potremmo andare anche più a fondo delle analisi svolte da Moroncini, fino ad affermare che essi stessi, dal punto di vista culturale, sono il prodotto di quella neo-televisione che rifiutano. Sono, ovviamente, un target diverso da quello cui si rivolgono tante trasmissioni della tv commerciale, ma sono essi stessi “televisivi” fino in fondo e fino ad arrivare a credere di trovare i leader che – a loro dire – mancano alla sinistra (come se il problema fosse questo) in personaggi televisivi come l’eroe “di carta” Saviano64. Si potrebbe qui utilizzare la nozione sociologica adorniana di semi-cultura (Halbbildung), tipico prodotto dell’industria culturale per una piccola-borghesia ormai quasi planetaria (grazie alla comunicazione di massa), che pretende di essere sempre al corrente di tutto e di sapere più degli altri; ma tale semi-cultura finisce per mostrarsi come «la sfera stessa del risentimento, di cui essa accusa coloro che conservano ancora un barlume di capacità critica e autocritica»65.

Sono valutazioni che è difficile non condividere. Tuttavia, proprio queste stesse valutazioni dovrebbero renderci accorti a guardare anche “dall’altra parte”, cioè ancora dalla parte del ceto politico “berlusconiano” che è oggi al potere in Italia. Come non vedere in questo stesso ceto politico l’espressione, ancora più risentita, violenta e cinica, della stessa semi-cultura piccolo-borghese di cui, giustamente, si evidenza la diffusione nei ceti sociali che si oppongono al berlusconismo? E come non vedere in alcune posizioni teorico-politiche, come ad esempio quella di Abruzzese, o quella “aziendale” di un Carlo Freccero – considerato da sempre un guru della neo-televisione – la traccia, neanche tanto nascosta, di una sorta di “identificazione con l’aggressore”, per utilizzare ancora un’espressione adorniana (ripresa dalla psicoanalisi)?

Tuttavia, è del tutto evidente che la difesa della “cultura” che è promossa, senza alcuna capacità di “analisi critica”, dalla sinistra italiana e dai “benpensanti” che parlano e pensano “politicamente corretto”, rischia di essere non solo “conservatrice” ma di accettare il luogo comune ideologico della cultura come “valore”, come l’ultimo “valore” da difendere e conservare “in quanto tale”, l’ultimo valore che possa difenderci dal nichilismo, per dirla con Nietzsche. Che cosa, infatti, accomuna oggi – per la verità già da un certo tempo – il popolo dei consumatori, i ceti medi riflessivi, la sinistra benpensante e la destra cinica, se non il credere nella “cultura” come valore da accettare anche senza capire, da difendere in quanto tale – in particolare se “risorsa economica” –, valore che “funziona” semplicemente perché si suppone esistente? Non c’è programma televisivo che, accanto al “caso umano”, accanto al “crimine efferato” non mostri l’angolo “alto” della cultura, magari anche con standing ovation finale al comico di turno che legge una famosa poesia, espressione degli eterni valori umani.

Ma la cultura come “valore” serve alla “conoscenza”? E se è la conoscenza che si oppone all’ignoranza, allora forse la cultura-ridotta-a-valore non è solo un baluardo e un argine difensivo contro il nichilismo? Un argine che bisognerà abbattere prima o poi, senza che ciò porti al trionfo del cinismo. Mi sembra questo un compito “politico” non eludibile per far avanzare una democrazia “emancipativa”: opporre la conoscenza alla cultura-valore.

 

Note con rimando automatico al testo

1 La democrazia in Italia, a cura di M. Zanardi, Cronopio, Napoli 2011.

2 V. Romitelli, Infelicità della coscienza antifascista e democrazia, in La democrazia in Italia, cit. pp. 13-48.

3 R. Genovese, La responsabilità della sinistra italiana nell’affermarsi del berlusconismo, in La democrazia in Italia, cit., pp. 123-141.

4 M. Pezzella, Società autoritaria e democrazia insorgente, in La democrazia in Italia, cit., pp. 179-211.

5 V. Romitelli, Op. cit., p. 27.

6 R. Genovese, Op. cit., p..134.

7 M. Pezzella, Op. cit., p. 188.

8 Ibidem.

9 Ivi, p. 189.

10 V. Romitelli, Op. cit., p. 45.

11 M. Pezzella, Op. cit., p. 204.

12 Ibidem.

13 R. Genovese, Op. cit., p. 141.

14 Ibidem.

15 Ivi, p. 140.

16 M. Pezzella, Op. cit., p. 199

17 Ibidem.

18 Ivi, p. 199-200.

19 Ivi, p. 200.

20 Ivi, p. 206.

21 Ibidem.

22 Ibidem.

23 Ivi, p. 207.

24 G. Borrelli, Italia, democrazia possibile?, in La democrazia in Italia, cit., pp. 49-84.

25 M. Zanardi, Il capitale umano e l’avvenire della politica, in La democrazia in Italia, cit., pp.85-122.

26 G. Borrelli, Op. cit., p. 49.

27 Ivi, p. 51.

28 Ivi, p. 58.

29 Ivi, p. 65

30 Ivi, p. 70.

31 Ibidem.

32 Ivi, p. 71.

33 Ivi, p. 72.

34 Ivi, p. 74

35 Ivi, p. 83.

36 M. Zanardi, Op. cit., p. 89.

37 Cfr. A. Abruzzese, Elogio del tempo nuovo. Perché Berlusconi ha vinto, Costa & Nolan, Genova 1994.

38 M. Zanardi, Op. cit., p. 94.

39 Ibidem.

40 Ivi, p. 96.

41 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), trad. it. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005.

42 M. Zanardi, Op. cit., p. 108.

43 Ivi, p. 110.

44 Ivi, p. 111.

45 Ivi, p. 117.

46 Ivi, p. 118.

47 Ivi, p.120.

48 Cfr. A. Badiou, Secondo manifesto per la filosofia, a cura di L. Boni, Cronopio, Napoli 2010.

49 Sulla questione dell’evento in Badiou cfr. il saggio di J.-C. Levêque, Politica dell’evento. La filosofia politica di Badiou come pensiero del cambiamento, in Kainos. Rivista on line di critica filosofica, n. 10, Pensieri del presente (www.kainos-portale.com)

50 Vedi M. Heidegger¸Lettera sull’umanismo, in Id., La dottrina di Platone sulla verità, Lettera sull’umanismo, a cura di A. Bixio e G. Vattimo, SEI, Torino 1975.

51 B. Moroncini, La democrazia variopinta e il caso italiano, in La democrazia in Italia, cit., pp. 143-177.

52 Ivi, p. 151.

53 Ivi, p. 155.

54 Ivi, p. 158

55 Ivi, p. 167.

56 Ivi, p. 175.

57 Ivi, p. 172.

58 Cfr. sulla questione delle relazioni tra “corpo” e “potere” cfr. il recente numero 107 di Lettera Internazionale (primo trimestre 2011), con articoli di Dumoulié, Didi-Huberman, Le Breton [et alii].

59 B. Moroncini, Op. cit., 176.

60 Ibidem.

61 Ibidem.

62 Ivi, p. 177.

63 Ibidem.

64 Su Saviano cfr. A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre storie, manifesto libri, Roma 2010.

65 Th. W. Adorno, Teoria della Halbbildung, ed. it. a cura di G. Sola, il melangolo, Genova 2010, p. 43.

 

 

 

Politica, cultura, conoscenza

Considerazioni su La democrazia in Italia

 

 

di Vincenzo Cuomo

 

 

 

 

Il recente volume La democrazia in Italia (Cronopio, Napoli 2011)1, che raccoglie sei saggi sulla situazione politica italiana, è un’occasione preziosa non solo per riflettere sui motivi di fondo che impedirebbero l’affermazione della “democrazia” in Italia, ma anche per porre a problema la complementare ma fondamentale questione dei rapporti tra gli intellettuali e l’elaborazione della teoria politica nel nostro paese.

Le analisi e le proposte teoriche che si trovano nel volume, pur partendo da un orizzonte comune di letture e suggestioni (Badiou, Rancière, Abensour, Laclau, ma anche Foucault e Lacan), non solo sottolineano aspetti differenti della condizione politico-culturale italiana ma prospettano anche esiti in alcuni casi divergenti.

Gli snodi teorico-critici intorno a cui potremmo riannodare i diversi saggi sono due: il primo è l’analisi critica del “berlusconismo” (e delle sue relazioni con il “leghismo”); il secondo è la critica alle deficienze della sinistra post-comunista nella elaborazione di una vera politica “democratica” in Italia.

 

 

I partiti della sinistra e le insorgenze

 

I saggi di Valerio Romitelli2, Rino Genovese3 e Mario Pezzella4, pur con accenti diversi, sviluppano un’analisi impietosamente critica della sinistra storica (di origine comunista) in Italia, accusata fondamentalmente: 1) di non aver fatto i conti, se non molto tardivamente, con i suoi legami d’origine con il comunismo sovietico; 2) di non essere stata in grado di elaborare una analisi critica (all’altezza) della complessità e della radicalità dei cambiamenti indotti dalla globalizzazione del capitalismo; 3) di essersi arroccata nella difesa “conservatrice” delle istituzioni repubblicane (Costituzione, Presidenza della Repubblica, Magistratura), finendo per fare il lavoro della destra tradizionale. A queste valutazioni – che si ritrovano anche, più o meno negli stessi toni, negli altri saggi del volume – questi tre saggi oppongono, con un gesto al contempo deciso e “schematico”, delle indicazioni politiche di “alternativa” e di uscita dall’impasse, per quanto sostenute da analisi sostanzialmente pessimiste della situazione politica italiana.

Valerio Romitelli sostiene che la crisi della politica in Italia sia il risultato della non risolta presa di coscienza, da parte del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana, del “vizio d’origine” della repubblica italiana. Vizio duplice, a suo parere, in quanto, da un lato, è consistito nell’esser saltati sul “carro dei vincitori” (USA e URSS) dopo la caduta (per implosione) del fascismo – e nell’essere stati perciò condizionati dal successivo conflitto internazionale tra le due superpotenze – dall’altro si è concretizzato nell’incapacità di valorizzare la lotta delle “bande partigiane”, vale a dire, a suo dire, «l’unica vera esperienza di autodeterminazione politica nell’Italia post-fascista»5. Per quel che riguarda la valutazione dell’azione del Partito Comunista Italiano da Togliatti a Berlinguer fino alla svolta di Achille Occhetto e, infine, alla nascita del Partito Democratico, il saggio di Rino Genovese è ancora più demolitorio. Il Partito Comunista si è sciolto per «estenuazione»6, senza essere stato capace di risolvere le sue contraddizioni d’origine e continuando a credere nella correttezza di una strategia politica fondata da un lato sulla infinita ricerca di un compromesso con il “partito cattolico” (strategia politica che taglia tutta quanta la nostra storia repubblicana da Togliatti a Berlinguer fino alla nascita del PD), dall’altro sulla difesa ad oltranza delle Istituzioni e della “centralità” del parlamento. Su questo punto Mario Pezzella, in un saggio centrato sull’analisi della progressiva affermazione (non solo in Italia) di una Società Autoritaria che «procede intensificando, allo stesso tempo, l’atomizzazione e la separazione degli individui e la loro riunificazione immaginaria o fittizia»7 e in cui «l’uguaglianza immaginaria di fronte al denaro e al consumo nasconde la sempre più feroce disuguaglianza reale»8, ribadisce che «i partiti della Sinistra italiana non hanno compreso la natura spettacolare (nel senso di Debord) di tale nuova società; sono entrati, come poveri cristi a un banchetto di signori, nelle giunte, nel parlamento, nel governo. Si sono cioè identificati anima e corpo con gli istituti di rappresentanza formale dello Stato, nel momento in cui in verità questi non contano e non decidono più nulla»9. Nei confronti di tale incapacità politica della sinistra storica italiana tutti e tre questi saggi propongono, come accennavo, delle “vie d’uscita”: Romitelli ritiene che dalla impasse politica italiana si possa uscire ricominciando a fare politica «dal basso, tra la gente che sta ai margini di tutto quello che conta per chi conta»10; Pezzella, in modo ancora più netto, richiamandosi esplicitamente a Rancière, sostiene la tesi che alla Società Autoritaria non possa che contrapporsi la «Democrazia Insorgente»11, capace di dare «voce e articolazione alla lotta dei “senza parte”, cioè a coloro che sono di fatto esclusi dalla cittadinanza e ancor più dall’élite dominante»12; Rino Genovese, invece, si appella alla «riproposizione e [alla] riscoperta del ruolo del partito politico, a partire da una sua democrazia interna di base, che rifiuti il leaderismo e rilanci l’idea di una progettualità collettiva»13, anche se ritiene opportuno che tale nuova forma di partito “di base” abbia un’impronta federalista transazionale, «che sappia riprendere il progetto di unione europea»14. Insomma, l’attivazione della democrazia in Italia dovrebbe passare necessariamente da una scelta di campo del “basso” contro “l’alto”, del “locale” contro il “globale”, della “partecipazione delle comunità alle decisioni” contro le “decisioni imposte dall’alto” – sebbene sia un po’ paradossale che Genovese, sullo sfondo di tale opzione, invochi un “governo giacobino” capace di «raddrizzare la situazione»15 attraverso una drastica legge anti-trust che recida il conflitto di interessi su cui si regge, cosa comunque vera, il potere di Berlusconi.

Pezzella, con argomentazioni abbastanza convincenti, sostiene che la Società Autoritaria sia «una risposta al disagio e alla crisi della democrazia spettacolare»16, tanto che «la disgregazione dell’identità individuale, unita al suo solipsismo narcisista e al venir meno di ogni legame sociale e di ogni sicurezza materiale, [ne] costituiscono il fondamento propizio»17. Tale società non «si sta costruendo contro il popolo, ma al contrario col suo largo consenso»18. A tal proposito Pezzella rileva come molti “frammenti” del tradizionale discorso della sinistra (sia di quella della tradizione comunista che di quella radicale e antagonista) siano stati fatti propri dal leghismo e riutilizzati – direi attraverso un inquietante détournment – come strumenti coerenti alla effettiva realizzazione di una forma autoritaria e “immunizzata” di società: «il federalismo, la critica dello Stato-nazione, la difesa delle identità locali e dei dialetti, l’autodecisione dei territori – egli scrive –, sono tutti elementi della cultura della Lega e non sono definibili come pura e semplice ignoranza: facevano tutti parte del linguaggio della sinistra – e di estrema sinistra – in Italia negli anni ‘70»19. Tuttavia, è lo stesso Pezzella ad indicare in quegli stessi elementi, ma evidentemente sottratti alla logica leghista, l’unica chance per l’emancipazione democratica. Si tratta, a suo dire, di radicare l’azione politica «nel “sito”, nella specificità del luogo e dell’ambito vitale, in cui sono coinvolti i suoi attori»20. Infatti, «il “sito” è l’essere-in-comune dove gli umani possono convenire insieme, rovesciando i rapporti asimmetrici di potere»21. Si tratta allora di escogitare le modalità attraverso cui sia possibile “legare” i siti in una «forma comune, senza ricadere nell’ottica ingannevole dei Partiti e delle istituzioni dello Stato»22. E ciò nello specifico significa la realizzazione di «istituzioni democratiche partecipative e non formali, fondate su meccanismi di delega controllabili»23. Pezzella, per la verità, ammette l’esistenza di «decisioni che non possono essere prese facendo riferimento a un unico territorio specifico», ma ritiene che il superamento dei possibili conflitti tra “comunità locali» (o “siti”) e strutture politiche di “livello superiore” possa avvenire attraverso la contrattazione e in una “logica federativa”.

Le proposte “alternative” sostenute in questi tre saggi mi sembrano viziate da alcuni (evidenti) limiti. Se è vero, infatti, che non c’è emancipazione democratica se non quando i “senza parte” sono capaci di “prendere la parola” rivolgendosi a tutti gli altri, è pur vero che una strategia politica deve necessariamente includere una “teoria di governo” che sia capace di fare i conti non solo con i problemi dei “territori” – come si dice – ma con quelle questioni di ordine globale e radicalmente trans-locali a cui non è possibile opporre solo “resistenze” ed “insorgenze” locali (cosa che, ovviamente, non escludo affatto in linea di principio) ma strategie esse stesse globali, che, tuttavia, abbiano una qualche “effettualità”. In secondo luogo, la riproposta di una politica della “partecipazione” delle “comunità” alle decisioni politiche, se pensata come l’unico strumento di critica materiale del capitalismo globalizzato, credo che finisca per essere una battaglia di retroguardia e di conservazione che, paradossalmente, può trovare effettualità politica, per quanto di breve respiro, solo trasformandosi in quella “difesa” dei territori e delle “comunità”, in quella “chiusura” non tanto alle “ragioni degli altri” – su cui tutti, anche a destra, sarebbero d’accordo – quanto a quei processi materiali, culturali e tecnologici che, nel nostro mondo, forzano di continuo le “piccole patrie” a disgregarsi o quanto meno a trasformarsi, difesa a cui la Lega in Italia è l’unica forza politica che è stata capace di dare concretezza. Insomma – le tesi di Pezzella stanno a dimostrarlo – la prospettiva inquietante è che solo il leghismo sia capace di rendere effettuale la strategia politica di contrapposizione della “partecipazione” e delle “comunità” al “capitalismo globalizzato”. Il che vuol oggi dire che la scelta politica di opporre le “belle” comunità al “cattivo” globale, pur con le migliori intenzioni, o è semplicemente utopistica oppure non è che una delle tante varianti del leghismo localistico che si sta affermando in Europa (e nel mondo).

 

I non-soggetti e il popolo-mai-visto

 

I saggi di Gianfranco Borrelli24 e di Maurizio Zanardi25 racchiudono analisi e tesi capaci di portare l’argomentazione politica su di un piano, a mio avviso, molto più concreto (nel senso hegeliano del termine) e aperto ad un effettivo confronto con la complessità dell’attuale situazione dell’Italia (e del mondo). Le ragioni di questa mia differente valutazione sono fondamentalmente due: la prima è che nel saggio di Borrelli compare in modo evidente – per quanto non nelle sue conclusioni esplicite – la preoccupazione per la mancanza (e per l’urgenza) di una strategia politica di respiro globale che sia in grado di riattivare anche in Italia l’emancipazione della democrazia; la seconda è che, nel saggio di Zanardi, il popolo che-si-emancipa è tematizzato non come un “dato” storico e culturale ma come una costruzione, per così dire, a-venire.

 

Borrelli affronta il problema della democrazia in Italia sostenendo, correttamente, che si tratta di «un oggetto teorico fortemente complesso»26. Le ragioni del malessere della democrazia italiana, infatti, sono «un sintomo del malessere che da decenni ormai affligge l’intera civilizzazione politica Occidentale in tratti specifici: la crisi della legittimazione del modello governement fondato sulla moderna tecnologia della rappresentanza, gli esiti estremi del fallimento delle ideologie/pratiche ispirate dalle speranze di rivolgimenti radicali, l’esaurimento progressivo delle strategie della governamentalità neoliberale»27. In quanto fondamentalmente sintomo “locale” di una complessa crisi globale, la situazione italiana è descritta, quindi, attraverso otto tesi che, incrociandosi e completandosi, si propongono di restituirne la complessità problematica.

La “scomparsa” della politica in Italia ha la sua origine, a suo avviso, nel fallimento della sperimentazione democratica lungo il processo che va dall’assemblea costituente repubblicana del 1948 all’assassinio di Aldo Moro nel 1978. Tale fallimento ha amplificato gli antagonismi storici tradizionali che, in Italia, a partire dalla sua unificazione statuale, hanno visto il contrasto o il continuo compromesso tra forze sociali plurali ed eterogenee, quali i partiti, i sindacati, le varie clientele, la Chiesa, le mafie ecc. È questo il motivo per cui in Italia non si è mai affermato un moderno stato “di polizia” (Foucault) di tipo “governamental-disciplinare”, ma sempre e solo uno stato “di diplomazia”, frutto di una continua e non sempre riuscita ricerca di equilibrio e compromesso tra quella pluralità di forze. In questo quadro storico, l’unico tentativo di “avanzamento democratico” sono stati, sostiene Borrelli, i movimenti di resistenza che «prendono avvio dal ’68 e producono la carsica sedimentazione di pratiche libertarie e di comportamenti di autentica singolarità»28. Con l’eccezione di tali movimenti libertari, la storia dell’Italia repubblicana è stata segnata dalla pax disciplinare democristiana e dall’incapacità della sinistra di proporre proposte politiche alternative. Dagli inizi degli anni Ottanta la “fine della politica” in Italia è stata caratterizzata dalla progressiva affermazione di una vera e propria «microfisica della corruzione generalizzata […] diventata fenomeno sistemico»29. E si arriva così all’Italia berlusconiana che può essere interpretata, scrive Borrelli, come un laboratorio politico avanzato in cui potrebbe realizzarsi un esito “post-democratico” e “autoritario” alla crisi contemporanea delle strategie e delle pratiche neo-liberali di «autodisciplinamento delle condotte prodotte dai singoli individui su se stessi»30. Egli sostiene che il fenomeno politico-sociale “Berlusconi” attesti, nello stesso tempo, la piena realizzazione e la crisi dell’ideologia neo-liberale che spinge gli individui al successo psico-fisico ed economico in cambio dell’obbedienza al potere politico. A suo avviso, nel contesto della globalizzazione contemporanea «si è forse pervenuti alle forme estreme di quegli scorrimenti che […] hanno promosso l’attivazione di un governo dei comportamenti e dei corpi da realizzare attraverso la produzione del benessere ergonomico dei soggetti con finalità determinate di depoliticizzazione dell’azione dei singoli»31, per cui «segnano il passo quelle modalità del disciplinamento neoliberale che restituivano ai soggetti la possibilità di scambiare l’incremento energetico dei propri poteri psico-fisici con pratiche di consapevole obbedienza nei confronti delle autorità istituzionali. La tendenza predominante delle nuove forme di dominazione favorisce piuttosto processi di desoggettivazione al fine di indebolire volontà e condotte antagonistiche»32. La de-politicizzazione dei cittadini è un prodotto di tali processi di de-soggettivazione, di cui in Italia il berlusconismo si è fatto lo strumento. La conclusione cui Borrelli giunge è che, quindi, «il populismo mediatico berlusconiano [ha] prodotto modalità di crescente desublimazione, di perversa distruzione di quell’attività libidica dei soggetti […] rafforzando negli individui tendenze narcisistiche»33. Assistiamo così in Italia «all’affermazione di uno stato autoritario post-democratico in grado di gestire con lucida consapevolezza la fine di ogni genere di politica»34 .

È possibile allora “uscire” dal berlusconismo? Qui la risposta di Borrelli mi appare meno convincente. Egli, infatti, si limita ad esprimere l’esigenza di inventare e diffondere «pratiche di resistenza inedite e radicali, non violente e diffuse nei territori: capaci di introdurre scarti di novità»35. Quindi la prospettiva di uscita dall’impasse della politica italiana mi sembra che sia lasciata all’evento e alla contingenza. In effetti, a mio avviso, la “chiusa” del saggio di Borrelli è il sintomo più generale di una difficoltà che non è affatto imputabile all’autore, ma ci coinvolge tutti. Se non si è berlusconiani né leghisti, né si vuol occupare il comodo posto dell’anima bella di turno, come capita in Italia alla “sinistra antagonista”, allora forse sperare che uno “scarto di novità” in qualche modo si dia e che, come si dice, “faccia segno” e ci induca a (ri)pensare la politica, significa almeno lasciar viva l’esigenza che il cinismo non prevalga. Ma, evidentemente, questo non basta.

Anche il saggio di Maurizio Zanardi sostiene posizioni simili. Ciò che lo distingue da quello di Borrelli è, tuttavia, la piena assunzione di una politica dell’evento e della contingenza.

Zanardi parte da un’ampia analisi critica del fenomeno del berlusconismo. Comincia con il ricordare la famosa critica di Pasolini alla società dei consumi, distruttrice delle “espressioni” delle culture dei “luoghi”. Nei suoi scritti degli inizi degli anni Settanta, Pasolini chiamava questo processo di annientamento delle differenze culturali (soprattutto contadine) non solo “neo-capitalismo televisivo” ma addirittura neo-fascismo, poiché «il potere [cambia] natura: da lontano e dittatoriale, repressivo e dunque “esterno” rispetto alle culture, ai corpi, ai volti, si è fatto ubiquo e tanto vicino da diventare “intimo”, da effettuare un’integrale cattura dell’anima»36.

A tale pessimistica ed “apocalittica” analisi pasoliniana, Zanardi contrappone quella “euforica” di Abruzzese che, all’apparire di Berlusconi sulla scena politica italiana ne difende la “positiva” novità. Con Berlusconi, secondo l’interpretazione di Abruzzese37, «si sarebbero finalmente affermate le ragioni della neo-televisione, dei consumi e dell’interattività indotti dai media elettronici»38; con lui «l’industria culturale dopo un lungo travaglio è andata al governo»39, liberando gli italiani «da un sistema di regole e da un insieme di valori che non funzionavano più»40. Zanardi, invece, prendendo le distanze da entrambe queste impostazioni, interpreta il berlusconismo come l’affermazione italiana del discorso “neo-liberale” – il cui sorgere è stato analizzato da Michel Foucault41 – ma in versione cinica e oscena. Se nel neo-liberalismo americano la logica dell’impresa e dell’agire strategico è estesa ad ogni ambito dell’esistenza delle soggettività, tanto da concepire l’economia come un «investire sé, sé come capitale, per produrre se stessi»42, allora tende a sparire «non solo la differenza tra capitale e lavoro ma anche la possibilità dell’antagonismo»43. Nella società neo-liberale, commenta Zanardi, si dà solo competizione mai antagonismo. Infatti, «il soggetto-impresa, l’homo oeconomicus, non solo non vuole il conflitto, lo evita, ma, più profondamente, è soggetto proprio perché non è in conflitto. […] Obiettivo di un tale soggetto – obiettivo anche psichico – è adattarsi al mondo, entrare in relazione con quelle chance e forze ambientali che possono permettergli il successo-profitto»44. L’affermazione della visione neo-liberale comporta una progressiva deregulation in tutti gli ambiti dell’esistenza. Ma l’arretramento della legge “pubblica” «consente l’emergere della legge non scritta, delle regole oscene e, aspetto particolarmente significativo, la pubblica rivendicazione del lato osceno, ormai non più tale perché agito alla luce del sole, come fonte di legittimazione: dal si sa ma non si dice al si sa e si dice»45. Tuttavia, secondo Zanardi – che rielabora su questo punto teorie di Žižek e di Badiou – perché il tutto “si tenga” non basta «la pubblica oscenità […] perché [essa] esige sempre di più e getta nell’angoscia, nel sentimento che la trasgressione deve essere ripetuta perché non offre la soddisfazione immaginata»46. E allora c’è bisogno di una struttura che “leghi” e che sia principio di ordine sociale, culturale, economico, psichico. Il berlusconismo ha cioè bisogno del leghismo (e non il contrario). Il vero alleato di Berlusconi, egli scrive, è la Lega: «la Lega lega impresa e razza nella promozione della razza imprenditrice. La Lega tiene insieme il carattere svincolante, disgregante, dell’impresa e la comunità calda della razza padana»47. Questa alleanza, che dura da vent’anni, per quanto la Lega possa ambire a sopravvivere alla scomparsa del capo, come sostiene Zanardi, non è detto che riesca a diventare “forza nazionale”, come egli sembra credere. Ma queste previsioni oggi lasciano il tempo che trovano. È invece importante, a mio avviso, l’aver colto il nesso “tattico” tra il leghismo in genere e l’affermazione delle condotte neo-liberali, a patto di concepire, come più esplicitamente fa Borrelli, un’espressione politica come il berlusconismo non solo come l’apoteosi della concezione del mondo neo-liberale ma anche, contemporaneamente, come la sua crisi.

Come prima accennavo, il saggio di Zanardi, oltre ad essere un’ampia analisi del fenomeno del berlusconismo, contiene anche una esplicita presa di posizione a favore di quella che prima ho definito “politica dell’evento”, con espliciti riferimenti a Badiou48, di cui Zanardi si fa qui interprete. La politica, infatti, quando c’è, sostiene Zanardi, è “fedeltà all’evento”49. Ed è l’evento che, nel momento in cui si impone, crea/inventa le sue categorie e le sue parole d’ordine. L’evento però sorprende sempre – altrimenti che “evento” sarebbe? L’evento non può essere, quindi, radicalmente “inventato” – sarebbe un “falso evento”. L’evento viene e ci trasforma, anche se ci “opponiamo” ad esso o cerchiamo di “contenerlo”. L’evento potrebbe portarci, certo, un «popolo mai visto», come scrive Zanardi ad un certo punto. Ma chi ci dice che l’evento sia sempre “evento di emancipazione”? Forse, facendoci questa domanda, forziamo il discorso di Zanardi, ma seguire ciò che ci trasforma nell’intimo, ciò che sconvolge gli assetti della nostra esistenza che cosa significa in ultima istanza? Certo, significa “assecondare” e forse anche “inventare” le categorie politiche che riescono a “pensarlo” – ma nel senso in cui Heidegger diceva che il “fare autentico” è sempre solo un “portare a compimento” (Vollbringen) ciò che è “già-per-la-via”, vale a dire l’Ereignis, l’evento che ci “appropria” espropriandoci50. Tuttavia, è del tutto evidente che, in tal modo, siamo fuori da qualsiasi “progettualità” politica e siamo esposti ad un ad-venire che o potrebbe non arrivare mai o potrebbe essere “non emancipativo”.

Eppure una politica di “emancipazione” non implica una scelta di campo progettuale, per quanto minima? Siamo pronti a chiamare “ciò che viene” sempre e comunque con il nome di “democrazia”?

 

La democrazia e la cultura-valore

 

Il saggio di Bruno Moroncini51 mi sembra che ruoti proprio intorno a tale domanda. Ciò che “democraticamente” viene potrebbe anche essere una tirannide o un regime in cui regna la corruzione; ciò-che-viene potrebbe essere anche il male o la dittatura. L’evento, cioè, potrebbe anche non essere “emancipativo”. Eppure, sembra essere questa la tesi di fondo di Moroncini, alla demo-crazia che, nella sua essenza, potrebbe anche capovolgersi in tirannide, non si può che opporre la stessa democrazia che ha sempre in sé il suo correttivo nell’alternanza di governo tramite nuove elezioni. A patto che un’alternativa politica e democratica ci sia. Ed è questo il vero problema della democrazia italiana, non il berlusconismo. Il vero problema è la mancanza di un’alternativa politica credibile, che sia capace di abbattere il berlusconismo con le armi stesse della demo-crazia.

Prima di commentare questa presa di posizione, che, al di là della sua apparente provocatorietà, mi sembra che metta “i piedi nel piatto” della situazione politica italiana, vorrei brevemente riassumere l’analisi che la supporta.

Partendo dall’assunto che l’autentica domanda circa la democrazia “a-venire” (per dirla con Derrida) «nasce in riferimento al comunismo e non al liberalismo»52 e che il corrispondere ad essa sia oggi l’unica dimensione all’interno della quale lo stesso comunismo può essere ancora pensato, Moroncini, con riferimento a Rancière e Badiou, definisce la democrazia come «l’impossibilità di fare uno e quindi [come] il riconoscimento dell’esistenza di un “molti” non unificabile, un “molti” che continua ad opporsi all’“uno” e ai “pochi”»53. La democrazia è certo il potere del popolo, ma senza che Il Popolo sia mai dato come “uno”. Infatti, «non esiste Il Popolo ma solo quella parte che, come dice Rancière, non è contata, non vuol farsi contare, ma pretende di contare dentro la città, dividendola e spaccandola, se ciò dovesse essere necessario»54. Tuttavia, come dicevamo, è sempre possibile che la parte che prende democraticamente il potere porti di fatto al governo della città una canaglia, un criminale. Ciò che caratterizza la democrazia, in particolare quella moderna, è che l’accesso al potere di governo avviene tramite elezione e non per trasmissione ereditaria. Per tale ragione chiunque può arrivare al governo, anzi, ribadisce con forza Moroncini, la ragione strutturale della democrazia è proprio che davvero chiunque possa giungere al potere, anche se non è il “migliore”, anche se è il “peggiore di tutti”. Il vero pericolo, secondo Moroncini, non sta in tale eventualità, ma nel fatto che il chiunque «dimentichi di aver avuto questa chance per la sua natura di uno qualsiasi»55 e si convinca di essere stato eletto in virtù di una qualche sua qualità specifica (o convincendosi di essere “l’unto del signore”). Da tale punto di vista Berlusconi appare, quindi, davvero come il chiunque. Non c’era niente della sua storia personale che avrebbe potuto giustificare una sua scelta in base a specifiche qualità morali, politiche, tecniche. In effetti, Moroncini sa bene che l’elezione di Berlusconi ha ragioni profonde nell’economia globalizzata dei consumi, impostasi anche in Italia, soprattutto grazie alla neo-televisione commerciale, a partire dagli Anni Ottanta del secolo scorso. Su questo punto le sue analisi convergono in buona parte con quelle svolte sia da Zanardi che da Borrelli, ma con una differenza. Mentre nella valutazione che ne dava Zanardi il berlusconismo è interpretato come l’affermazione in Italia dell’ideologia neo-liberale del “soggetto-impresa”, ma in una declinazione cinica e oscena, tanto da aver bisogno del correttivo normalizzante del leghismo che funzioni come “argine” all’angoscia dell’imperativo del godimento infinito, nella valutazione di Moroncini è Berlusconi stesso, tramite il suo stesso “corpo”, a proporre un limite a quell’angoscia. Attraverso una ardita interpretazione lacaniana – forse un po’ forzata proprio dal punto di vista, per così dire, “fenomenologico” –, ma rispetto alla quale non posso che rimandare alla lettura del testo e ai riferimenti testuali in esso presenti, Moroncini sostiene che «la prestazione fondamentale di Berlusconi nell’attuale situazione del capitalismo [sia quella di] assicurare l’apparizione dell’oggetto fallico e scongiurare l’angoscia in un’epoca che assiste alla decadenza della funzione paterna e in cui l’imperativo etico è diventato: Godi!»56. Berlusconi, che «è l’uomo del desiderio e del consumo»57, è anche, con il suo “corpo”58, colui che riduce l’angoscia dell’imperativo mortifero del godimento: «con le scarse risorse del suo corpo Berlusconi para l’angoscia montante della postmodernità, con il poco del suo corpo Berlusconi tenta di schermare il fatto che l’oggetto del desiderio, quello che dovrebbe procurare il godimento verso cui ci spinge l’imperativo etico del neocapitalismo consumista è impossibile»59. E qui torniamo alla tesi politica centrale del suo saggio: il problema politico in Italia non è Berlusconi, ma «il partito democratico»60, a suo dire assolutamente incapace di elaborare una proposta politica, una progettualità politica all’altezza dei tempi. Sempre in ritardo sulle grandi svolte della storia del Novecento e del post-Novecento, i discendenti del Partito Comunista Italiano «sono diventati liberali fuori tempo massimo, hanno scoperto i diritti universali della persona nell’epoca della fine dell’universalismo e dell’avvento dell’impersonale, hanno sostituito la lotta di classe con l’etica della solidarietà mentre il mondo era dominato dalle questioni della biopolitica»61.

Molto più che un ritardo strettamente “politico”, il maggior partito della sinistra in Italia sconta un ritardo “culturale” che gli impedisce la comprensione delle trasformazioni attuali della società e, potremmo dire, delle nuove “forme di vita” che si stanno affermando. Nella chiusa del suo saggio Moroncini sostiene sostanzialmente questa tesi. E ricorda, utilizzando una categoria socio-politica della tradizione marxista italiana, che il Partito Democratico è l’espressione politica di un “ceto medio riflessivo” che, timoroso di una nuova “proletarizzazione”, fa leva, reattivamente, sulla sua “presunta” superiorità culturale per denigrare i sostenitori di Berlusconi, supponendosi superiore a quella massa “ignorante”: «essi rappresentano oggi una piccola borghesia culturalizzata […] che [recalcitra] di fronte alla nuova proletarizzazione, quella specifica della cultura di massa e della globalizzazione che corrode i privilegi e le rendite di posizione»62. Questi “ceti medi riflessivi”, «come l’Azzeccagarbugli manzoniano che con il latino maccheronico inganna gli umili, […] credono che l’aver imparato a fare vacanze intelligenti, il saper scrivere un buon tema all’esame di maturità, il consultare le guide gastronomiche alla ricerca del gusto perduto, l’essere informati sull’ultima moda nel campo dell’abbigliamento, l’aver letto il romanzo di cui tutti parlano, e soprattutto l’essere degli assidui spettatori di Annozero, li innanzi su quegli analfabeti che si fanno imbonire dalle reti Mediaset e che, manco a dirlo, votano Berlusconi»63. Se volessimo continuare a “caratterizzare” la fenomenologia culturale di questi ceti medi riflessivi, potremmo andare anche più a fondo delle analisi svolte da Moroncini, fino ad affermare che essi stessi, dal punto di vista culturale, sono il prodotto di quella neo-televisione che rifiutano. Sono, ovviamente, un target diverso da quello cui si rivolgono tante trasmissioni della tv commerciale, ma sono essi stessi “televisivi” fino in fondo e fino ad arrivare a credere di trovare i leader che – a loro dire – mancano alla sinistra (come se il problema fosse questo) in personaggi televisivi come l’eroe “di carta” Saviano64. Si potrebbe qui utilizzare la nozione sociologica adorniana di semi-cultura (Halbbildung), tipico prodotto dell’industria culturale per una piccola-borghesia ormai quasi planetaria (grazie alla comunicazione di massa), che pretende di essere sempre al corrente di tutto e di sapere più degli altri; ma tale semi-cultura finisce per mostrarsi come «la sfera stessa del risentimento, di cui essa accusa coloro che conservano ancora un barlume di capacità critica e autocritica»65.

Sono valutazioni che è difficile non condividere. Tuttavia, proprio queste stesse valutazioni dovrebbero renderci accorti a guardare anche “dall’altra parte”, cioè ancora dalla parte del ceto politico “berlusconiano” che è oggi al potere in Italia. Come non vedere in questo stesso ceto politico l’espressione, ancora più risentita, violenta e cinica, della stessa semi-cultura piccolo-borghese di cui, giustamente, si evidenza la diffusione nei ceti sociali che si oppongono al berlusconismo? E come non vedere in alcune posizioni teorico-politiche, come ad esempio quella di Abruzzese, o quella “aziendale” di un Carlo Freccero – considerato da sempre un guru della neo-televisione – la traccia, neanche tanto nascosta, di una sorta di “identificazione con l’aggressore”, per utilizzare ancora un’espressione adorniana (ripresa dalla psicoanalisi)?

Tuttavia, è del tutto evidente che la difesa della “cultura” che è promossa, senza alcuna capacità di “analisi critica”, dalla sinistra italiana e dai “benpensanti” che parlano e pensano “politicamente corretto”, rischia di essere non solo “conservatrice” ma di accettare il luogo comune ideologico della cultura come “valore”, come l’ultimo “valore” da difendere e conservare “in quanto tale”, l’ultimo valore che possa difenderci dal nichilismo, per dirla con Nietzsche. Che cosa, infatti, accomuna oggi – per la verità già da un certo tempo – il popolo dei consumatori, i ceti medi riflessivi, la sinistra benpensante e la destra cinica, se non il credere nella “cultura” come valore da accettare anche senza capire, da difendere in quanto tale – in particolare se “risorsa economica” –, valore che “funziona” semplicemente perché si suppone esistente? Non c’è programma televisivo che, accanto al “caso umano”, accanto al “crimine efferato” non mostri l’angolo “alto” della cultura, magari anche con standing ovation finale al comico di turno che legge una famosa poesia, espressione degli eterni valori umani.

Ma la cultura come “valore” serve alla “conoscenza”? E se è la conoscenza che si oppone all’ignoranza, allora forse la cultura-ridotta-a-valore non è solo un baluardo e un argine difensivo contro il nichilismo? Un argine che bisognerà abbattere prima o poi, senza che ciò porti al trionfo del cinismo. Mi sembra questo un compito “politico” non eludibile per far avanzare una democrazia “emancipativa”: opporre la conoscenza alla cultura-valore.

1 La democrazia in Italia, a cura di M. Zanardi, Cronopio, Napoli 2011.

 

2 V. Romitelli, Infelicità della coscienza antifascista e democrazia, in La democrazia in Italia, cit. pp. 13-48.

 

3 R. Genovese, La responsabilità della sinistra italiana nell’affermarsi del berlusconismo, in La democrazia in Italia, cit., pp. 123-141.

 

4 M. Pezzella, Società autoritaria e democrazia insorgente, in La democrazia in Italia, cit., pp. 179-211.

 

5 V. Romitelli, Op. cit., p. 27.

 

6 R. Genovese, Op. cit., p..134.

 

7 M. Pezzella, Op. cit., p. 188.

 

8 Ibidem.

 

9 Ivi, p. 189.

 

10 V. Romitelli, Op. cit., p. 45.

 

11 M. Pezzella, Op. cit., p. 204.

 

12 Ibidem.

 

13 R. Genovese, Op. cit., p. 141.

 

14 Ibidem.

 

15 Ivi, p. 140.

 

16 M. Pezzella, Op. cit., p. 199

 

17 Ibidem.

 

18 Ivi, p. 199-200.

 

19 Ivi, p. 200.

 

20 Ivi, p. 206.

 

21 Ibidem.

 

22 Ibidem.

 

23 Ivi, p. 207.

 

24 G. Borrelli, Italia, democrazia possibile?, in La democrazia in Italia, cit., pp. 49-84.

 

25 M. Zanardi, Il capitale umano e l’avvenire della politica, in La democrazia in Italia, cit., pp.85-122.

 

26 G. Borrelli, Op. cit., p. 49.

 

27 Ivi, p. 51.

 

28 Ivi, p. 58.

 

29 Ivi, p. 65

 

30 Ivi, p. 70.

 

31 Ibidem.

 

32 Ivi, p. 71.

 

33 Ivi, p. 72.

 

34 Ivi, p. 74

 

35 Ivi, p. 83.

 

36 M. Zanardi, Op. cit., p. 89.

 

37 Cfr. A. Abruzzese, Elogio del tempo nuovo. Perché Berlusconi ha vinto, Costa & Nolan, Genova 1994.

 

38 M. Zanardi, Op. cit., p. 94.

 

39 Ibidem.

 

40 Ivi, p. 96.

 

41 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), trad. it. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005.

 

42 M. Zanardi, Op. cit., p. 108.

 

43 Ivi, p. 110.

 

44 Ivi, p. 111.

 

45 Ivi, p. 117.

 

46 Ivi, p. 118.

 

47 Ivi, p.120.

 

48 Cfr. A. Badiou, Secondo manifesto per la filosofia, a cura di L. Boni, Cronopio, Napoli 2010.

 

49 Sulla questione dell’evento in Badiou cfr. il saggio di J.-C. Levêque, Politica dell’evento. La filosofia politica di Badiou come pensiero del cambiamento, in Kainos. Rivista on line di critica filosofica, n. 10, Pensieri del presente (www.kainos-portale.com)

 

50 Vedi M. Heidegger¸Lettera sull’umanismo, in Id., La dottrina di Platone sulla verità, Lettera sull’umanismo, a cura di A. Bixio e G. Vattimo, SEI, Torino 1975.

 

51 B. Moroncini, La democrazia variopinta e il caso italiano, in La democrazia in Italia, cit., pp. 143-177.

 

52 Ivi, p. 151.

 

53 Ivi, p. 155.

 

54 Ivi, p. 158

 

55 Ivi, p. 167.

 

56 Ivi, p. 175.

 

57 Ivi, p. 172.

 

58 Cfr. sulla questione delle relazioni tra “corpo” e “potere” cfr. il recente numero 107 di Lettera Internazionale (primo trimestre 2011), con articoli di Dumoulié, Didi-Huberman, Le Breton [et alii].

 

59 B. Moroncini, Op. cit., 176.

 

60 Ibidem.

 

61 Ibidem.

 

62 Ivi, p. 177.

 

63 Ibidem.

 

64 Su Saviano cfr. A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre storie, manifesto libri, Roma 2010.

 

65 Th. W. Adorno, Teoria della Halbbildung, ed. it. a cura di G. Sola, il melangolo, Genova 2010, p. 43.